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Microstorie

Patriarchi, verdi sentinelle di un antico patrimonio

Gli ulivi millenari sono i biglietti da visita di un luogo che “profuma” di storia e atmosfere suggestive

Cartoline da Carovigno

Carovigno, popoloso borgo in provincia di Brindisi a 5 km dal mare, offre un eccellente mix di storia, cultura, natura e tradizioni popolari. La sua Piana degli ulivi è ricca di “patriarchi verdi” dalle forme scultoree affascinanti. È possibile apprezzare questo grande patrimonio inoltrandoci in una rete di sentieri, tratturi e antiche strade, frantoi ipogei e suggestive grotte.

Nei giardini di Carovigno, il Parco Provinciale (a Nord) e il Parco Comunale, troviamo ulivi millenari, un piccolo viale botanico, essenze di macchia mediterranea. il Parco della rimembranza, dedicato ai caduti della Prima Guerra Mondiale, e viali profumati con rose rampicanti.

L’araldica

Lo stemma di Carovigno, riconosciuto il 9 febbraio 1935, come tutti gli emblemi civici del Ventennio fascista era ornato dal fascio Littorio, eliminato dopo la caduta della dittatura. La forma attuale del gonfalone, un «drappo di color porpora, riccamente ornato di ricami d’oro e caricato dallo stemma, con l’iscrizione centrata in oro del nome del Comune» è tipica dell’araldica civica italiana, con stemma «D’azzurro, con un delfino cavalcato da un amorino che suona la cetra».

Le Torri e il Castello

Gli ingressi principali del centro storico di Carovigno sono costituiti dalle due antiche porte, Porta Brindisi e Porta Ostuni, e da due aperture più piccole, l’arco “del Prete” e la “Purticedda”. Della vecchia cinta muraria, spiccano quattro torri: la Torretta del civile, sulla quale si intravvede una meridiana; Torre Giranda e la sua stivatura, Torre “delli Brandi” (purtroppo inglobata in moderne costruzioni; la Torre circolare (del Prete). Ma l’attrazione principale del borgo è l’imponente castello Dentice di Frasso, le cui origini risalgono all’epoca normanna, con chiara vocazione difensiva (lo dimostrano la torre quadrata e gli ambienti sotterranei). A partire dalla fine del XIV secolo, il principe Raimondo del Balzo ampliò il castello e lo fortificò con una seconda torre, questa volta rotonda.

Nel 1492, il castello di Carovigno assunse la caratteristica forma triangolare con l’aggiunta della torre a mandorla ispirata ai progetti del celebre architetto militare Francesco Di Giorgio Martini. Le sue mura imponenti e la forma lanceolata ne fanno un originale esempio di adattamento delle fortificazioni medievali alle nuove strategie belliche. Nel 1791 il Castello entrò a far parte dei possedimenti dei Dentice di Frasso. L’ingresso è decorato con il motto della famiglia Dentice “Noli me tangere”, e il suo stemma nobiliare. All’interno, numerosi emblemi araldici – tra cui quelli delle famiglie Schlippenbach, Loffredo, Caputo, Granafei e Imperiali – raccontano il susseguirsi delle varie feudalità. Spiccano i grifoni a guardia della scalinata che conduce al piano nobile e diverse iscrizioni in latino incise all’interno delle sale. In un parco e in un orto botanico sperimentale, furono coltivate varietà di piante e frutti rari, grazie al contributo del celebre botanico dell’epoca Francesco Ingrosso.

Nel corso della storia, si sono avvicendati illustri visitatori, tra cui Guglielmo Marconi e il futuro re Umberto II. Nel 1961, il castello fu venduto da Luigi Dentice di Frasso all’Opera Maternità e Infanzia. Proprietà della provincia di Brindisi dal 1973, oggi in concessione al Comune di Carovigno, ospita la Biblioteca “ Morelli” e rappresenta, oltre che un patrimonio storico di inestimabile valore, un autentico punto di riferimento culturale e simbolico per l’intera Puglia.

Le Chiese

Nel borgo c’è da vedere la Chiesa Matrice, che risale al Trecento ed è dedicata all’Assunta. Della struttura cinquecentesca resta solo l’abside ed il bel rosone che un tempo si trovava sulla facciata principale. All’interno alcune tele settecentesche di artisti locali.

La Chiesa di S. Anna, vicino al Castello, fu costruita dalla famiglia Imperiali nel XVIII secolo. Tra le altre chiese da visitare ci sono la chiesa di Sant’Angelo (del Quattrocento) e la chiesa del Carmine, con affreschi del Settecento.

Il battimento della ‘Nzegna

Secondo una leggenda popolare, un pastore e un signore di Conversano, mentre contemporaneamente cercavano una giovenca smarrita e l’immagine della Madonna, le ritrovarono in una grotta della contrada di Belvedere a Carovigno. Il pastore e il signore (che fu miracolato), presi da emozione e gioia, per attirare l’attenzione dei contadini della contrada, legarono un fazzoletto colorato (‘Nzegna) al proprio bastone e cominciarono a lanciarlo in aria.

Ancora oggi, il “battimento della ‘Nzegna” viene riproposto durante la processione in onore della Vergine di Belvedere il lunedì, il martedì e il sabato dopo Pasqua.

Tre colpi di grancassa scandiscono i passi dei battitori che, avvolti nella ‘Nzegna, si portano verso il centro e danno inizio alla loro danza. Il suono del piffero li segue e li accompagna rimarcando con lunghe note squillanti, gli attimi in cui le bandiere vengono lanciate in aria ed i respiri degli spettatori si interrompono nell’attesa che i battitori le riprendano al volo prima che tocchino terra. E’ un rito propiziatorio, poiché l’eventuale caduta della ‘Nzegna sarebbe di cattivo auspicio per l’intera città.

Il rito si conclude con l’inchino finale e la deposizione della ‘Nzegna ai piedi della statua della Madonna. Il corteo quindi si ricompone per far rientro in cattedrale.

La ‘Nzegna è una bandiera composta da pezzi triangolari di stoffa multicolore, disposti ad incastro in doppia fila intorno ad un quadrato, all’interno del quale è raffigurato, con gli stessi colori dei triangoli, un fiore a dieci petali pentagonali, stilizzato: la rosa mistica, un simbolo mariano bizantino.

Recentemente il prof. Carito ha attribuito al drappo il significato di “pasquale segno di pace tra la comunità greca e quella di culturale latina“, collocando l’episodio della battitura della nzegna all’epoca della conquista della Puglia da parte dei normanni e alla complessiva ridefinizione dei rapporti coi cristiani di Bisanzio.

Negli ultimi secoli, Battitori della Nzegna sono stati i membri delle famiglie Brandi, Lanzillotti, Di Perna, Maellaro. Attualmente, ad assumere annualmente l’onere e l’onore della Battitura, sono due rappresentanti e discendenti delle famiglie di Sabino e Nicolò Carlucci che se la tramandano di padre in figlio da almeno quattro generazioni.

TORRE GUACETO

La Riserva naturale statale Torre Guaceto, situata sulla costa adriatica dell’alto Salento vicino a Carovigno, San Vito dei Normanni e Brindisi, si estende per 1.016 ettari a terra e 2.227 in mare. Presenta diversi habitat, dal litorale alle zone umide dovute a bonifiche e successivi allagamenti, ed è oggetto di studi scientifici, progetti di educazione ambientale e formazione professionale.

Gestita da un consorzio tra i Comuni e WWF Italia, la riserva è riconosciuta per il valore ambientale delle sue spiagge (premiate con Bandiera Blu) e per la sua biodiversità, che include 670 taxa di flora e numerose specie di fauna, come mammiferi notturni, uccelli e rettili. Tra gli uccelli che prediligono come dormitorio o punto di sosta il canneto di Torre Guaceto vi sono passeriformi come il pendolino e l’usignolo di fiume o uccelli di dimensioni maggiori come il porciglione, gli aironi e il tarabuso. Quest’ultimo, per mimetizzarsi al meglio tra le canne che lo circondano, può rimanere per molto tempo immobile in piedi o ondulare lentamente come canna al vento. Se viene disturbato, assume una particolare “posizione di attacco”. Altri protagonisti di quest’ambiente sono le rondini che in migliaia di esemplari vi stazionano durante i viaggi migratori. Tra i rapaci domina il falco di palude.

Recenti scavi hanno portato alla luce resti di un villaggio fortificato del Bronzo, mentre la scoperta, a partire dal 2019, di una necropoli a cremazione (con 35 tombe) ha evidenziato l’importanza storica del territorio, aprendo prospettive per la creazione di un museo archeologico.

teresa maria rauzino

su “L’Edicola” 14 aprile 2025

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Microstorie

Botteghe del gusto e colombe che si posano sulle tavole della festa

Nella Settimana Santa si rinnovano riti gastronomici di grande intensità. Forni e pasticcerie restano baluardi della bontà che supera i confini locali

Viaggio gourmet

La Puglia, terra di tradizioni radicate e di sapori autentici, vive la Pasqua con un’intensità che si riflette soprattutto nella gastronomia. E i forni e le botteghe artigianali svolgono un ruolo centrale nella preparazione delle specialità pasquali come le “scarcelle” a base di pasta frolla, decorate con zuccherini colorati e un uovo sodo al centro (simbolo di rinascita) a forma di colomba, di cuore, o cestino. Diffusissimi nel foggiano e nel barese sono i taralli dolci, sbollentati prima di essere cotti in forno e poi glassati con una copertura bianca di zucchero (gileppe).

Ci sono poi i “puddhriche” o “cuddhura”, pane dolce o salato intrecciato con uova incorporate, diffuso soprattutto nel Salento. Da gustare i pasticciotti leccesi e il cavicione di Ischitella (a base di sponsali uvetta e acciughe).

I luoghi

Uno spazio meritano i Forni d’eccellenza, che poniamo all’attenzione dei nostri lettori in un tour tutto pugliese. Emergente è il Forno Sammarco di San Marco in Lamis in Capitanata. Il suo maestro panificatore, Antonio Cera, è noto per aver valorizzato i grani antichi e le ricette della tradizione con un approccio quasi filosofico, una sorta di rivoluzione culturale. Educa i consumatori, e ha creato una rete consapevole di agricoltori e ristoratori che esaltano la salute e la tradizione.

Oltre al pane, il forno offre dolci tradizionali e biscotti, mantenendo viva la cultura gastronomica del Gargano. Le sue colombe artigianali e le scarcelle reinterpretate sono ormai celebri a livello non solo nazionale. Una nuova proposta per le festività è la “Palummella”, un nuovo lievitato pasquale ideato dal foodblogger Alessandro Tipaldi, realizzato in collaborazione con il forno Sammarco, oltre che con il bar Cinquanta Spirito Italiano. Questo lievitato si distingue per la sua composizione con salumi e formaggi del Sud, e fave di cacao che gli conferiscono una nota agrodolce, proponendo un’alternativa alla dolce colomba.

Il secondo forno da segnalare è il Panificio Di Gesù di Altamura. Nel cuore della capitale del pane Dop, questo forno produce pani e dolci pasquali secondo metodi tramandati da generazioni, usando solo lievito madre e cottura in forno a legna. La colomba artigianale Di Gesù nasce da un impasto soffice, lievitato naturalmente, arricchito da ingredienti selezionati e decorato a mano con glassa croccante alle mandorle. Nessun conservante, solo pazienza e passione.

Le eccellenze

Tra le botteghe tipiche e pasticcerie artigianali da segnalare la Dolceria Sapone di Conversano. Celebre per le colombe pasquali con ingredienti del territorio: fichi, mandorle di Toritto, limoni del Gargano, unisce tradizione e creatività. La colomba, simbolo indiscusso della Pasqua, è un lievitato che nasce dalla cura del lievito madre e da una lenta lavorazione. Infatti, il ciclo produttivo si completa dopo 36 ore di lievitazione naturale. Ecco la Colomba al Limoncello, di soffice pasta lievitata ricoperta con cioccolato bianco e farcita con una deliziosa crema al limoncello; colomba albicocca e cremino alla mandorla, in cui le albicocche candite e la pasta di mandorle creano un gusto esclusivo e unico, con sentori di miele di trifoglio e scorze di agrumi; soffice, delicata e senza canditi, è la Colomba al pistacchio. Ancora, tra le tante varianti, c’è la colomba “Intensamente fondente” con cioccolato, glassata di mandorle, nocciole e cacao, e indicata per gli intolleranti al lattosio.

Marchio storico della pasticceria salentina, la Martinucci di Maglie e Salento, propone ogni anno un assortimento pasquale che va dai dolci tradizionali alle colombe gourmet. Una chicca è l’agnello in pasta di mandorla, modellato con maestria e adornato con dettagli raffinati dai maestri pasticceri della casa. Un capolavoro che incanta occhi e palato, una dolcezza che dura da oltre 70 anni.

Nella seconda metà degli anni ’20, la famiglia Panese fonda un forno adiacente alla propria abitazione a Specchia. Nel 1950, nasce la Pasticceria Martinucci, un laboratorio che diventa un crocevia dei più grandi ingegni della tradizione pasticcera italiana: Siciliani, Napoletani e Veneti, tutti chiamati da Rocco Martinucci e sua moglie Annunziata Panese a cedere le proprie conoscenze e manualità. Oggi, l’azienda ha aperto ben 25 store ed esporta la “dolce tradizione salentina” in Italia e in molti paesi del mondo, producendo pasticceria, gelati, torte, dolci monoporzione e tiramisù, che è la referenza più ricercata.

In Capitanata

E infine si torna in Capitanata per un salto alla Pasticceria Casoli di Troia, in provincia di Foggia. Famosa per la scarcella foggiana, realizzata in diverse dimensioni e con decorazioni artistiche, si sta affermando per la “Colomba passionata”, gusto classica, arancia, liquore strega, estasi, pistacchio e nocciola.

È sicuramente una deliziosa alternativa alla Colomba tradizionale. Lievitata naturalmente, il che la rende estremamente soffice, viene farcita con una delicata crema alla ricotta di mucca pecora e bufala, e ricoperta poi con uno strato di pasta di mandorle pugliesi. Questa Colomba nasce dalla Passionata Dolce, inventata dai coniugi Lucia e Nicola che hanno fatto della loro passione un lavoro, dando a questo esclusivo dolce il nome “Passio-nata, Nata dalla Passione”.

All’ombra della cattedrale di Troia gli undici gusti della Passionata vengono declinati come gli undici raggi del Rosone.

Teresa Maria Rauzino

su “L’Edicola” 15 aprile 2025

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Microstorie

Quei primitivi nuraghi salentini tra frantoi e set cinematografici

A cavallo tra Ionio e Adriatico, Specchia fu luogo prescelto dalla famiglie nobili medievali per le sue tipicità. Il tour nel centro storico alla scoperta delle architetture industriali legate alla lavorazione dell’olio

Cartoline da Specchia

Specchia, in provincia di Lecce, è un piccolo borgo di 4.502 abitanti nel cuore del Salento, uno dei più belli d’Italia. Da un’altura strategica domina la pianura sottostante, a metà strada tra Ionio e Adriatico. Recentemente è stato riqualificato con la creazione di un “albergo diffuso”, che rappresenta la volontà di mostrare un territorio autentico, e preservarlo dai rischi del turismo di massa. Un esempio seguito da molti piccoli Comuni del Salento e italiani che hanno recuperato e valorizzato vecchi edifici in centri storici, evitando di invadere il territorio con nuove costruzioni. Un caso che ha fatto scuola, analizzato in varie tesi di laurea.

Il nome

Il nome di Specchia deriva da “specchie”, manufatti tipici del Salento e della Murgia realizzati con lastre calcaree sovrapposte a secco in forma conica, la cui origine risale probabilmente al periodo medievale. La loro funzione è oggetto di dibattito. Per lo storico dell’arte francese Émile Bertaux le “specchie” erano una sorta di ““nuraghi di Terra d’Otranto” crollati nel tempo. Oppure “enormi torri di avvistamento necessarie alla difesa”. La “specchia di pietre” era chiamata anche “Specla de Amygdalis” con riferimento agli alberi di mandorlo di cui era ricchissima la zona. Le due ipotesi sono avvalorate dallo stemma comunale che rappresenta un “Mandorlo fiorito poggiante su un cumulo di pietre e sormontato da una corona con cinque torri”.

Una caratteristica Specchia salentina

La Storia

Probabilmente nel IX secolo un primo piccolo nucleo di contadini e pastori occupò questa collinetta lontana dal mare e al riparo dalle frequenti scorrerie saracene. Con la venuta dei Normanni, per la Terra d’Otranto iniziò l’era feudale. Nel 1190, Tancredi diventa re di Napoli e conte di Lecce. Specchia viene infeudata a Filiberto Monteroni.

Nel 1414, la regina Giovanna invia nel Salento contro gli Orsini-Del Balzo un esercito guidato da Luigi III d’Angiò e da Giacomo Caldora, famoso capitano di ventura che negli anni 1434-35 assedia Specchia, la espugna e la distrugge.

Alfonso I D’Aragona, re di Napoli e di Sicilia, nel 1452, concede a Raimondo Del Balzo il permesso di ripopolare la rocca. Riedificati il castello e le mura, si concede asilo ai fuggiaschi dei centri costieri, terrorizzati dai Turchi dopo il sacco di Otranto (1480).

Dai Del Balzo ai Di Capua, ai Gonzaga, ai Brajda, ai Trane, il feudo passa in mano alle nobili famiglie fino all’abolizione del feudalesimo nel 1806.

Chiese e palazzi

Scrive lo storico Antonio Penna: «Al visitatore che in silenzio e in solitudine si avventura per il borgo, parleranno i semplici e composti portali catalani o barocchi, le cornici di pietra leccese, le iscrizioni in italiano o latino, i beccatelli dei balconi proiettati sulle strade, le logge panciute in ferro battuto, gli archetti pensili, che ancora adornano le facciate di case un tempo signorili, i fregi, le statue, le colonne, le edicole votive con immagini sacre sbiadite dal tempo».

Interessante è la chiesa di S. Nicola, edificata nel IX-X secolo, nel 1587 restaurata e adattata al rito latino, come ricorda una epigrafe posta sulla facciata. S. Eufemia, circondata da uliveti, è una suggestiva chiesetta di origine bizantina a tre navate separate da colonne monolitiche, con archi a tutto sesto. Il convento dei Francescani Neri, costruito nei primi decenni del Cinquecento, nel Settecento fu rinnovato in stile barocco; trasformato in educandato femminile nel 1885, e nel 1945 in orfanotrofio, fu chiuso nel 1980.

Di costruzione seicentesca sono le chiese dell’Assunta e di S. Antonio, con annesso convento dei Domenicani. Anche la Matrice fu edificata nel 1605 ma ha subito molti rifacimenti. I pilastri sono in pietra leccese e stuccati alla veneziana, mentre gli archi trionfali sono decorati con motivi floreali.

Il centralissimo castello Risolo è una struttura fortificata di impianto cinquecentesco, con due torrioni quadrati posti agli angoli dell’antica costruzione. Furono i Protonobilissimi, marchesi di Specchia nei sec. XVI e XVII, a trasformarlo in palazzo marchesale.

I frantoi ipogei

Il Comune di Specchia ha aderito alla Strada dell’Olio “Jonica-Antica Terra d’Otranto”. Il suo extravergine è un prodotto di qualità, con marchio “De.C.O Specchia”. Nel borgo antico è possibile visitare i frantoi ipogei, testimonianza di architettura industriale e della vita socio-economica del Salento tra XV e XIX secolo, basata sulla produzione di olio lampante esportato in tutta Italia. L’antico frantoio ipogeo Scupola scavato nel tufo custodisce varie macine, torchi “alla genovese” e alla calabrese”, vasche di spremitura e di decantazione, depositi di stoccaggio delle olive e posti di ristoro per gli operai. A Specchia è possibile visitare anche il frantoio ipogeo di via Perrone e il frantoio del Convento dei Francescani Neri.

Ciceri e tria

Gli eventi culturali e le sagre offrono varie opportunità per scoprire la cucina locale, famosa per piatti come “ciceri e tria” (pasta fritta e ceci). Si tratta di un primo piatto basato su una ricetta antica (il poeta Orazio ne menziona l’esistenza già nel 35 a.c.): pasta fresca realizzata con farina, semola rimacinata, acqua e olio d’oliva, stesa sottile e trasformata in tagliatelle corte a forma a spirale: la particolarità è che una parte viene fritta, dando consistenza al piatto. Tra le innumerevoli ricette di questa terra di ricchissima tradizione gastronomica, bisogna ricordare la minestra con fave e carciofi e l’insalata di melanzane alla griglia. Da gustare le caratteristiche frise con l’olio d’oliva e i pomodori e come dolce il pasticciotto a base di frolla, crema pasticciera e amarene.

Set cinematografico

In questo affascinante borgo del Salento sono stati girati diversi film: nel 2000 “Sangue vivo”, diretto da Edoardo Winspeare; nel 2006 “Eccezzziunale veramente – Capitolo secondo… me”, diretto da Carlo Vanzina, con Diego Abatantuono. Le scene furono girate in piazza del Popolo e in alcuni palazzi storici. Nel 2013 il film “La santa” diretto da Cosimo Alemà. Questi film testimoniano come il borgo sia stato scelto come set cinematografico per valorizzarne le bellezze architettoniche e paesaggistiche.

La rinascita del borgo con l’albergo diffuso

Agli inizi degli anni ’90, chi visitava Specchia non trovava quasi più abitanti nel centro storico. L’emigrazione aveva colpito l’intera area. Le case erano chiuse e abbandonate. Nel 1995 la locale Pro Loco e alcuni artisti cominciarono a far rivivere questi luoghi con “SpecchiArte”. Quadri, fotografie e sculture esposte lungo le stradine e all’interno delle abitazioni spoglie di mobili, per valorizzare un borgo antico sconosciuto ai più.

Ma Specchia deve la sua rinascita al progetto Leader del Comune e del GAL “Capo S. Maria di Leuca”: furono ristrutturate una ventina di vecchie abitazioni e offerte in locazione non più come normali appartamenti, ma come esempio italiano di “Albergo Diffuso”, una struttura ricettiva innovativa che ha favorito il contatto diretto tra turisti e abitanti. Le case arredate in stile “arte povera” richiamavano l’atmosfera e il design di un tempo dando “visibilità” all’artigianato locale, nel rispetto dei gusti e delle esigenze del turista moderno, che non si sentiva più un ospite esterno, ma un abitante del borgo, condividendo i ritmi di vita dei residenti, gustando i prodotti eno-gastronomici e partecipando alle manifestazioni locali tramandate di generazione in generazione.

Questo progetto, supportato anche da un’agenzia turistica americana, ha attirato visitatori e contribuito alla rinascita del borgo, valorizzando il suo patrimonio storico e culturale. I flussi turistici sono cresciuti di anno in anno. Il flusso turistico è proseguito in maniera costante e ha prodotto un “effetto volano” notevole. un territorio rurale nuovamente vissuto, scoperto, amato dai suoi abitanti e da tanti viaggiatori provenienti dagli USA, Giappone e Danimarca, dal Centro e dal Nord d’Italia.

Teresa M. Rauzino su L’Edicola per l’Italia 23 marzo 2025

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Microstorie

I dodici paesi del Griko nella Notte della Taranta

Cartoline dall’area del Salento di cultura ellenofona e che fa riferimento a Calimera. Le influenze culturali e linguistiche risalenti alla Magna Grecia e alla dominazione bizantina

La Grecìa Salentina è un’area segnata da influenze risalenti alla Magna Grecia e alla dominazione bizantina. Un suo retaggio è il Griko, è un’antica lingua ellenica parlata oggi da circa ventimila pugliesi. A tutt’oggi, la “grecità” è considerata tratto dominante della cultura salentina. Scoprire il Griko significa esplorare una lingua unica e la sua storia affascinante, e lo si può fare soltanto visitando i luoghi dove è ancora viva. L’isola linguistica è composta oggi da 12 comuni: Calimera (capofila), Carpignano Salentino, Castrignano dei Greci, Corigliano d’Otranto, Cutrofiano, Martano, Martignano, Melpignano, Soleto, Sternatia e Zollino e Sogliano Cavour. La Grecìa Salentina è nota per le sue tradizioni culturali e gastronomiche. Eventi come la Notte della Taranta a Melpignano celebrano la musica tradizionale, attirando visitatori da tutto il mondo. Questa piccola enclave linguistica offre numerosi luoghi da visitare, come palazzi storici e chiese.

Il luogo

Andiamo alla scoperta di Calimera, un borgo di 7.297 abitanti in provincia di Lecce. Il suo nome deriverebbe dal greco Kalimèra, che significa “buon giorno” o, secondo alcuni studiosi, “bella contrada” (kallá meréa). Altre ipotesi puntano, invece, su una derivazione bizantina del toponimo “cal/gal”, che significa “anfratto, luogo riparato”. Il gonfalone è un drappo azzurro su cui campeggia un sole splendente: «D’azzurro, al sole d’oro”. Nella simbologia araldica il sole rappresenta l’immortalità e la regalità.

La storia

Il borgo si trova lungo la Via Traiana Calabra, l’antica strada che collegava Otranto a Lecce e Brindisi. Le sue origini sono incerte. Come per gli altri centri ellenofoni del Salento, il dibattito storiografico lega la sua nascita ad una colonizzazione bizantina o a più antiche radici magno-greche. Oggi attivo centro del terziario, Calimera in passato era nota per la produzione del carbone, attività che proveniva dall’utilizzo del legname del grande bosco. I “craunàri” erano carbonaie venditori ambulanti di carbone e avevano un santo protettore tutto loro: S. Biagio. Oggi è rimasto molto poco del borgo antico, ma Calimera si distingue nell’area ellenofona per l’intensa attività culturale volta al recupero e alla valorizzazione della grikítà. Simbolo tangibile della “ellenicità” di Calimera, la bella stele attica donata dal Municipio di Atene al centro salentino nel 1960. Merita di essere segnalata una vasta produzione letteraria e una ricca produzione musicale che riesce a mantenere vivo un patrimonio collettivo di canti religiosi, di lavoro e di lutto.

Le chiese

La chiesa Matrice di San Brizio, costruita nella centrale piazza del Sole nel 1689 sulle rovine di un tempio più antico, ha un ampio portale barocco, sul quale troneggia la statua in pietra leccese del santo patrono. L’interno, a una navata a croce latina, presenta nove altari con tele di valore, il primo altare dedicato alla Madonna della Misericordia mostra un originale quadro di Madonna gravida, attribuita al Catalano. Alle spalle della chiesa un massiccio campanile a quattro piani.

Dedicata a San Vito è un’antica chiesetta risalente al Cinquecento, ubicata nella campagna a est del cimitero, vicino all’antico Bosco di Calimera. Per la Pasquetta, il Lunedì dell’Angelo, la popolazione di Calimera vi si reca per tradizione e compie ancora oggi il rito del passaggio attraversando un grande masso forato che emerge dal pavimento dell’unica navata della chiesa. È una pietra che richiama un rito propiziatorio di fertilità di origine pagana.

I musei

Il Museo di Storia naturale del Salento, a 2 chilometri dal centro di Calimera, è il museo più grande del Sud Italia. Narra la storia del Pianeta Terra. Per poterlo apprezzare, è necessario visitare tutte le sezioni, da quella di mineralogia a quelle di teratologia, di paleontologia, di astronomia. Oltre che museo, è anche Osservatorio faunistico della provincia di Lecce Centro di recupero della fauna selvatica, accoglie e cura animali esotici abbandonati dai proprietari o trovati in precarie condizioni come fauna selvatica e tartarughe marine. Il museo dispone di uno staff di studiosi altamente qualificati che, oltre a organizzare regolari spedizioni scientifiche per lo studio della fauna, soprattutto in Africa, intrattengono rapporti di collaborazione per la ricerca scientifica con università e organismi nazionali e internazionali (Gabon, Kenia, Uganda in Africa e Costa Rica in Sud America).

Nel centro storico di Calimera, in una caratteristica “casa a corte” che è “contenuto”, oltre che “contenitore”, il punto di incontro con la cultura locale è, dal 2003, la “Casa-museo della civiltà contadina e della cultura grika”, realizzata dal Circolo Arci Ghetonìa (Vicinato, ingriko), che dal 1985 si occupa di ricerca, valorizzazione e promozione del territorio: non solo oggetti di tradizione, ma biblioteca, emeroteca, raccolta di video, cd, consentono di conoscere l’anima di un popolo.

Quale futuro per il Griko?

Il flusso migratorio greco verso il Salento, secondo gli studiosi, si colloca in epoca antica (Magna Grecia) e durante la dominazione bizantina, con l’arrivo durante l’VIII secolo di religiosi greci che vi diffusero la cultura, la lingua greca, celebrando secondo il rito ortodosso. Ai bizantini subentrarono i normanni, gli svevi, gli angioini, gli aragonesi e gli spagnoli. Tempi difficili per il clero greco che restò attivo nelle sole zone di Otranto, Gallipoli, Nardò e Calimera. I monaci cattolici scalzarono gli ortodossi e anche la lingua greca fu pian piano soppiantata dal latino, anche se battesimi e matrimoni furono ancora celebrati con rito greco per tutto il ‘700. Dopo la seconda guerra mondiale, sia a causa dell’ emigrazione, sia per la diffusione dei mezzi radiotelevisivi, il numero dei parlanti è diminuito. Negli ultimi decenni, sono stati avviati vari progetti per preservare e promuovere la cultura e la lingua grika. Con legge dell’8 giugno 1990 n. 142, fu istituito ufficialmente il Consorzio dei comuni della Grecìa Salentina. Dal 2001 è l’Unione dei Comuni della Grecìa Salentina a coordinare iniziative culturali, educative e turistiche per valorizzare questo patrimonio unico, cercando di coinvolgere anche le giovani generazioni nella riscoperta delle proprie radici. Ma la lingua grika, trasmessa solo oralmente di generazione in generazione, potrebbe sopravvivere attraverso una sua metamorfosi: da tradizione orale potrebbe diventare lingua scritta; essere codificata e organizzata nelle sue regole morfologiche e sintattiche e resa disponibile per essere insegnata e appresa.

A provarci fu  Franco Corlianò. Autore di libri, canzoni e poesie, oltre che pittore, è stato uno dei pilastri della cultura grika. La sua canzone “Klama”, conosciuta come “Andramu pai” sul dramma dell’emigrazione, fu resa celebre dalla cantante greca Maria Farandouri. Ma la sua eredità è il Vocabolario di Griko, un’opera di fondamentale importanza per la sopravvivenza della lingua ellenofona.

(Teresa M.Rauzino su L’Edicola per l’Italia 30 marzo 2025)

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Il marchio slow, olio e biomoschettieri del gusto orsarese

CARTOLINE DA ORSARA DI PUGLIA

Il piccolo borgo sui Monti Dauni è un centro di tutela e valorizzazione delle tradizioni non solo gastronomiche. Famoso per “Fucacoste e cocce priatorje” ha anche una lunga storia e luoghi di particolare suggestione.

Lo spopolamento dei borghi, il mancato utilizzo delle risorse forestali, un’agricoltura che non sa più valorizzare le sue storiche produzioni. La crisi delle aree interne sta cambiando la geografia umana dei territori. L’antidoto? Si chiama «restanza» termine coniato dall’antropologo Vito Teti e diventato un bestseller per Einaudi. Il concetto è che al diritto a migrare corrisponde il diritto a restare, costruendo un altro senso dei luoghi e di sé medesimi. È un continuo aggiornamento della tradizione. Per farlo servono però strumenti adeguati.

A provarci è Orsara di Puglia, un borgo di 2.485 abitanti che si erge a 635 sul livello del mare sui monti del Subappennino daunio, in provincia di Foggia. Unico comune in provincia di Foggia con i marchi di “Città Slow”, “Città dell’Olio” e “Città Bio”, Orsara è diventato un bio-distretto dell’agricoltura sostenibile che rispetta i più alti standard qualitativi.

La storia

Orsara ha origini antiche. In epoca romana, fu teatro di operazioni belliche durante la seconda guerra punica; fu poi attraversata dalla via Traiana. Nell’VIII secolo, una comunità di monaci basiliani si stabilì in zona, venerando l’arcangelo Michele in una grotta, sull’esempio di Monte Sant’Angelo da dove il culto del patrono dei Longobardi si era diffuso in tutta Europa. Nel XIII secolo, dal 1228 al 1294, i cavalieri dell’ordine di Calatrava, provenienti dalla Spagna, si insediarono nel territorio.

Denominato Orsara Dauno-Irpina dal 1861 al 1884, fino al 1927 il Comune faceva parte della provincia di Avellino. Gli orsaresi parlano un dialetto influenzato dalle vicende storiche del loro territorio. Il toponimo “Orsara” potrebbe derivare dalla presenza di orsi nella zona o dal nome di un notabile longobardo-bizantino. L’emblema comunale avvalora la prima ipotesi, con uno stemma araldico in cui campeggia, su uno sfondo azzurro, un orso accompagnato dal suo cucciolo “entrambi di nero, ritti e con la zampa sinistra alzata, sostenuti dalla pianura d’oro, il tutto addestrato dalla quercia di verde, fustata al naturale, nodrita nella pianura”.

Il culto di san Michele

Le tradizioni religiose sono fortemente radicate. Sorta lungo la via Francigena, vi è l’abbazia dell’Angelo di Orsara. Sorge sul fianco scosceso di un vallone, e si è sviluppata intorno alla grotta naturale di San Michele, che è accessibile da una chiesa del XII secolo. Ha un soffitto a volta e ospita una statua dell’Arcangelo durante le celebrazioni. Il fianco Nord, con piccole aperture e nicchie naturali, dove sono incise delle croci e dei frammenti di iscrizioni che testimoniano il passaggio di pellegrini e la devozione popolare.

All’interno del complesso abbaziale sono inglobate la chiesa di Santa Maria e la cappella dell’Annunziata: la prima, costruita nel XVI secolo e ricostruita dopo il terremoto del 1930, si distingue per il suo stile gotico e per le vetrate colorate; la seconda, monumento nazionale, dell’antico tempio fondato nel XII secolo da monaci spagnoli lungo la via Francigena: la presenza dei cavalieri di Calatrava dal 1228 sottolinea l’importanza storica e culturale del luogo, che divenne un centro di pellegrinaggio con tradizioni religiose che perdurano ancora oggi.

La chiesa di San Nicola di Bari, già esistente nel 1127 fu completamente barocchizzata a partire dal 1622. Qui nel 1590 fu trasferita la sede parrocchiale, che precedentemente era nell’antica chiesa abbaziale. Seicentesche sono le statue di San Michele, opera del napoletano Giacomo Colombo, e della Madonna della Neve, opera del napoletano Aniello Stallato. Del 1777 è il complesso e ricco altare marmoreo. Prezioso è un calice in argento realizzato da un maestro Nicola Aventino di Sulmona tra il Trecento e il Quattrocento. Vi è poi un bel un crocifisso bifronte in pietra del XV o XVI secolo, di scuola gotico-fiamminga, e un pregevole organo del 1756.

I palazzi

Orsara di Puglia conserva un patrimonio monumentale e artistico di rilievo. Nella zona dell’abbazia e del Palazzo Baronale, in largo San Michele, sorge Palazzo Varo, un bell’ edificio rinascimentale del XVI secolo che conserva l’architrave nobiliare sul portone, la scalinata interna in pietra e le cantine che si aprono sulla piazza. Da circa un secolo di proprietà della diocesi, Palazzo Varo ospita in alcuni locali al primo piano il Museo Diocesano con un’ampia e interessante collezione che spazia dal Neolitico al XX secolo, mixando reperti archeologici che testimoniano la presenza di popolazioni osce-irpine, opere d’arte e oggetti d’uso comune.

L’imponente Palazzo di Torre Guevara, eretto nel 1680 a sette chilometri da Orsara, nella Piana di Giardinetto, era una sontuosa tenuta di caccia, a tre piani con un impianto rettangolare di sessanta metri per venti e con ben 80 stanze. Era una delle dimore reali della corte aragonese e poi borbonica di Napoli.

Alla ricerca dei sapori perduti

La cucina orsarese  riflette la tradizione del Tavoliere, con una forte presenza di pasta fatta in casa come orecchiette, fusilli, cicatelli, “maccarun a curtiell” e “p’zzell”. Le zuppe di legumi, come “lajanell e fasul” (laganelle e fagioli), sono arricchite con peperoncino. La presenza di allevamenti locali favorisce piatti a base di carne, tra cui l’arrosto con patate e una varietà di salumi come salsicce, soppressate e prosciutti.

Le verdure, specialmente le erbe selvatiche, occupano un posto centrale nella gastronomia orsarese. L’asparago verde della Daunia è particolarmente pregiato e in attesa del riconoscimento IGP. Altre erbe spontanee, come i cardi selvatici, il marasciuolo e le cimette di senape selvatica (“lassanell”), sono utilizzate in diverse preparazioni tradizionali.

Un promotore di questa cucina è lo chef Peppe Zullo, noto come “cuoco contadino”, che valorizza le erbe selvatiche e gli ortaggi locali attraverso la filosofia “Dalla terra alla tavola”. Ha creato il “Bosco dei Sapori Perduti” e gestisce un orto di 25.000 metri quadrati, contribuendo alla promozione delle eccellenze gastronomiche di Orsara.  Zullo  coltiva frutti introvabili altrove come la mela limoncina (piccola come un’albicocca, dolce e succosa), oltre alla borragine, salvia dal fiore rosa, timo stellato, menta greca e nespole, spiegando a tutti l’importanza del recupero dei frutti perduti. 

Durante l’estate, Orsara attira visitatori per il suo clima fresco e un ricco carnet di eventi culturali ed enogastronomici, ma è una meta da scoprire tutto l’anno. Ad esempio, il 1º novembre, secondo la tradizione della notte di Ognissanti, le anime del Purgatorio tornano sulla terra e, per accoglierle e consolarle gli orsaresi posizionano nelle strade del borgo le zucche intagliate e illuminate da lumini (cocce priatorje), oltre ad accendere falò di rami secchi di ginestre (fucacoste).

Il dolce tipico, comune a molti paesi del meridione (grano cotto mescolato a chicchi di melograno e noci tritate e condito con vincotto) a Orsara viene chiamato “muscetaglje”, forse dal francese “mouche taille”. Da assaporare…

Teresa Maria Rauzino

su “L’Edicola per l’Italia” 16 marzo 2025

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Microstorie

Sul Promontorio un omaggio alle “Funtanedde”

Cartoline da Ischitella

Ischitella

Dal centro abitato, la vista spazia dalle colline circostanti al lago di Varano, al mare Adriatico fino alle isole Tremiti. In alcune giornate particolarmente limpide si possono scorgere le coste del Molise, dell’Abruzzo e della Dalmazia. Siamo a Ischitella, un borgo di 4139 abitanti nel cuore del Parco Nazionale del Gargano.

Qui il territorio comunale è un inno all’acqua con numerose sorgenti cui è dedicata la nota canzone popolare “A vie de Funtanedde”.

Le Funtanedde

Alla Folicara (a Fulcare), la “faggeta depressa”, uno dei “popolamenti” considerati “relitti” di un’area più ampia occupata durante l’ultima glaciazione.  Particolari condizioni microclimatiche, come le “forre” (dove l’inversione termica mantiene temperature basse e alta umidità),  e la presenza  di venti umidi provenienti dal mare, creano un habitat favorevole a soli 200 metri, rispetto ai 1000 e 1700 metri sul livello del mare della faggete nell’Appennino.

Nelle dune dell’istmo di Varano prospera la macchia mediterranea. E poi sono gli estesi oliveti a dominare il paesaggio.

Le origini

La presenza umana risalirebbe al neolitico superiore (3000 a.C.), riscontrato da materiale litico finemente lavorato e ceramica rinvenuto presso le stazioni di Grotta Pippola, Monte Grande e il canale di Scarcafarina. Alla “Civita” o “Niuzi” troviamo (purtroppo nel più completo abbandono) i resti di necropoli risalenti al V-IV secolo a.C.

La tradizione, non suffragata da fonti certe, tramanda che a Ischitella  nel 970 si era accampato un gruppo di musulmani che  facevano scorrerie sui paesi limitrofi, poi cacciati da mercenari slavi al soldo dell’imperatore Ottone I. Successivamente troviamo il nome di Ischitella citato in una bolla di Papa Stefano IX del 1058, che, accordando la sua protezione  all’Abbazia di Càlena (Peschici), vi includeva come pertinenza la cella ischitellana di San Pietro in Cuppis. In un documento svevo, risalente al 1225, viene attribuito a Ischitella il nome di “Castrum”.

Il borgo si divide oggi in due parti: la medievale “Terra” e l’ottocentesca “Ponte”.

Le porte d’entrata per il centro storico hanno un’origine antica quanto il paese stesso. La Portella si trova nei pressi del Giro Esterno, mentre la Porta Grande è presente nella Via Sotto le Mura. Una terza porta fu demolita nell’ottocento per collegare il centro storico al nuovo abitato.

Nel 1646 Ischitella subì vari crolli durante il disastroso terremoto del Gargano, che qui causò 86 vittime.

Il Palazzo  e il Casino di caccia dei Principi Pinto 

Il palazzo Pinto (oggi Ventrella) sorto sui ruderi dell’antico castello del XII secolo, crollato per il sisma, fu ricostruito dal principe Francesco Emanuele Pinto nel 1714. Danneggiato da un incendio nel 1804,  presenta aggiunte che, in parte, alterano la linea settecentesca. L’interno, in gran parte ristrutturato dalla famiglia Ventrella, conserva grandiosi saloni con i soffitti finemente decorati e arredi d’epoca. Essendo di proprietà privata, purtroppo non è  visitabile. In località Niuzi, il Casino di Caccia vanvitelliano dei principi Pinto è stato trasformato dai Ventrella in una “dimora di charme”.

Palazzo Pinto (oggi Ventrella)
Casino di caccia dei Principi Pinto (oggi Ventrella) in località Niuzi (agro di Ischitella)

Le chiese

L’ex convento di San Francesco nasce come piccola cappella donata al santo (in pellegrinaggio sul Gargano), da Matteo Gentile, feudatario di Ischitella. Dalla visita di san Francesco trae origine la leggenda del “Cipresso” miracolosamente germogliato dal bastone che il santo piantò a terra quando si inginocchiò sul sagrato per pregare.

L’abbazia  di San Pietro in Cuppis, che  risale all’XI secolo, è purtroppo “sgarrupata”. Presenta particolarità architettoniche rare.

La chiesa di Sant’Eustachio,  eretta nel ‘700 dai Pinto come cappella privata,  conserva preziose tele del Settecento napoletano e un raro “Bambinello” donato dal principe Francesco Emanuele Pinto, noto per i grandiosi presepi che allestiva nel suo palazzo napoletano sulla riviera di Chiaia. 

Chiesa di sant’Eustachio, un tempo Chiesa di San Michele

La chiesa della SS.ma Annunziata (nota come  Crocefisso di Varano), costruita sulle rive del lago di Varano nel X secolo e ampliata nel XVI, sorge sul sito della  medioevale Bayranum, spopolata nel 1500 e oggi scomparsa. Cosa resta? Un rudere della cinta muraria, oltre alla Torre piccola  e alla Torre grande (Torre Sanzone),  in località Foce Varano, oggi purtroppo cadenti, che rappresentano le torri costiere più antiche del Gargano. Hanno la struttura architettonica arcaica a base cilindrica e merli a coda di rondine rari nelle Torri pugliesi a base quadrangolare. Costituivano il sistema difensivo durante il vicereame spagnolo nel Regno di Napoli. Furono probabilmente edificate tra il 1269 e il 1270 da Riccardo di Lauro per conto di Carlo I d’Angiò.  Un patrimonio architettonico che meriterebbe di essere restaurato e valorizzato.

A TAVOLA

Specialità gastronomiche e la “Cruedda”

Un aroma intenso aleggia nel  borgo antico di Ischitella durante il periodo pasquale, quando per tradizione si prepara il “Cavicione” (Calzone), secondo un’antica ricetta quaresimale contadina, farcito con cipollotti sponsali, uvetta e acciughe. Il risultato è un ricco sapore agrodolce … Attenzione però a non chiamarlo dolce o pizza, gli Ischitellani tengono a precisare che è il “loro cavicione”.

Le tipicità

Il croccante è un dolce di mandorle tritate e zucchero, mescolati e cotti a fuoco lento fino a ottenere un composto omogeneo, da compattare a forma di cestino, vassoio o piatto, e ornare con i  “fruttini” di pasta di mandorle.

Un simbolo dell’artigianato locale è la “Cruedda“, cesto o cestina di paglia lavorata a mano e decorata con fili colorati. La paglia di grano della varietà Bianchetta, legata insieme da filo di lino e da giunco, è decorata con  ritagli di stoffa colorata, una sorta di stemma dei poveri per identificare le cruedde.  

Il Tempo

Esse  scandivano i ritmi delle giornate come il ritrovo delle lavandaie al ruscello o il trasporto del pane al forno; ciò imponeva che fossero immediatamente riconoscibili dai proprietari. La Cruedda veniva utilizzata per contenere di tutto: pasta fresca fatta a mano, pane, frutta, panni da lavare,  corredo nuziale, paramenti sacri delle chiese. Oggi la Cruedda è stata riportata in auge dall’Associazione omonima ed è un souvenir molto apprezzato dai visitatori.

Cruedde

IL PERSONAGGIO

Pietro Giannone dall’eresia al premio letterario della città

In un ideale percorso del “Gargano segreto”, il luogo della memoria ritrovato è la piccola Ischitella del tempo in cui Pietro Giannone vi nacque, nel 1676, da “buoni e onesti parenti”. Ad Ischitella visse per ben diciotto anni, ma le dedicò soltanto poche righe nella “Vita, scritta da lui medesimo”. Da Napoli, dove si era laureato in Legge e svolgeva attività forense, Giannone segnò la storiografia europea: smascherò il potere religioso, mostrando la sua invasività in quindici lunghi secoli di potere. 

La vicenda

Per questo suo imperdonabile “peccato”, fu imprigionato e lasciato morire nelle fredde carceri sabaude, in un lontano giorno del 1748, dopo aver segnato il ristabilimento, nella Storia, delle “regole del gioco”. La sua “historia” tutta civile, senza strepiti di battaglie, tutta nuova, di documentazione che sostiene una visione laica,  fu espressione dei ceti più avanzati del suo tempo. Il clima culturale della Napoli del 1714-48 espresse una vivacità intellettuale fra le più forti a livello europeo.  Giannone ne fu il capofila. Dalla sua analisi emergerà la tesi giurisdizionalista che farà scoppiare la grande contraddizione della Chiesa/Istituzione, “potere umano non legittimato né da Dio né dagli uomini, e che gestiva i 4/5 del reddito dello Stato”.

Ischitella: Monumento dedicato a Pietro Giannone in piazza de Vera d’Aragona

A Giannone oggi è dedicato il Premio Letterario nazionale di poesia “Città di Ischitella-Pietro Giannone” per una raccolta inedita di liriche nei dialetti d’Italia e lingue minoritarie, giunto alla XXII edizione.  Il concorso, organizzato dal Comune di Ischitella e dall’associazione “Periferie”,  a fine estate attira cultori del dialetto da tutta Italia.

Teresa Maria Rauzino

su “L’Edicola per l’Italia” 9 marzo 2025

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Microstorie

Nel paese degli innamorati dove trionfa la paposcia

In viaggio alla scoperta dei borghi più caratteristici di Puglia e Basilicata. Prima tappa nel promontorio garganico a Vico per scoprire le tipicità di una città che ha radici antiche e un patrimonio, non solo storico e naturalistico, ma anche enogastronomico.

CARTOLINE DA VICO DEL GARGANO

Vico del Gargano è uno dei “borghi più belli d’Italia”. Sito su una collina dell’entroterra del Gargano nord, a pochi chilometri dalla frazione di San Menaio-Calenella, e alle porte della Foresta Umbra (sempre più meta di escursionisti e appassionati di orienteering), gode di una posizione invidiabile all’interno del Parco nazionale del Gargano, di cui è parte integrante. Un paesaggio di faggi e di abeti e, lungo la costa, di macchia mediterranea con la pineta d’Aleppo (Marzini), una delle ultime autoctone nel panorama forestale nazionale.


L’attrazione
Consolidato è il settore turistico, grazie alle bellezze naturali delle spiagge di San Menaio e Calenella, ma Vico resta un paese agricolo. Gli estesi uliveti secolari e gli agrumeti (con le arance “durette” e “bionde” Igp), sono integrati dall’allevamento di bovini, suini, ovini e caprini.
Prodotti che si ritrovano nei piatti tipici: la paposcia, le orecchiette con le noci, l’insalata di arance, il “ruoto” di capretto e patate gratinate, la zuppa di pesce, le minestre con l’olio forte, i pancotti, i rinomati “sospiri” e “il gateau della sposa”, oltre ai dolcetti di pasta di mandorle.


La storia

La presenza dell’uomo è documentata sin dalla più remota antichità sul territorio vichese. Stazioni e siti paleolitici, neolitici, eneolitici sono presenti un po’ dappertutto, ma di maggiore interesse sono la necropoli paleocristiana di Montepucci e la zona archeologica di monte Tabor.
Secondo la tradizione, non suffragata da fonti certe, le origini di Vico risalgono al 970 ad opera dei conquistatori slavi, provenienti dall’Adriatico. Sueripolo, duce degli Schiavoni, che, al servizio di Ottone I, aveva scacciato i pirati Saraceni, fondò il primo nucleo di Peschici e Vico. Ufficialmente si parla di un “Castrum Vici” solo nel 1113, quando i Normanni lo inglobarono nel Ducato di Puglia e Calabria.


Le caratteristiche
Nel corso dei secoli si è strutturato un patrimonio artistico e architettonico con monumenti di sicuro interesse. Passeggiando tra le vie del centro storico ci si imbatte nel Castello Normanno-Svevo-Angioino, edificato dai Normanni nel 1167 e ampliato da Federico II nel 1240. Questi, nel 1234, aveva dato in dote alla terza moglie, Isabella d’Inghilterra, Vico e i paesi garganici compresi nell’Honor Montis Sancti Angeli.
Il Castello subì influenze stilistiche che testimoniano le varie dominazioni. Il nucleo più antico è chiuso agli angoli da torri quadrate. Quella di sud est, con l’originaria merlatura, culmina con un’elegante bifora, descritta da A. Haseloff «un capitello a foglie piatte e grossi bulbi obliqui». Un bastione circolare, la cosiddetta torre maestra, ricorda il periodo aragonese. E gli adattamenti per bocche di fuoco, accanto alle balestriere, ricordano l’assedio e il cannoneggiamento di Vico nel 1529, da parte degli spagnoli.
Oggi il Castello è uno dei simboli del borgo.


Gli altri luoghi
Altre testimonianze della storia di Vico del Gargano sono la cinta muraria con le caratteristiche torri a base circolare del 1292 erette per difesa contro le invasioni. Durante il periodo feudale, Vico fu possesso delle più importanti famiglie napoletane: i Caracciolo e gli Spinelli.
Elegante nella sua semplicità è il Palazzo della Bella, costruito all’inizio del Novecento da Ignazio della Bella. La sagoma della costruzione signorile, articolata da un unico corpo e una magnifica torre ornata da bifore sui lati e da merlature guelfe, introduce a Vico una parentesi
“fiorentina”: il progetto richiama il modello trecentesco di palazzo Vecchio, in stile neo-gotico.


Le chiese
Degne di nota sono le numerose chiese, tra cui la Matrice sotto il titolo della Beatissima Vergine Assunta. A tre navate, la chiesa è provvista di undici altari. Nella descrizione che ne fa l’arcivescovo Orsini nel 1678, erano ricordati l’altare di San Valentino, patrono di Vico già
da sessant’anni, e l’altare del Ss. Crocifisso sotto il patronato di D. Troiano Spinelli, marchese di Vico. Oggi la chiesa custodisce le tele dell’originalissima via Crucis di Alfredo Bortoluzzi, artista della Bauhaus e allievo di Klee e Kandinsky.
Nel centro storico, tappa obbligata è il Vicolo del Bacio. Largo non più di 50 centimetri e lungo poco meno di 30 metri, è luogo di incontro degli innamorati che, soprattutto in occasione della festa di San Valentino, si danno qui appuntamento.

Vico del Gargano, Foggia, Puglia

Tra i luoghi di culto troviamo la chiesa del Purgatorio, un tempo Santa Maria del Suffragio, sede dell’Accademia degli Eccitati Viciensi. Espressione del nuovo pensiero illuminista, contribuì alla formazione di una nuova classe dirigente, più attenta alla qualità della vita. Fra i soci, Giacinto Mascis divenne sindaco di Vico e don Pietro de Finis nel 1792 fece costruire fuori le mura il cimitero di San Pietro, anticipando l’editto napoleonico di Saint Cloud (1804). De Finis già nel 1751 aveva aperto, a sue spese, una scuola per tutti. Suo discepolo fu padre Michelangelo Manicone (che lo ricorderà come il maestro suo di grammatica), naturalista, erudito, ricercatore, ecologista ante litteram e politico progressista.

L’incanto di Zavoli e l’albergo diffuso
La dedica poetica del noto giornalista e il progetto di recupero del centro storico di Gae Aulenti mai realizzato

Sergio Zavoli fu colpito dalla calorosa accoglienza e dall’ incantevole bellezza del borgo antico, tanto che nella sua raccolta di liriche “L’orlo delle cose” (Mondadori, 2004) dedicò dei versi a Vico del Gargano:
«Vico, nido chiaro d’altura,/ ora non hai più mura in cui sbiancare/ per l’arrivo del principe in amore,/ non splende più la calce/ sui fianchi del palazzo cui addossavi le case/ per scaldare gli amanti.// Ora i ragazzi in fila sui muretti di pietra/ l’uno all’altro si danno magre spalle/senza un brivido mai, un volto che si giri.// Vico, di guardia a valli disarmate,/un’aria incuriosita /mossa appena da ventagli di palme/arriva sui balconi dove un tempo/a gronde di geranio si tingeva/il tuo svevo pallore».

L’architetto e urbanista Tano Lisciandra, autore nel 2003 con Gae Aulenti di un progetto di “albergo diffuso” nel centro storico del paese, nel saggio “I muri e l’anima” dava, a riguardo, questi consigli ai Vichesi: «Per sopravvivere senza rinunciare a se stessi e per offrire ai turisti un’esperienza di soggiorno in un borgo antico ancora vivo, gli amministratori hanno pensato di dar vita ad un albergo diffuso: la hall, la reception e i servizi in un grande palazzo nobiliare, ora in disuso; le stanze, in un centinaio di abitazioni, sparse qua e là nel centro storico. Certo, le camere,
oltre che farle, bisogna anche riempirle. Di qui l’urgenza di restaurare gli edifici per le residenze alberghiere e, intorno a loro, tutto il centro storico. Di qui anche la necessità di riconvertire alla nuova mission l’intero paese e il suo territorio. Obiettivo non certo impossibile. Le risorse ambientali sono abbondanti. Le opportunità non mancano. Per valorizzare le une e cogliere le altre occorre però uno sforzo di rinnovamento culturale».
Il progetto non fu attuato.

Teresa Maria Rauzino

su “L’Edicola per l’Italia” 22 febbraio 2025

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Microstorie

L’industria del freddo in Capitanata


Archivio del Centro Studi di Storia e Cultura di Turi (BA): resti di una neviera

L’approvvigionamento della neve, ed il conseguente utilizzo delle neviere per la conservazione di questo prezioso bene, in passato ha rappresentato per l’uomo un’esigenza di assoluta importanza.

Sin dall’antichità la neve era largamente utilizzata. Testimonianze architettoniche di questi manufatti sono riscontrabili presso i vari siti archeologici, mentre per quelle storicamente più recenti l’utilizzo si è protratto sino ai primi anni del ‘900.

In Capitanata, le prime notizie documentali sulle neviere, sulla vendita della neve e sulla regolamentazione legislativa si hanno a partire dalla fine del 1600 per la città di Foggia, e dai primi anni del 1800 per gli altri centri. In particolare, dallo studio sono emerse notizie interessanti sulla presenza di neviere disposte soprattutto nell’arco del Subappennino Dauno e del Gargano, i cui centri erano i maggiori fornitori del prodotto, ma non è stato neanche trascurato lo studio sulla presenza e sulla tipologia delle neviere situate in pianura, in particolare nell’alto e basso Tavoliere; un’ampia trattazione che in definitiva ha riguardato tutti i centri della Capitanata.

Se dal punto di vista documentale la ricerca è stata abbastanza esaustiva, del manufatto architettonico di epoca più recente, purtroppo, ci sono pervenute pochissime testimonianze perché, nel tempo, molte neviere sono state destinate ad altri usi o interrate, pertanto, di alcune si è persa ogni traccia.

Ciò che si può affermare è che ogni centro, piccolo o grande che fosse, poteva vantarne il possesso.

Alla luce di tutto ciò, il presente studio ha lo scopo di riportare alla memoria di tutti una parte di storia, ormai dimenticata anche dagli anziani e sconosciuta alle nuove generazioni.

Da sempre l’uomo ha avuto l’esigenza di trovare refrigerio, specie durante la stagione estiva, attraverso l’assunzione di cibi e bevande fredde.

Oggi la tecnologia consente la produzione del ghiaccio artificiale in ogni casa, con frigoriferi, congelatori ecc., ma non sempre è stato così.

In passato l’uomo, per poter godere del privilegio di avere bevande e cibi freddi durante i mesi torridi, si ingegnò utilizzando ciò che la natura gli metteva a disposizione: la neve.

Questo prodotto, formato da microscopici cristalli di varie forme più o meno regolari, di acqua solidificata, spesso uniti in falde o fiocchi, si forma quando la temperatura dell’aria è inferiore a 0° C.

Essa, in passato, era merce preziosa ed un’abbondante nevicata era considerata una benedizione.

Con ogni mezzo l’uomo cercò di utilizzare questo prezioso genere anche quando madre natura non lo forniva, ossia durante la stagione estiva.

Nei paesi a clima temperato, l’utilizzo della neve era consuetudine sia per l’uso alimentare sia per quello medico: serviva per preparare sorbetti e bevande, per conservare i cibi, come riserva di acqua potabile per i periodi di siccità, ma era usata anche per curare febbri, ascessi, contusioni, ecc.

La neve veniva raccolta in luoghi esposti a nord, freschi ed umidi, quali sotterranei, grotte, scantinati e fosse oppure in costruzioni apposite, chiamate neviere [1].

Esse assunsero forme e tipologie diverse in funzione della zona geografica in cui si trovavano ed a seconda delle necessità locali.

In talune zone dell’Appennino, le neviere erano delle semplici buche nel terreno, pressoché circolari, con diametro di 5-10 m. e profonde altrettanto, con pareti di rivestimento in pietra in cui veniva conservato il ghiaccio [2].

In altre zone, specie nell’arco alpino ma anche in molte zone appenniniche, erano delle vere e proprie costruzioni in muratura, con il tetto a due e a quattro falde, senza finestre e con la sola porta di accesso.

Quando la profondità della neviera lo consentiva, si formavano più strati di neve intervallati da strati di frasche e foglie secche, che avevano funzione isolante. Questo sistema consentiva di mantenere freddo lo strato più profondo, anche quando si estraeva la neve dagli strati più superficiali.

Per il trasporto della neve nei luoghi di utilizzo erano adottati vari sistemi: talvolta sul dorso di muli, altre volte, quando le vie lo consentivano, in carretti o slitte.

Sul monte Faito, verso la fine del secolo scorso, si costruì una funivia con vagoncini per trasportare il ghiaccio dalle neviere montane agli abitanti di Castellammare.

Lungo l’arco alpino, ogni malga aveva la propria neviera: serviva per conservare meglio il latte, in attesa dell’accumulo di una quantità sufficiente per l’avvio della lavorazione del formaggio [3].

Nelle zone vulcaniche le neviere consistevano in un cilindro, scavato nel terreno, con una sola apertura per il carico di neve fresca e per il prelievo del ghiaccio; per garantire un sufficiente isolamento termico la costruzione era ricoperta da un grosso cumulo di terreno. Esse avevano l’ingresso rivolto verso Nord, per ridurre l’irraggiamento solare diretto verso l’interno. Anche la porta d’ingresso era schermata da una fitta copertura di frasche [4].

In Sicilia fino agli inizi del ‘900, nei mesi invernali più rigidi quando la neve cadeva copiosa, molti contadini di Piana salivano sulla Pizzuta a lavorare nelle neviere di proprietà del comune di Palermo, poste all’inizio del versante occidentale della montagna. La neve, raccolta in buche scavate ad imbuto, era compressa su vari livelli in corrispondenza dei quali veniva inserito uno strato di paglia [5].

A Catania era molto diffuso il commercio della neve dell’Etna; pertanto, le neviere si trovavano nelle cavità naturali della montagna. La neve veniva trasportata in città e nei paesi limitrofi con carretti coibentati in maniera rudimentale; infatti, per evitarne lo scioglimento i venditori cospargevano il fondo del carro con uno strato di carbonella ricoperto a sua volta di felci; al di sopra di queste ultime si disponeva la neve avvolta in un telo di canapa protetto superiormente da un altro strato di felci [6].

In Val Mugone, le neviere erano profonde circa 57 metri ed avevano l’ingresso con uno scivolo inclinato che portava direttamente alla cavità, alla cui base era depositata un’enorme quantità di ghiaccio [7].

Nell’Appennino Umbro-Marchigiano, le neviere erano delle strette depressioni esposte a nord, spesso a ridosso di pareti rocciose ed impervie. A Secinaro, vicino alla maestosa catena del Sirente, i nevaroli sin dal ‘500 erano soliti risalire il monte, fino alla neviera, dove si calavano con scale e corde per tagliare i blocchi di ghiaccio e riportarli a valle in gerle di vimini, avvolte in foglie secche isolanti, sul dorso di asini e muli [8].

Nell’Altopiano delle Murge le neviere erano distribuite soprattutto presso le masserie e nei declivi dei campi; avevano la forma di un parallelogramma con volta a botte ed un piano di calpestio formato da terriccio ricoprente le lastre adagiate sulla volta per neutralizzare il calore in maniera uniforme. Esse avevano, inoltre, una o due aperture laterali murate o chiuse con porte di legno che servivano per prelevare il ghiaccio mentre la neve veniva infilata dalla bocca posta alla sommità della volta. Sul fondo, all’interno, si deponevano dei fasci di sarmenti il cui scopo era quello di evitare che le neve venisse a contatto con il suolo e potesse sciogliersi o inquinarsi.

La neve appena caduta veniva raccolta e, ancora fresca, veniva trasportata sui vaiardi [9] perché i traini erano ingombranti e non potevano entrare negli erbaggi senza provocare danni; oppure, si formavano grosse palle di neve e si lasciavano rotolare dall’alto verso il fondo della valle dove erano collocate le neviere. Solo la neve raccolta lontano dalle neviere era trasportata sui traini.

La neve raccolta veniva immessa nella neviera dall’apertura sulla volta mentre le porte laterali restavano chiuse sino al prelievo del ghiaccio. I fasci di sarmenti isolavano la neve dal fondo su cui si lasciava cadere un tubo che serviva per pompare l’acqua che lentamente si accumulava.

La neve veniva compressa affinché la neviera potesse contenerne grandi quantità.

Il commercio del prodotto era destinato soprattutto all’esportazione, fuori dall’Alta Murgia, verso i paesi costieri. Altamura, Minervivo, Santeramo, Locorotondo ed altri comuni erano i maggiori esportatori di neve [10].

Per meglio regolamentare i traffici commerciali della neve furono varate delle leggi apposite che regolavano, attraverso una serie di norme e consuetudini, la fornitura e la vendita del prodotto.

Fu quindi istituita la gabella della neve: un unico appaltatore aveva l’esclusiva della vendita della neve, egli però era obbligato a fornirla alle città a prescindere dalle condizioni climatiche.

Il prodotto, consolidato in ghiaccio, era tagliato in blocchi e trasportato dagli appaltatori verso i comuni per essere destinato alla vendita al minuto.

In Capitanata, le neviere solitamente venivano costruite dagli appaltatori, i quali stipulavano i contratti di appalto, con privativa [11]. Le modalità erano stabilite anno per anno sia dai comuni stessi sia dall’Intendenza di Capitanata.

La neve venduta era di due tipi: quella bianca, per uso alimentare e medico, e quella grezza o nera destinata ad altri usi.

Il prezzo variava a seconda della provenienza e non poteva essere superiore a tre grana per rotolo; a volte il prezzo di vendita era comprensivo della gabella che l’appaltatore doveva versare al comune. Spesso la gabella era comprensiva di una somma che l’appaltatore doveva versare alla chiesa Matrice del comune interessato per la festa dei SS. Patroni o per il viatico, come succedeva per il comune di Foggia. Tra le curiosità, dalla ricerca emerge che ancora oggi nel capoluogo della Capitanata esiste una via intitolata a S. Maria della Neve [12], protettrice di questo prodotto.

Tra le altre condizioni, inoltre, nei contratti si stabiliva la durata dell’appalto che poteva essere di un solo anno ma poteva protrarsi per un periodo più lungo e durare anche vari anni.

Le gare si bandivano attraverso l’affissione di manifesti. In base alle offerte presentate si procedeva alle subaste, l’aggiudicazione definitiva avveniva ad estinzione di candela in grado di sesta o di decima [13].

Gli appaltatori dovevano sempre essere garantiti, solidalmente, da una persona del posto di indubbia moralità. Tra le condizioni dell’appalto si stabiliva che la neve doveva essere fornita solo dagli appaltatori aggiudicatari e venduta dai dettaglianti scelti dal Comune, ma di concerto con gli appaltatori stessi. In caso di mancanza della neve l’appaltatore era soggetto al pagamento di una multa ed in caso di recidiva anche all’arresto personale.

Del manufatto architettonico, un tempo esistente nel nostro territorio, si hanno poche notizie certe; secondo alcune testimonianze orali, le neviere montane, per struttura e morfologia, erano diverse da quelle delle zone pianeggianti. Le prime erano scavate sia nella roccia sia nel terreno, le seconde erano scavate solo nel terreno; quelle collinari presentavano la stessa morfologia delle neviere montane.

A tale riguardo, Alfonso la Cava, a proposito delle neviere di Monte Sant’Angelo, piccolo centro del Gargano, parlando del clima garganico asserisce che il paese aveva un clima intensamente rigido nei mesi invernali, in cui la neve cadeva abbondante; gli sbalzi di temperatura, con frequenti temporali, specie quelli causati dal libeccio, erano improvvisi e di forte intensità.

Ma il paese era anche soggetto a periodi di intensa siccità, tanto che nel 1920 il Comune fece costruire delle grandi botti per il trasporto dell’acqua dalle navi cisterne in paese.

Ai periodi di siccità si contrapponevano le intense nevicate.

Le neviere di Monte Sant’Angelo si trovavano intorno al castello, e furono fatte interrare nel 1937 dall’avvocato Matteo Gatta per effettuare il rimboschimento dell’area.

La neve era raccolta in grossi blocchi provvisti di un foro centrale nel quale gli operai ponevano un bastone lungo e robusto che poggiava sulla spalla del portatore; in seguito, furono utilizzate le ceste di vimini che i contadini mettevano sulla testa o sulle spalle; la neve veniva deposta all’interno delle ceste, tra la paglia [14].

Poi, dalle zone di raccolta, la neve veniva trasportata con i Traini per mezzo di persone addette al compito, che solitamente erano scelte dallo stesso appaltatore del luogo in cui era stato aggiudicato l’appalto per l’anno della fornitura.

Le neviere delle zone pianeggianti erano grotte coniche a doppia fodera, profonde circa 12 o 15 metri; questi impianti produttivi oggi sono difficilmente riconoscibili, sia perché destinati ad altri usi, sia perché degradati a tal punto da poter individuare solo le cavità a cielo aperto [15].

Le neviere di Vico del Gargano erano per tipologia formate da una fossa di grandi dimensioni scavata nel terreno, a volte solo in parte nella roccia, solitamente erano situate nella zona più fresca ed ombrosa dove la neve si accumulava in grande quantità. I proprietari delle neviere erano soliti assumere una squadra formata da dieci o quindici operai che, muniti di pale, dopo aver eliminato lo strato superficiale di neve, la caricavano sui Traini e la trasportavano nei depositi per la conservazione.

La neviera era stata pulita in precedenza e, sul fondo, era stato depositato uno strato di paglia.

Al suo interno operavano gli Insaccaneve che calzavano sopra le scarpe e pantaloni dei sacchi di canapa legati all’altezza delle cosce per evitare di sporcare il prodotto durante il lavoro.

Questi erano muniti di appositi attrezzi di legno detti Paravisi aventi una forma rettangolare, con uno spessore di circa 40 cm., una larghezza di 30 cm. ed una lunghezza di 50 cm., molto pesanti con un manico alto circa un metro infisso al centro, cominciavano a comprimere la neve depositata; dopo il primo strato alto circa 40 o 50 cm., nella parte laterale delle pareti veniva deposta la paglia per isolare il prodotto dalla terra. Poi, la neve era coperta da uno strato di paglia avente una qualità diversa dalla prima, essa era detta Cama, e derivava direttamente dalla frantumazione della spiga del grano; mentre la paglia vera e propria era ricavata dallo stelo della spiga.

In questo modo, sotto il controllo del proprietario, dopo aver messo di lato la paglia per gli altri strati successivi si riempiva la neviera fino al raggiungimento del bordo superiore. Qui l’ultimo strato di paglia era più abbondante. Infine, si ponevano molti sacchi di canapa, uno strato di terra, delle tavole pesanti che premevano sulla neve sottostante coperte da ampi teloni si sovrapponevano le ramaglie di ginestre che fungevano da camera d’aria: il tutto era ricoperto da altre tavole.

Per evitare lo scioglimento del prodotto durante il trasporto si era soliti deporre la neve in sacchi di canapa contenenti paglia pulita, si caricavano sugli asini o sui carretti e si procedeva alla consegna per la vendita al minuto [16].

U’ Grattamariann’

Dalla documentazione archivistica si evince che nelle zone pianeggianti la neve era fornita da vari paesi del Gargano, del Subappennino, della Lucania, dell’Abruzzo e delle Murge; i prezzi della fornitura variavano da periodo a periodo e per questo furono molte le situazioni controverse che si crearono fra appaltatori e Comuni.

Prima del 1800, a Foggia i contratti tra il Comune e gli Appaltatori erano stipulati dai notai attraverso le Obbliganze [17]. Nessuna notizia, invece, è giunta per il periodo anteriore al 1800 circa le condizioni di vendita della neve negli altri centri della Capitanata.

Prima dell’unità d’Italia, ove non specificato, nei contratti si faceva riferimento alla Legge n. 77 del 12 dicembre 1816 [18], che attraverso alcuni articoli, fissava le condizioni di appalto per la vendita della neve.

L’art. 206 stabiliva che le privative volontarie riguardavano solo la preparazione e la vendita dei beni commestibili. Esse erano temporanee e ad esclusivo vantaggio del Comune.

L’art. 208 della stessa legge stabiliva che le privative volontarie dovevano essere date in appalto a mezzo di asta pubblica. La loro durata ordinaria non doveva essere superiore ad un anno, inoltre solo quando le circostanze e le esigenze di un Comune richiedevano una durata maggiore, l’appalto poteva essere prolungato, ma non avrebbe potuto superare i tre anni.

L’art. 235, titolo IX- Capo I, stabiliva che le subaste [19] dovevano essere precedute da due manifesti da pubblicarsi ed affiggersi nell’intervallo di tre giorni l’uno dall’altro. Tra questi uno doveva essere affisso la domenica nei luoghi consueti del Comune; inoltre le subaste non potevano cominciare prima di otto giorni dalla pubblicazione del primo manifesto.

L’art. 236 stabiliva una seconda subasta cinque giorni dopo la prima, in seguito all’affissione di un altro manifesto pubblicato a norma dell’art. 235. Solo con questa i partecipanti  avrebbero avuto l’aggiudicazione definitiva in grado di sesta o di decima.

Stabiliti i criteri dell’appalto, attraverso i verbali decurionali, i Comuni facevano affiggere i manifesti in luoghi diversi e, dopo aver esaminato le prime offerte, procedevano alle subaste.

Per meglio comprendere le modalità e le condizioni degli appalti si trascrive un contratto tipo.

I contratti di appalto, sia pure con qualche variazione, in genere erano identici per ogni Comune; solitamente, per le norme generali, si rimandava alla legge n. 77.

Si trascrive il contratto di appalto del Comune di Campomarino, riportato nel verbale del 23 maggio 1807, estratto dal libro delle Obbliganze penes acta della Regia Corte [20].

«A dì ventitré Maggio milleottocento sette in Campomarino e presso gli atti della Regia Corte.

Costituiti personalmente presso gli atti di questa Regia Corte ed in presenza nostra, e de’ sottoscritti testimoni il sig. Domenico Antonio Noventa Sindaco di questa Comune interviene per se e suoi successori Sindaci in nome e parte di questa Comune alle cose infra[scri]tte.

E Pasquale Russo di Montorio, al presente in questa Terra, interveniente per se e suoi eredi e successori dall’altra parte.

I detti sig. Sindaco e Pasquale Russo con giuramento, toccate le scritture, hanno asserito, che sono venuti a Convenzione di dover d[etto] Pasquale Russo provvedere questa Comune della neve, che gli bisogna ne’ mesi estivi, cominciando dal primo Maggio a tutto li quindici di Ottobre colle seguenti condizioni.

1° – che debba d[etto] Russo a sue proprie spese, e conto fissare qui un venditore di neve a minuto, il quale deve dispensare la neve a chiunque n’avrà bisogno a giusto peso, e misura, senza far mai mancare detto genere dal primo Maggio a tutte li quindici Ottobre senz’interruzione alcuna; nel qual caso di mancanza, niun caso escluso, incorre d[etto] Russo nella pena di Docati sei in beneficio dell’università, qualora d[etta] mancanza succede per lo spazio d’una sola ora.

2° – che d[etto] obbligo di provvista di neve s’intenda a decorrere per quest’anno, e per altri anni nove successivi a tutto li quindici ottobre milleottocentosedici; col patto però espresso, che mancando o nel sud[detto] tempo la neve in Montorio, perché non caduta dal cielo, debba, e possa essere in quell’anno escluso il d[etto] Russo dal partito, che contra e, per quell’annata; ben inteso, che ciò s’intenda qualora effettivam[en]te d[etto] Russo non abbia neve di sorta alcuna nella sua neviera, ne ve ne sia in Montorio, nel qual caso deve d[etto] Russo deve prevenire gli Amministratori di questa Uni[versi]tà per tutto li quindici d’aprile di quell’anno, perché se ne posseggono altrove.

3° – che d[etta] vendita di neve al minuto debba farsi dal d[etto] Russo ne’ tempi convenuti al prezzo stabilito e fisso di grana uno e cavalli sei per ogni rotolo di giusto peso in tutto il suddetto decennio senzacchè possa alterarsi in modo alcuno il d[etto] prezzo; e per la giustezza del peso si obbliga a soggiacere alle pene comunali ogni qualvolta sia trovato in frode.

4° – che per la validità della presente convenzione l’obbliga d[etto] sig. Sindaco d’ottenere il permesso, ed assenso dell’Intend[en]za Provinciale, ed esso Pasquale Russo da per le sue mancanze e per la sicurezza del partito per plaggio il sig. Giuseppe Corriero qui presente, ed accettante; il quale si assume di rispondere per d[etto] Russo nella forma più ampia, e più legale.

Obbligandosi a tale effetto vicendevolm[en]te esse Parti, l’una all’altra, in tutte sud[dette] cose anche a modo delle prigioni di Napoli, e de’ riti della G. C. potendosi incusare la presente convenzione contro del controventore di ogni luogo, Corte o foro colla clausola del Costituto precario, sotto pena d[detta] homo giurato e si sono obbligati in forma.

Segno di croce di Pasquale Russo, che si obbliga come sopra = segno di croce di Giuseppe Corriero, che si obbliga e plaggia come sopra = Domenicantonio Noventa Sindaco = Donato Manes Testimonio = Diego Sportelli Testimonio = Giandom[eni]co Gianni Testimonio = Isidoro De Laureto Supp[len]te.

La presente Copia è stata estratta dal libro delle Obbliganze penes acta di questa Corte di Campomarino, principiato in Agosto 1807, in avanti si stente al foglio 49, col quale sulla collazione concorda, in fede Isidoro De Laureto supplente». 

Analizzando i vari punti del contratto trascritto, si potrà notare che l’appaltatore doveva provvedere anche alla vendita al minuto della neve, cosa che in genere spettava ad altre persone scelte dai decurioni come avveniva in altri centri della Capitanata e, in caso di mancata fornitura del prodotto, l’appaltatore, come previsto, pagava una multa a beneficio del Comune interessato.

In questo caso il contratto di appalto aveva una durata di dieci anni. Come si è visto, con la Legge n. 77 furono stabilite condizioni diverse e, la durata dell’appalto non poteva superare i tre anni. Tra le altre condizioni, il contratto prevedeva che nel caso in cui la neve non fosse caduta e l’appaltatore fosse stato impossibilitato a fornirla in tempo utile, solo per quell’anno, era esonerato dalla fornitura del prodotto senza pagare ammende, a patto che avesse avvertito il Comune interessato.

Dopo aver stabilito il prezzo, l’appaltatore era obbligato a vendere la neve a peso giusto, senza frode. Nel caso fosse stato scoperto in flagranza di reato, sarebbe stato multato dal Comune.

Tra le clausole finali si apprende che, per l’approvazione definitiva dell’appalto, il Comune si rimetteva all’espresso assenso dell’Intendenza Provinciale. Nel caso l’appaltatore fosse venuto meno agli obblighi contrattuali, sarebbe subentrato il garante solidale, che all’atto della stipula del contratto assicurava l’osservanza delle norme contrattuali sia sotto l’aspetto amministrativo sia legale, rispondendone personalmente e solidalmente in caso di inadempienza.

Solitamente, le clausole esaminate nel contratto di appalto relativo al Comune di Campomarino si presentano identiche anche per gli altri centri della Capitanata; qualche piccola variazione sarà sottoposta all’attenzione del lettore nell’analisi dei singoli contratti. Il repertorio archivistico oggetto della presente pubblicazione esplicita con maggiore chiarezza sia i luoghi di provenienza della neve, sia le modalità degli appalti per il periodo che intercorre tra il 1696 ed il 1800.

Dai primi anni del 1900 la fornitura di neve è soppiantata dalla produzione di ghiaccio industriale che viene venduto fino a tempi recentissimi, ovvero fino a quando non entra nelle case il frigorifero. Si conclude così un’era di tradizioni e folclore lasciando spazio solo ai ricordi.  

CURIOSITÀ

U’ Grattamariann’

La tradizione narra che in molti paesi della Capitanata durante il periodo estivo nelle cantine e nei caffè si vendeva la neve ai clienti abituali tagliandola a pezzi per preparare sorbetti.

La domenica, dopo le celebrazioni religiose, la gente del posto dopo la passeggiata, ù strusc’, si recava in questi posti per acquistare il prodotto che, doveva refrigerare e deliziare i palati dei buongustai più esigenti che, dopo il luculliano pranzo festivo, erano soliti preparare le refrigeranti bibite.

Nei paesi del Gargano, l’acqua fresca delle sorgenti veniva trasportata nei Cic’nGiarr e Quartèr, appositi recipienti di creta di capacità differenti. I gestori dei caffè e cantine specie nei giorni festivi, su richiesta dei clienti preparavano le granite con caffè o altre essenze usando un coltello per raschiare la neve oppure era usato un attrezzo simile ad una piccola pialla munita di una lama affilata di acciaio posta di traverso nella parte di sotto che sfregata su un pezzo di ghiaccio lo sbriciolava minuziosamente fino a raggiungere la quantità occorrente per far le granite richieste.

Tale attrezzo era meglio conosciuto con il nome di Grattamariann’ [21].

IL NEVIERAIO “IL NEVIAIOLO”

Quasi all’ingresso della vecchia Vico (FG), percorrendo Via di Vagno si perviene alla piccola Piazza denominata della Misericordia, che prende il nome dalla chiesa lì situata. In questa viene venerata la “Madonna della Neve” che viene festeggiata annualmente nei primi del mese di agosto.

È rappresentata con il bambino Gesù sul braccio sinistro; con la mano destra ostenta verso i devoti un fiocco di neve. Verso la fine del 1800, il priore di quella confraternita era tal Azzarone Michelantonio, il quale era proprietario di vastissimi agrumeti ubicati in località “Murge nere”.

All’epoca non esistevano attrezzature per la confezione di gelati, granite e altro, che si vendevano specialmente durante i periodi estivi. All’epoca, la neve cadeva abbondantissima ed alle volte, specialmente a dicembre che era il mese maggiormente nevoso, arrivava fino agli architravi delle porte di casa. Altrimenti era un’invernata abbastanza calda e senza neve. Nei pressi dell’attuale piazza “San Francesco” vi erano delle neviere, costituite da ampi fossati nei quali i “nevierai” facevano raccogliere la neve a strati, calcati con i piedi e ricoperti di paglia, per prelevarla d’estate a piccoli cubetti e venderla per i rinfreschi. Ciò è avvenuto fino al 1925 quando Nicola De Petris, ex coadiutore del notar Saverio Girlanda, divenuto industriale, fece impiantare la macchina per la costruzione di blocchi di ghiaccio. Occorre inoltre precisare che le arance specialmente quelle toste (durette) maturavano più o meno nel periodo natalizio.

In dicembre, mese al quale si riferisce l’accaduto, non s’era ancora visto un fiocco di neve. Il povero nevieraio, preoccupandosi che ai suoi pargoletti durante l’estate sarebbero mancati i più indispensabili mezzi di vita, si recò presso la balaustra dell’altare della Madonna sua protettrice, e battendosi in petto e senza alcun rispetto umano cominciò a implorare la grazia di abbondanti nevicate senza preoccuparsi, nella disperazione della sua richiesta, se vi fossero persone presenti. Supplicò: «Madonna mia, fai nevicare!».

Il Michelantonio, che stava nell’adiacente sacrestia e che proprio in quell’anno aveva un’abbondanza di arance, temendo che un eventuale gelo danneggiasse il prodotto del suo latifondo, uscì dalla sacrestia e volgendosi al nevieraio lo apostrofò duramente: «E tu, cosa stai dicendo?».

E il nevieraio, in risposta: «E tu cosa vuoi da me? Non sai che danno subirei io con la mia famiglia se non nevicasse? Ai figli miei chi darebbe un tozzo di pane durante l’estate? Del resto, fammi pregare la Madonna mia e tu vai a pregarti san Valentino che è il patrono degli aranceti.

A tali parole l’alterco ebbe fine…


FONTI DOCUMENTARIE

Archivio di Stato di Foggia:

–         Intendenza e Governo di Capitanata, Affari Comunali s. I e s. II;

–         Intendenza e Governo di Capitanata, Carte varie, Corrispondenza Amministrativa;

–         Consiglio d’Intendenza, di Governo e Prefettura di Capitanata, 1^ Camera, Processi;

–         Intendenza e Governo di Capitanata, Affari Comunali, s. I e s. II, Appendice I e II;

–         Intendenza, Governo e Prefettura di Capitanata, s. II, Appendice I e II;

–         Intendenza di Capitanata, Atti vari;

–         Intendenza di Capitanata, Amministrazione Finanziaria, s. II;

–         Catasto Onciario di Sant’Agata di Puglia;

–         Archivio Storico del Comune di Foggia, Obblighanze Penes Acta, Parte I e Parte II;

–         Archivio Storico del Comune di Foggia, Appendice;

–         Dogana s IX, processi;

–         Dogana s. II, Atti Civili;

–         Intendenza di Capitanata, Prefettura di Foggia, s. II, Tratturi;

–         Collezioni delle Leggi e Decreti Reali, vol. 4;

–         Prefettura, Affari Speciali del Comune, s. II;

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http://sirente.net/it/paesi/secinaro/neviera.htm



NOTE

1 http://212.77.69.144/sportello/mestieri/neviera.htm

2 http://www.parks.it/grandi.itinerari/altavia/altavia23-24/altavia23-24.html

3 http://www.geocities.com/Yosemite/Forest/5244/CAM/Roccamonfina.html

4 http://www.geocities.com/Yosemite/Forest/5244/CAM/Roccamonfina.html

5 http://trevico.terrashare.com/cultura.html

6 http://www.asicilia.it/cultura/storie/21.htm

7 http://www.comune.gioiadeimarsi.aq.il/gioia_pna_geologia.htm

8 http://sirente.net/it/paesi/secinaro/neviera.htm

9 Specie di portantine in legno a quattro mani.

10 P. CASTORO, Le neviere, in Villaggio Globale, anno 1, n. 2, giugno 1998, a cura del Centro Studi Torre di Nebbia. Sulle neviere di Locorotondo ed Altamura si veda pure: G. GUARELLA, Niviere e vendita della neve nelle carte del passato, in Umanesimo della pietra, 1988, pp. 117 e ss.

11 Contratto con cui l’appaltatore si assicurava il monopolio sulla vendita del prodotto.

12 G. SPIRITO, La Storia di Foggia attraverso la toponomastica, Bastogi, Foggia 1998, p. 196. La strada prende il nome da un’antica chiesa sotto il titolo di Sant’Elena, ubicata nell’attuale Piazza Giordano; nel 1078, l’eremita Carlo Ferrucci, rettore della chiesa e dell’abbazia di Sant’Elena, voleva installare una lampada ad olio sotto il quadro che raffigurava Sant’Elena. Nel conficcare il chiodo al muro l’intonaco si scrostò ed apparve l’occhio di un affresco più antico, raffigurante la Madonna con Bambino con le mani incrociate, era il 5 agosto ed in quella data si festeggiava la ricorrenza della Madonna della Neve. Così, la chiesa da allora fu intitolata alla Madonna della Croce, ma fu anche detta della Madonna della Neve. La chiesa fu demolita nel 1930,  per far spazio all’attuale Palazzo degli Uffici Statali.

13 Per sesta si intenda il sesto giorno di asta e per decima il decimo giorno.

14 G. TANCREDI, Folclore Garganico,rist. anast. del 1938, a cura del Centro Studi Garganici per la Banca Popolare di Apricena, pp. 367 e 368. L’indicazione è stata cortesemente fornita dalla prof.ssa Teresa Maria Rauzino.

15 Cfr. L’antica civiltà…  sito internet cit.

16 Cfr. N. M. BASSO, L’industria del freddo fra ‘800 e ‘900, Parte descrittiva, in Il Gargano Nuovo, anno IX, nn. 1 e 2 gennaio-febbraio 1983, p. 3.

17 Contratti brevi contenenti tutte le condizioni di appalto.

18 ASFG, Collezione delle Leggi e  Decreti Reali, anno 1816, vol. 4 – 15777, p. 423.

19 Forma di aggiudicazione all’incanto dell’appalto.

20 ASFG, Intendenza e Governo di Capitanata, Corrispondenza Amministrativa, Carte varie, b. 41, fasc. 3321.

21 N. M. BASSO, L’industria del freddo fra ‘800 e ‘900, Parte descrittiva, in Il Gargano Nuovo, anno IX, nn. 1 e 2, gennaio-febbraio 1983, p. 2.

©2004 Lucia Lopriore. Queste pagine sono tratte dal volume di L. LOPRIORE, Le neviere in Capitanata : affitti, appalti e legislazione, Edizioni del Rosone, Foggia 2003.

 

©2004 Lucia Lopriore. Queste pagine sono tratte dal volume di L. Lopriore, Le neviere in Capitanata : affitti, appalti e legislazione, Edizioni del Rosone, Foggia 2003.

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Pellegrinaggi mariani in Capitanata

Tre Madonne: da sinistra, di Ripalta sull’Ofanto; dell’Incoronata; di Loreto in Peschici.

La devozione mariana in Capitanata, attraverso i pellegrinaggi, è stata riproposta analizzando il fenomeno da cui si evince la presenza di una religiosità popolare sentita in modo pregnante.

Importante è accertare la provenienza storica, religiosa e culturale di tale devozione che, generalmente, è fatta rientrare tra le pratiche più direttamente connesse a contesti di riferimento popolare [1].

Dall’analisi delle presenze umane sul territorio, dovute in massima parte alla transumanza, emerge lo stimolo per esaminare attentamente il fenomeno dei pellegrinaggi mariani [2].

In Capitanata tale fenomeno si è esteso attraverso i percorsi devozionali che i pellegrini solevano seguire manifestando la loro fede: era consuetudine recitare litanie, preghiere e canti religiosi per chiedere e ricevere grazie.

Principalmente partendo dal culto per l’Arcangelo Michele seguendo il percorso della Via Sacra Langobardorum si raggiungevano altri centri della Capitanata, per venerare Madonne e Santi che si trovavano lungo il cammino.

In tale percorso devozionale è compreso il santuario della Madonna di Loreto, protettrice di Peschici, la cui chiesa si trova a circa un chilometro dal paese.

Il culto nasce da un episodio che lega la Madonna ai marinai del posto. Si racconta che un giorno, durante una terribile tempesta, essi scorsero in lontananza una luce che proveniva dalla lampada ad olio che i fedeli, per devozione accendevano davanti all’immagine della Madonna di Loreto situata in una piccola grotta. Essendo in pericolo, a gran voce invocarono l’aiuto della Madonna alla quale in cambio della vita promisero di edificare una chiesa delle stesse dimensioni della nave. D’un tratto il mare si calmò e tutti i marinai riuscirono a salvarsi: la promessa fu mantenuta e la chiesa fu costruita proprio sulla grotta dove ardeva la lampada.

Molte da allora sono state le grazie concesse dalla Madonna e testimoniate dagli ex voto. Chi otteneva la grazia si recava in pellegrinaggio per rendere omaggio alla Madonna a piedi nudi percorrendo la polverosa strada che conduce da Peschici al santuario. La festa della Madonna di Loreto si celebra otto giorni dopo la Pasquetta con festeggiamenti, pellegrinaggi, processioni, celebrazioni religiose ecc. ma non mancano anche le tradizionali specialità gastronomiche che da sempre fanno di questo piccolo centro la culla delle tradizioni [3].

Il culto mariano a Peschici si estende anche alla Madonna di Kàlena. La Sua ricorrenza cade l’8 settembre di ogni anno; gli abitanti di Peschici celebrano tale evento recandosi in pellegrinaggio fino all’antica abbazia, oggi diruta. La chiesa di Kàlena, oggetto di attenzione da parte di cultori e studiosi, avrebbe bisogno di un immediato restauro e si spera che ciò possa avvenire al più presto. Molti in passato si recavano in pellegrinaggio presso la chiesa della Madonna per chiedere le grazie o semplicemente per devozione. La tradizione vuole che i bambini in tale occasione portassero le loro noci raccolte in un fazzoletto ed appese al braccio della ròcile questo attrezzo consisteva in una rudimentale rotellina applicata all’estremità di una mazza di scopa che, appoggiata alla spalla del bimbo, era tenuta con due mani per mezzo di una mazza incrociata. Tra rumori, schiamazzi e qualche chiacchierata si arrivava alla chiesa della Madonna delle Grazie, adiacente all’abbazia di Kàlena, che i proprietari facevano trovare aperta per l’occasione. Verso il tramonto alla spicciolata si faceva ritorno alle proprie abitazioni tra la paura delle leggende legate al luogo raccontate dagli anziani e le curiosità che il posto suscitava.

Una delle leggende che ancora oggi si ricordano è legata al cunicolo che, partendo dalla chiesa, arriva sulla spiaggia del Jalillo, ottima via d’uscita in caso di pericolo. Seguendo il cunicolo ci si trovava direttamente in mare, dove era attraccata una barca sempre pronta per la fuga. Questa e tante altre sono le leggende legate all’abbazia di Kàlena, posto misterioso ed affascinante nello stesso tempo [4].

Nel percorso della Via Sacra dei Longobardi è inserita la cittadina di Monte Sant’Angelo, nota per il santuario di San Michele Arcangelo presso il quale i pellegrini, giunti da ogni parte d’Italia e non solo, si recano ogni anno in segno di fede. Proprio qui vi è un altro importante santuario: quello della Madonna di Pulsano.

Secondo la tradizione esso deve la sua fondazione a San Giovanni da Matera; si narra che in quel luogo esistesse già un monastero edificato dal duca Tulliano di Siponto con le rendite dei genitori che erano ricchi patrizi romani, e anche sul suo etimo molte sono le asserzioni anche discordanti: c’è chi sostiene che il nome derivi da una località nel pressi di Taranto, chiamata Pulsano, dove San Giovanni ha soggiornato, mentre c’è chi fa derivare il nome dal fatto che la Vergine avrebbe guarito il Santo, febbricitante, prendendogli il polso, per cui il nome deriverebbe da polso sano. Quest’ultima versione è quella che più frequentemente si trova nei racconti leggendari e nei canti dei pellegrini. Di certo è noto che a partire dal 1129 attorno a San Giovanni da Matera, vi erano sei discepoli che nel giro di pochi mesi si accrebbero nel numero tanto da diventare sessanta. Costoro ben presto costruirono un grande monastero. Nei dintorni, specie nel vallone dei romitori, i monaci edificarono molte piccole abitazioni addossate alle aspre pareti della montagna dove trascorrevano lunghi periodi in meditazione. La comunità seguiva la Regola di San Benedetto ma si dedicava anche ad un’intensa attività di apostolato tra i contadini e, soprattutto, tra i pellegrini provenienti dalla Grotta di San Michele e diretti al santuario di San Leonardo di Siponto. Ben presto si diffuse la fama di questa comunità, grazie anche agli abati Giordano e Gioele, che continuarono l’opera del fondatore, fino al punto che essa diventò il primo nucleo di un vero e proprio ordine monastico, la Congregazione benedettina dei Pulsanesi. La nuova congregazione ebbe case fino in Toscana, come San Michele di Guamo presso Lucca e San Michele di Orticara presso Pisa, nella pianura Padana come a Quartazzola sul Trebbia presso Piacenza. Della congregazione pulsanese facevano parte anche case femminili come il monastero di Santa Cecilia in Foggia. Giovanni da Matera morì in Foggia, nel monastero pulsanese di San Giacomo il 20 giugno 1139. Il suo corpo fu deposto sotto l’altare maggiore del monastero di Pulsano e, nel 1830 fu trasferito nella cattedrale di Matera.

Le devote visite che i pellegrini facevano alla Madonna di Pulsano per sette sabati consecutivi durante la quaresima sono da relazionare ai sette giorni in cui la chiesa, addossata alla grotta naturale che funge da abside, secondo la leggenda fu costruita. Il quadro della Madonna di Pulsano, trafugato con alcuni arredi liturgici nel 1966, apparterebbe alla scuola dei Ritardatari, fiorente in Puglia ed in Basilicata tra il XII ed il XIII secolo. L’immagine riecheggia le antiche icone bizantine con il volto scuro della Madonna leggermente inclinato, il capo coperto e l’aureola dorata, il Bimbo è rivolto verso chi osserva. Nel complesso richiama la Madonna di Siponto e la Madonna di Ripalta. Già nel XIII secolo il monastero entrò in una fase di decadenza. Il suo ultimo Abate di nome Antonio, eletto nel 1379, pare che si fosse schierato con l’antipapa Clemente VII il quale aveva dato inizio al grande scisma d’Occidente. Il legittimo pontefice Urbano VI, pertanto, pur non destituendolo, ne ridusse il potere sottraendo alla sua giurisdizione il beneficio abbaziale ed affidandolo ad un Abate Commendatario. Alla morte dell’Abate Antonio, gli edifici già degradati a causa degli eventi sismici furono abbandonati. Tra Settecento e Ottocento il monastero ricevette le cure dei Celestini, i quali lo abbandonarono nel XIX secolo in seguito alla soppressione degli Ordini Religiosi voluta da Gioacchino Murat. Partiti i Celestini, la chiesa fu affidata ai cappellani e, uno di questi, Nicola Bisceglia, nel 1842 la acquistò con le sue pertinenze.

Nonostante le vicissitudini dell’abbazia, il culto della Vergine fu tenuto in vita da diversi ordini monastici: Carmelitani, Francescani, Domenicani, fino a giungere ai nostri giorni. Numerose e spiacevoli sono state le vicende che hanno colpito il santuario, tuttavia esso ancora oggi è considerato uno dei più venerabili luoghi della Capitanata dedicati alla Vergine Madre di Dio [5].

Un altro santuario situato lungo il percorso micaelico è quello di Santa Maria Maggiore di Siponto. Esso sorge attiguo alle vestigia di una basilica paleocristiana risalente ai tempi del vescovo Lorenzo. La tradizione locale fa risalire la sua costruzione al I secolo d. C.

Secondo alcuni studiosi l’edificio, a pianta quadrata, fu eretto tra la fine del XI secolo e l’inizio del XII, quando era vescovo Leone ed è legato alle lunghe battaglie sostenute per il riconoscimento della sua autonomia dalla diocesi beneventana. La sua esistenza è testimoniata da un’epigrafe datata al 1039 che documenta la presenza di un ambone monumentale opera dello scultore Acceptus, che ha legato il suo nome a varie opere coeve tra cui si ricordano la cattedra di Canosa e il pulpito di Monte Sant’Angelo, che insieme alle altre dotazioni, sottolinea il ritrovato prestigio dell’antica diocesi pugliese.

Il tempio nel 1117 fu consacrato da Papa Pasquale II; nel 1149 e nel 1067 fu sede di sinodi locali celebrati rispettivamente dai pontefici Leone XI e Alessandro II. Tra il 1223 ed il 1250, a causa degli eventi sismici, la città subì gravi danni; l’interramento del porto chiuse definitivamente la vicenda di Siponto. Il culto della Vergine è legato alle vicende della chiesa e con essa è sopravvissuto per giungere fino ai nostri giorni. Il portale fu commissionato e realizzato intorno al 1060 ed in quell’occasione la chiesa fu dotata dell’icona della Vergine con il Bambino.

L’immagine della Vergine è realizzata su legno di cedro secondo i canoni classici ispirati alla tradizione orientale: la Madonna regge con il braccio sinistro il Bambino mentre questi esibisce il rotolo della Parola di Dio. Oltre a questa sacra immagine la chiesa è dotata anche di una statua straordinariamente bella; per devozione dal popolo è chiamata “la Sipontina” assisa in trono con in grembo il Bimbo benedicente; con gli occhi sbarrati in atteggiamento di doloroso stupore ed il mento coperto da strane macchie biancastre. Per questa immagine la tradizione popolare narra che la Madonna fu testimone di uno stupro da parte di un nipote del vescovo Felice ai danni di Catella, figlia di Evangelio, diacono della chiesa sipontina. La vicenda è raccontata nelle lettere di San Gregorio Magno indirizzate al suddiacono Pietro intorno alla fine del VI secolo, al notaio Pantaleone ed allo stesso vescovo Felice affinché fosse resa giustizia alla ragazza. La leggenda prosegue narrando che le macchie bianche sul mento della Vergine sono dovute al vomito prodotto dalla Madonna a causa di una mareggiata durante la traversata della statua da Costantinopoli a Siponto. Secondo alcuni autori la “Sipontina” fu rapita durante il sacco dei turchi  nel 1620, in tale occasione due dita della mano furono recise. Nonostante ciò, la Vergine tornò indietro rimanendo tra i giunchi della palude. Ella rimase a lungo nelle campagne proteggendo i contadini ed i pastori, tanto che è usanza offrirle le primizie raccolte o i prodotti caseari. Anticamente era tradizione prelevare il sacro tavolo e portarlo in processione fino al duomo di Manfredonia in occasione di avversità o calamità. Man mano questa pratica processionale si è ripetuta fino a trasformarsi in una ricorrenza e in una festa patronale il 30 agosto di ogni anno. Il pellegrinaggio della Madonna di Siponto era una delle tappe obbligate che i pellegrini diretti al santuario micaelico solevano fare. Gli interventi miracolosi della Vergine sono confermati da numerosi attestati di vescovi, ma soprattutto dagli ex voto. L’intervento salvifico della Madonna è registrato nei casi più disparati ma quelli che riguardano i casi di naufragio ed annegamento sono i più numerosi e fanno comprendere come questo santuario sia uno tra i più importanti punti di riferimento della fede e della devozione della gente di mare [6].

Seguendo il percorso dei pellegrinaggi mariani è indispensabile sostare anche in Apricena, dove è molto venerata la Madonna dell’Incoronata.

Secondo la tradizione locale un tale di nome Giacinto Lombardi donò alla cappella intitolata alla Madonna di Loreto una statua lignea rappresentante la Madonna Incoronata venerata a Foggia; in realtà messe a confronto le due statue presentano molte diversità tra loro. Tale culto per la Madonna Incoronata nasce in Apricena intorno alla seconda metà dell’Ottocento grazie proprio alla donazione del Lombardi fatta alla cappella; con la donazione della statua seguirono anche i festeggiamenti che furono curati dallo stesso Lombardi.

L’immagine più antica della Madonna Incoronata di Apricena è quella rappresentata dalla Madonna assisa su un tronco di quercia spoglio di fronde e adornata alla base del tronco da due grossi mazzi di fiori di campo e da quattro putti disposti due all’altezza del capo e gli altri due ai suoi piedi. La Madonna è in atteggiamento orante [7]. Alla Sacra Immagine sono stati più volte attribuiti eventi prodigiosi: il primo nel 1868 si verificò con il movimento degli occhi ed il secondo con un altro movimento degli occhi nel 1908 di fronte alla folla di fedeli. I festeggiamenti della Madonna Incoronata avvengono durante il mese di maggio di ogni anno.

Altra meta di pellegrinaggio in questa cittadina è rappresentata dal santuario della Madonna della Rocca. Anticamente quando la campagna era soggetta a periodi di siccità, il clero e gli abitanti di Apricena solevano recarsi in processione preceduti da giovanette vestite a lutto e coronate da spine, essi si recavano scalzi fino al santuario della Madonna della Rocca invocando la grazia per la pioggia e cantando inni a Lei dedicati. La chiesa costituiva la meta di uno dei pellegrinaggi che gli aprecinesi erano soliti seguire nel corso dell’anno, insieme al santuario di San Nazario e quello di San Michele Arcangelo a Monte Sant’Angelo. Il popolo si recava in pellegrinaggio la seconda domenica dopo Pasqua. Questo rito ha avuto seguito fino al primo conflitto mondiale, quando il santuario per il suo difficile accesso divenne luogo di rifugio per i disertori di guerra che lo devastarono e lo depredarono; l’incuria degli uomini ha completato l’opera e della chiesa dedicata a questa Madonna non ne resta alcuna traccia, se non qualche rudere da recuperare [8].

Proseguendo il cammino è interessante visitare la cittadina di San Marco In Lamis. Qui è venerata la Madonna delle Grazie cui è stata intitolata una chiesa. Ritenuta una tra le più antiche chiese del paese, è stata più volte e nel tempo restaurata. In occasione del Giubileo del 1900 fu completamente rimaneggiata e decorata, ed il 26 settembre 1899 il vescovo, mons. Mola, la riconsacrò dedicandola a Cristo Redentore ed a Maria SS. del Rosario, ma comunemente continua a conservare l’antica denominazione. Adiacente alla chiesa vi era il cimitero del paese che fu momentaneamente chiuso dopo il colera del 1837 e definitivamente nel 1909 con la costruzione di quello nuovo.

Dopo il terremoto del 1837 che danneggiò gravemente la chiesa Collegiata, la Confraternita del SS. Rosario, che aveva sede in questa chiesa si trasferì in quella di Santa Maria delle Grazie.

Per l’incremento demografico e lo sviluppo urbanistico, intorno agli ani ’30 del Novecento mons. Farina, con il consenso del Capitolo della Cattedrale di Foggia e quello della Collegiata di San Marco in Lamis, con Bolla del 15 settembre 1936 eresse la chiesa a sede della nuova parrocchia intitolata a Santa Maria delle Grazie [9].

È interessante osservare come in altri centri della Capitanata, ad esempio Bovino, il culto di Santa Maria di Valleverde fa confluire nella storia della religiosità popolare della città le sue tradizioni.

Santuario della Madonna di Valleverde in Bovino.

Santa Maria di Valleverde è la Protettrice di Bovino insieme a San Marco di Ecana. La tradizione narra che la sua apparizione avvenne intorno all’anno 1266 quando la Madonna apparve, in sogno, ad un onesto e probo uomo di nome Nicolò. Questi, una notte, sognò di andare con i compagni a spaccare la legna nel bosco di Mengaga, distante dall’abitato circa un miglio. Mentre si accingeva a raccogliere la legna, gli apparve una bellissima Signora, vestita di bianco, dall’aspetto stanco che lo pregò di riempirle una brocca di acqua dalla vicina sorgente perché aveva una gran sete.

Nicolò si rifiutò di esaudire la sua richiesta, perché doveva raccogliere la legna altrimenti i suoi compagni lo avrebbero lasciato da solo, ma la Signora gli assicurò che se le avesse riempito la brocca di acqua avrebbe trovato l’asino già carico di legna. Egli allora ubbidì; al suo ritorno rimase meravigliato nel vedere l’asino con la soma carica di legna, così le chiese chi fosse. Ella gli rispose di essere la “Madre del Figliuolo di Dio”, di aver abbandonato il territorio di Valverde in Spagna profanato dalle cattiverie degli uomini e di essere venuta in Puglia per proteggere gli abitanti di Bovino. Raccomandò a Nicolò di recarsi dal Vescovo a raccontargli tutto, di diffondere la voce in tutto il territorio e di far edificare una chiesa in suo onore, sotto il titolo di Santa Maria di Valleverde.

Purtroppo, Nicolò non esaudì il desiderio della Signora, ma raccontò il sogno solo a Lavinia, sua madre. La notte seguente la Beata Vergine gli apparve nuovamente riprendendolo per la sua noncuranza e dicendogli che se non avesse tenuto fede alla richiesta si sarebbe risvegliato con le membra doloranti. Neanche questa volta Nicolò diede ascolto alle richieste della Vergine.

Così, dopo la terza notte, Nicolò si risvegliò dolorante e gonfio tanto da spaventare i suoi familiari. La quarta notte gli apparve ancora la Beata Vergine che lo rimproverò per la sua ostinazione e gli replicò la richiesta, ma lui rispose che essendo malato non poteva eseguire i suoi ordini.

Ella gli intimò di alzarsi e di camminare. Il mattino seguente, Nicolò si alzò in perfetta forma, decise di recarsi dal Vescovo e di raccontargli quanto gli era successo. Il Vescovo, Giovanni Battista, fu commosso dal racconto del giovane tanto che si limitò a chiedergli dove la Vergine voleva fosse eretta la chiesa.

Nicolò, addormentatosi nella notte seguente, sognò di recarsi con la Vergine nel bosco di Mengega, dove ella gli apparve la prima volta, descrisse come voleva che fosse eretta la chiesa legando l’erba ed i fiori con le sue mani.  Il vescovo, udito il racconto del giovane andò subito con il clero ed il popolo in processione nel bosco di Mengaga dove rese grazie a Dio per il portentoso avvenimento. Subito si diede inizio alla costruzione della chiesa. La Beata Vergine aveva detto a Nicolò:

«Io sono la Madre del Figliuolo di Dio, che per insino adesso sono stata nel Territorio di Valleverde e per la puzza, e la mala vita di molti homini di quel paese, mi sono già partita di là, e sono venuta per star qui per la difesa de’ Pugliesi, e particolarmente di quei che abitano in Bovino».

Ogni anno, la prima domenica di maggio, clero, popolo e confraternite, si recano in processione al santuario per celebrare messe ed altre sacre funzioni in onore della Vergine, per ricordare l’apparizione. Al ritorno le congreghe sono precedute da due lunghe file di ragazzi che portano i rami degli alberi rivestiti di tenere foglie[10]. La Madonna di Valleverde si festeggia il 29 agosto.

In Cerignola il culto per la Madonna di Ripalta sull’Ofanto ripropone il tema religioso pagano, dal quale trae origine quello cristiano. La Sua chiesa sorge sulla riva sinistra del fiume ad una distanza di circa 9 Km dal centro abitato. Anticamente in questo luogo si praticavano riti pagani in onore della dea Bona, divinità della pastorizia e dei boschi. I monaci seguaci di San Basilio, venuti probabilmente dall’Oriente, costruirono sia il convento sia la chiesa sulle vestigia del tempio pagano intitolandolo alla Madonna della Misericordia.

I monaci, però, abbandonarono questo luogo intorno al IX secolo forse a causa delle scorrerie da parte degli Arabi che invadendo le terre comprese tra Bari e Napoli causavano stragi e rovine.

La chiesa, in seguito, passò sotto la tenenza del chierico Cicerone quando fu concessa in proprietà a Gundelguifo, figlio di Mimo d’Oria, al quale nel 947 Leone abate di S. Vincenzo al Volturno diede anche alcune terre. Infine, passò alla città di Cerignola che la intitolò a Santa Maria di Ripalta sull’Ofanto, dal luogo in cui si trova, e la Madonna fu venerata come protettrice della città.

Dal 6 al 10 settembre Cerignola festeggia nella consueta e rinomata Kermesse la ricorrenza della Madonna di Ripalta, con gare di fuochi pirotecnici ed altre iniziative religiose e folcloristiche che richiamano turisti ed abitanti dai paesi limitrofi. Il secondo lunedì di ottobre, il quadro della Madonna da Cerignola è riportato nella chiesa sull’Ofanto, dove sosta dal mese di settembre fino al sabato successivo alla Pasqua, in tale occasione la città festeggia l’avvenimento con una processione ed una sagra [11].

In Orta Nova è molto sentita la devozione per la Madonna dell’Altomare che trae origine dal culto sorto nella cittadina di Andria.

Gli avvenimenti che originarono la particolare devozione degli abitanti di Andria verso la Madonna dell’Altomare e la elevazione a santuario della chiesa a Lei intitolata, sono riconducibili al 1588, alla vigilia della Pentecoste quando una bimba di quattro anni scomparve dalla propria abitazione. Dopo lunghe ed estenuanti ricerche condotte senza esito positivo, dopo tre giorni, il martedì di Pentecoste, un contadino mentre si accingeva ad attingere l’acqua da una cisterna posta ad un centinaio di metri fuori dall’abitato, fu attratto dalla voce di una bimba che proveniva dal fondo della stessa cisterna.

Dopo aver dato l’allarme gli abitanti si accinsero a portare fuori il corpo della bimba e, con sorpresa, constatarono che si trattava proprio della bimba scomparsa tre giorni prima. Ai genitori ed alle persone accorse in quel luogo la bimba riferì che il giorno della sua scomparsa era caduta in quella cisterna e che era stata salvata da una bella Signora. Così, svuotata la cisterna, su una parte di essa fu trovata l’immagine della Madonna venerata nel Santuario.

Dai paesi vicini, dopo questo evento, incominciò un pellegrinaggio sempre più intenso; così l’allora vescovo mons. Vincenzo Basso, diede all’Immagine il titolo di Madonna dell’Altomare.

Dopo un periodo di iniziale entusiasmo, la Sacra Immagine fu dimenticata, tanto che durante la peste del 1656 il luogo fu utilizzato come camposanto degli appestati. L’unica a non trascurare la Madonna fu un’anziana devota di nome Angela che ogni giorno accendeva la lampada in quel luogo sacro. Più tardi la Madonna compì un altro prodigio: una giovinetta si era ammalata gravemente, così la devota segnò la fronte della fanciulla con l’olio della lampada della Madonna. Miracolosamente la ragazza guarì. Quest’ultimo miracolo segnò la vera origine del culto per la Madonna dell’Altomare perché da quel momento non solo la Sacra Immagine non fu più dimenticata ma fu eretta una chiesa in Suo onore.

Nella cittadina di Orta Nova, invece, la Madonna dell’Altomare fu portata da una fanciulla di nome Maria Balsamo soprannominata “Marietta”.

Questa ragazza un giorno si recò in pellegrinaggio ad Andria per chiedere alla Madonna la grazia della guarigione in quanto aveva una salute cagionevole e, non avendo nulla, destinò le uniche monete in suo possesso, che non ricordava neppure di avere, all’acquisto del quadro della Madonna. Ritornata ad Orta Nova per Maria le cose andarono meglio, ella guarì completamente e si sposò, ebbe dei figli ed un futuro radioso, anche perché la giovane era rimasta sempre devota alla Madonna.

Con il tempo gli abitanti di Orta Nova stimolati dalla stessa Marietta incominciarono a venerare la Sacra Immagine della Madonna dell’Altomare. In seguito il prodigioso quadro fu spesso portato in processione e, quando Maria e suo marito ebbero la possibilità, con l’obolo dei fedeli fecero erigere una chiesa alla Madonna dell’Altomare. Attualmente la vecchia chiesa ha avuto altra destinazione d’uso mentre verso la fine degli anni Ottanta del Novecento, ne è stata edificata una nuova [12]. I festeggiamenti della Madonna dell’Altomare avvengono durante il mese di agosto di ogni anno.

Nei pellegrinaggi mariani è inserita la cittadina di Panni dove si venera la Madonna Assunta in Cielo. L’antica piccola chiesa Madre del paese risale alla fine dell’ XI secolo e fin d’allora era dedicata a questa Madonna. Poiché il borgo era abitato da pastori in tempi più remoti, si ipotizza che la chiesa sia sorta sulle vestigia di quella più antica dedicata a San Martire di Costanzo, compatrono della città. In seguito all’espansione del borgo la chiesa fu ampliata e dedicata all’Assunta in Cielo.

A causa degli eventi sismici la chiesa fu più volte restaurata fino a quando, intorno alla prima metà dell’800, fu demolita per essere poi ricostruita dall’imprenditore edile foggiano Petrosillo che verso il 1830 su committenza della Confraternita e del Comune di Panni iniziò i lavori. Il costruttore si ispirò grossomodo alla Cattedrale di Troia realizzando la chiesa in uno stile dell’epoca, arricchendo di stucchi decorativi le volte a crociera. Molto del materiale appartenente all’antica chiesa fu reimpiegato ma furono utilizzati anche materiali provenienti dal castello.

La nuova chiesa fu ultimata nel 1842 ed ebbe un costo complessivo di ducati 14,000. A completamento dell’opera fu eretto un campanile a quattro piani. A causa di gravi lesioni e cadute di stucchi provocate dal sisma del 1930 e da quello del 1962 la chiesa fu demolita nella parte interna fatti salvi i muri perimetrali.

L’attuale costruzione mantiene le stesse caratteristiche di quella antica mentre la struttura interna è stata realizzata seguendo i criteri moderni di costruzione. I lavori furono in un primo momento sospesi nel 1972 e ripresi nel 1976; nuovamente interrotti per ragioni varie, furono ultimati nell’85 anno in cui la nuova chiesa fu inaugurata [13].

Tra le mete dei pellegrini non può mancare la visita al santuario dell’Incoronata di Foggia. Tale titolo è dovuto alla corona che cinge il capo della Madonna. Il culto per la Madonna Incoronata risale all’XI secolo quando la Ella manifestò la Sua presenza su una quercia nel bosco l’ultimo sabato di aprile. Secondo la tradizione Ella apparve al conte di Ariano [14] mentre questi si trovava nella foresta  nei pressi del fiume Cervaro. Durante la notte una luce vivissima attraversò la selva. Il Signore attratto dal chiarore giunse ai piedi di una quercia dalla cui sommità una misteriosa Signora, avvolta in aura sfolgorante e presentatasi con il nome di Maria madre di Dio gli indicava una statua di legno scuro assisa fra i rami dell’albero. Nel contempo un contadino di nome Strazzacappa, che si recava al lavoro con i suoi buoi alla vista della Signora, si inginocchiò, prese il paiolo che gli serviva per il pasto giornaliero, lo svuotò e vi versò l’olio che gli sarebbe servito per l’intero mese e, realizzato un rozzo stoppino, l’accese in onore della Madonna. L’omaggio di Strazzacappa restò per sempre il simbolo del santuario, segno di fede. Il nobile Signore fece edificare una piccola chiesa che divenne poi santuario famoso.

La cura della chiesa fu affidata ad un eremita, ma le comitive di pellegrini e villani sempre più numerose e, soprattutto, quelle dirette al santuario di San Michele Arcangelo determinarono l’esigenza dell’ampliamento del santuario dell’Incoronata di Foggia. La nuova chiesa fu affidata alla cura dei monaci Basiliani che la tennero fino al 1139. In quella data il normanno Ruggero II la donò a San Guglielmo da Vercelli che aveva da poco fondato il monastero di Montevergine presso Avellino.

Dal secolo XIII agli inizi del secolo XVI nel santuario si stabilirono i monaci cistercensi. La loro operosità e la dedizione ai pellegrini fecero del santuario uno dei maggiori centri religiosi della Capitanata. Nella seconda metà del secolo XVI l’intero complesso fu sottratto ai cistercensi e dato in commenda dapprima al nobile Antonio Carafa e poi ad altri dignitari che contribuirono con le loro opere ad accrescere l’importanza del santuario.

Con l’approvazione della legge sull’eversione feudale e la soppressione degli ordini religiosi i beni furono confiscati. Cominciò così un periodo di totale abbandono del santuario fino a quando agli albori del XX secolo l’opera dei vescovi e di alcuni benefattori tra cui i foggiani Perrone e Postiglione provvidero al recupero della struttura. Nel 1950 l’intero complesso fu affidato alle cure dell’Opera di Don Orione e da allora fu incrementato il pellegrinaggio. La vecchia chiesa si rivelò insufficiente ad accogliere i pellegrini e così nella seconda metà del XX secolo fu eretta una nuova basilica su progetto dell’ing. Luigi Vagnetti di Roma.

Tra i segni di devozione popolare degna di nota è senz’altro la Cavalcata degli Angeli che si svolge il venerdì successivo alla vestizione della statua. La statua della Madonna è incoronata, come avvenne durante la notte dell’apparizione, dagli angeli festanti con una triplice corona. Cavalli bardati a festa ornati di lustrini piume e sonagliere, insieme a centinaio di fanciulli vestiti da angeli, da santi e da fraticelli, girano per tre volte intorno al santuario in mezzo alle decine di migliaia di fedeli che accompagnano il corteo con il canti e preghiere.

Anticamente era tradizione che i pellegrini giunti nei pressi del fiume Cervaro o quelli provenienti dalla Basilicata usassero togliersi i calzari e percorrere a piedi nudi gli ultimi due chilometri di strada fino alla chiesa. Era un gesto di umiltà fatto nel ricordo di Mosé a cui sul monte Oreb il Signore comandò di togliersi i sandali per la sacralità del luogo. Oggi i pellegrini compiono ancora il triplice giro intorno al santuario prima di entrarvi. Tra le usanze ricorrenti vi è quella della benedizione con l’olio che ciascun pellegrino riceve; l’olio dell’umile Strazzacappa simbolo di fede, speranza e carità, come recita una preghiera tramandata dai pellegrini di Ripabottoni:

«[…] Ora vi preghiamo di ungere la nostra anima 
con quell’olio che il semplice campagnolo
detto Strazzacappa mise ad
ardere per voi sull’albero.
Perciò fate che nell’anima nostra non manchi
Mai l’olio della fede, l’unzione
della ferma speranza e la fiamma della santa carità» [15].

Alla luce di quanto emerge dagli studi svolti sull’argomento, si può affermare con fondato realismo che in ogni comprensorio urbano dell’Alto e del Basso Tavoliere la presenza del culto mariano espresso sotto le varie forme è vivo e sentito in modo evidente; così i molteplici segni di fede siano essi manifestati attraverso i pellegrinaggi oppure in altro modo, rappresentano il punto essenziale mediante il quale la religiosità popolare raggiunge la massima espressione.


NOTE

1 G. DE VITA, Orta Nova tra storia locale e religiosità popolare, in “ Segni di fede a Orta Nova” (a cura di Rosa Avello), CRSEC – Cerignola,Foggia 2000, pp. 9 e ss.

2 Ibidem.

3 A. CAMPANILE, Peschici nei ricordi, Foggia 2000, p. 59.

4 Ibidem, pp. 65 e 66.

5 M. VILLANI – G. SOCCIO, Le vie e la memoria dei padri, Santuari e percorsi devoti in Capitanata, Foggia 1999, pp. 60 e ss.

6 Ibidem, pp. 47 e ss.

7 G. LO ZITO, L’Incoronata, storie & restauri, Apricena 2003, pp. 15 e ss.

8 G. DI PERNA, Santa Maria di Selva della Rocca – la storia, in “Siti archeologici nel territorio di Apricena, Santa Maria di Selva della Rocca”, a cura di G. Di Perna, V. La Rosa e M. Violano, San Severo 1997, pp 53 e ss.

9 P. SCOPECE, Dalle Origini… comuni e chiese parrocchiali dell’Arcidiocesi Foggia – Bovino, Foggia 1999, p. 257.

10 C.G. NICASTRO, Bovino, storia di popolo, vescovi duchi e briganti, Amministrazione Provinciale di Capitanata, Foggia 1984, pp. 149, 150 e 151.

11 L. ANTONELLIS, Cerignola Guida alla città, Comune di Cerignola, Cerignola 1999,  pp. 96, 97, 99, 100 e 101.

12 V. SANTORO, Orta Nova e il Santuario della Madonna dell’Altomare, storia, cronaca e itinerari turistici, Foggia 1987, pp. 21 e ss.

13Ibidem, pp. 372.

14 Personaggio legato alla sola tradizione religiosa e popolare, indicato come appartenente alla dinastia Guevara. Storicamente questa nobile famiglia giunse dalla Spagna in Italia al seguito di Alfonso d’Aragona nel 1400, per cui non poteva essere in Capitanata in epoca anteriore a quella data. La scarsa documentazione risalente a quel periodo, inoltre, attesta che l’Italia meridionale non era ancora regolata dal sistema feudale.

15 M. VILLANI – G. SOCCIO, Le vie … op. cit., pp. 39 e ss.

 

©2006 Lucia Lopriore

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Microstorie

Il “mistero dell’incarnazione” nel culto mariano

La copertina del volume.

In un’epoca in cui tutto sembra andare a rotoli, dove tra il problema dello stoccaggio dei rifiuti in Campania, l’inquinamento ambientale, i disordini politici, ed altre problematiche che si alternano alle facezie del vissuto quotidiano tanto da diventare oggetto d’interesse dei mass media – si veda il caso Sarkozy-Bruni -, in un mondo dove la cattiveria impera, ecco spuntare all’orizzonte miracolosamente un messaggio di pace e di speranza: quello della fede Cristiana.

A pensarci è stato un noto studioso del nostro territorio esperto di agiografia, il prof. Gilberto Regolo, con l’ultima Sua fatica data recentemente alle stampe per i tipi delle Edizioni del Rosone “Franco Marasca” di Foggia, dal titolo L’uomo, il silenzio di Dio, i dolori della Vergine (pp. 192, ill. b/n e colori, Foggia 2007).

Il volume, diviso in quattrodici capitoli, percorre attraverso un’ampia carrellata di notizie storiche, politiche e religiose il cammino della fede Cristiana, spaziando dagli scismi della Chiesa Primitiva, attraverso la testimonianza di fede di Paolo, al protestantesimo di Martin Lutero, alle esperienze religiose di Santa Caterina Labouré, la cui storia riecheggia nei miei ricordi d’infanzia, quando mia madre era solita recitare nelle preghiere la giagulatoria: “O Maria, concepita senza peccato, pregate per noi che ricorriamo a Voi”.

Il racconto del miracolo dell’apparizione della Madonna a Santa Caterina Labouré, Figlia della Carità, mi veniva ripetuto spesso anche da una zia materna, suora appartenente allo stesso Ordine di Santa Caterina, quando mi recavo a farle visita le poche volte in cui le era concesso ricevere i parenti.

L’Autore racconta, inoltre, le esperienze di Santa Margherita Alacoque e Sant’Alfonso de’Liguori, mentre il Suo spirito cristiano ed ascetico emerge dall’esegesi della “Salve Regina” recitata e commentata nei tratti salienti.

Nel testo non mancano le tematiche filosofiche che l’Autore ritiene fortemente discutibili in quanto in esse tutto è concesso, anche l’improponibile.

Nel racconto del miracolo di Fatima, analizzato sotto i diversi aspetti, l’Autore lancia un grido di speranza che si accentua quando parla delle politiche contrapposte allo spirito cristiano, tematiche, queste ultime, affrontate con estrema durezza concettuale. Tra le tante: il Modernismo, il Laicismo ed il Relativismo sono additate come strumenti di scristianizzazione.

La parte centrale del volume affronta la crisi dell’uomo di oggi, l’aggressione alla famiglia con i falsi modelli culturali, le convivenze, l’amore libero e quanto altro, fino ad inoltrarsi nei flagelli del Terzo Millennio con il turismo sessuale, la droga di massa, il terrorismo, le malattie sessuali ecc. Qui, emerge il tema della spiritualità: l’uomo ovvero il Cristo che risorgere per redimere l’Umanità dai peccati e dalle cattiverie, ed il Mistero dell’Incarnazione: “Dio è il Verbo che viene generato dalla Madre”.

“Maria piena di Grazie Regina del Cielo e della Terra” intercede per l’Umanità attraverso le frequenti e necessarie apparizioni: a Parigi, in Rue du Bac (1830), a La Salette (1846), a Lourdes (1858), a Pont-Main (1871), a Fatima (1917), a Bennaux (1933) fino a quella di Medjiugorye nel 1981. Luoghi che diventano scenario del messaggio mariano.

La Madonna venerata dopo millenni perchè dispensatrice di grazie a testimonianza della speranza che l’Umanità nutre per Sua intercessione. “L’occhio miracoloso della Madre” che segue i Suoi figli accompagna il lettore attento con la Sua presenza in quasi ogni pagina del volume.

La devozione mariana, soprattutto in ambito locale, stabilisce la totale prevalenza tra le scelte coeve dell’immagine della Madonna sotto i diversi titoli, a Foggia tale culto si estende alla Madonna del Carmine, alla Madonna Addolorata, alla Madonna della Croce, all’Immacolata, all’Incoronata, alla Madonna della Pace, alla Madonna della Neve, alla Madonna del Grano, alla Madonna delle Grazie e, per il passato, a Santa Maria in Silvis la cui icona è custodita presso la chiesa delle Croci ed infine, a Santa Maria di Costantinopoli alla quale fu intitolata una chiesa in seguito demolita.

Beato Angelico, Madonna col Bambino e angeli.
Giovanni Bellini, Incoronazione della Madonna (particolare).

Tuttavia, emblematica per il capoluogo daunio è certamente la presenza del culto per la Madonna Iconavetere. Meglio conosciuta come Madonna dei Sette Veli, è un’antica immagine raffigurante la Vergine Kyriotissa Nicopaia.

Secondo la tradizione, le origini della città di Foggia risalgono intorno all’anno Mille con il rinvenimento della tavola raffigurante la Madonna Iconavetere , affiorata sulle acque di un pantano nei pressi del quale era stata occultata, avvolta in drappi o veli, forse per sottrarla alla furia iconoclasta.

La sua provenienza è incerta. L’icona che secondo la tradizione fu dipinta dall’evangelista Luca, cui sono riferite diverse icone mariane, fu portata nel 485 d. C. a Siponto dalla città di Costantinopoli, dove era oggetto di grande venerazione. Sarebbe stata consegnata, in tale circostanza, al vescovo Lorenzo Maiorano, che ne fece dono alla città di Arpi.

Durante la distruzione della città risalente al 600 d. C. circa, il Sacro Tavolo fu posto in salvo da un contadino del luogo che, avvoltolo in drappi, l’avrebbe poi nascosto nel sito del suo rinvenimento.

L’Iconavetere fu ritrovata a Foggia nel luogo oggi denominato piazza del Lago, nei pressi della cattedrale, da alcuni pastori incuriositi alla vista di un bue genuflesso al cospetto di tre fiammelle posate sulle acque del lago; i pastori portarono l’icona nella vicina Taverna del Gufo del bufo, divenuta poi una chiesa rurale, attorno alla quale si formò il primo nucleo abitativo che riunì gli abitanti dell’antica Arpi,dispersi nelle vicinanze dopo la sua distruzione.

Dai paesani e dai forestieri La Taverna del Gufo fu denominata “cappella di Sancta Maria de Focis”, a ricordo della Vergine Santa e delle tre fiammelle apparse sulle acque dello stagno.

Alcuni studiosi ritengono che il Sacro Tavolo dell’Iconavetere raffiguri l’immagine dell’Assunta in cielo. Un gruppo di storici dell’Arte negli anni ’80 del Novecento ha effettuato un restauro sul Tavolo dell’Iconavetere, riconoscendo la Madonna riccamente abbigliata, seduta con il bambino in grembo. In tale occasione, è stato stabilito che, dal profilo dell’aureola che emerge, è possibile collocare l’opera secondo modi diffusi in ambito campano-abruzzese.

Le tracce di lapislazzuli e di oro, gli alveoli destinati ad ospitare pietre dure intorno alle aureole, emersi nel corso di un restauro precedente, risalente agli anni sessanta del Novecento, attestano la preziosità dell’icona, databile tra l’XI ed il XII secolo.

Nel 1080 Roberto il Guiscardo volle che sullo stagno dove era stato rinvenuto il Sacro Tavolo fosse costruita una grande chiesa, che fu ampliata nel 1172 per volere di Guglielmo II di Sicilia detto il Buono. Con la chiesa crebbe anche la città, che divenne una delle più importanti del Regno. La storia del santuario si identificò con quella di Foggia. Diverse volte i principi regnanti scelsero la chiesa di Sancta Maria de Focis per celebrare i loro matrimoni. Carlo I d’Angiò fece del tempio mariano la sua cappella palatina, e qui volle che nel 1274 si celebrassero le nozze tra la terzogenita Beatrice e Filippo di Courtenay. Furono devoti dell’Iconavetere anche Carlo II lo zoppo, Roberto il saggio, Giovanna I, Giovanna II ed il consorte Ladislao, Alfonso I e suo figlio Ferrante I d’Aragona.

Nel 1731 la chiesa fu semidistrutta da un violento terremoto, ed il Sacro Tavolo fu portato nella chiesa di Santa Maria di Costantinopoli dove il volto della Madonna apparve per la prima volta dalla piccola finestra ogivale dell’icona. Era il 22 marzo, giovedì santo, il popolo era raccolto nella partecipazione della Santa Messa quando si verificò il prodigioso evento.

Sant’Alfonso Maria de’Liguori, appresa la notizia, volle recarsi a Foggia per rendere omaggio alla Vergine Santissima. Anche lui ebbe il privilegio di vedere la Madonna che appariva come una giovinetta di 13 o 14 anni con il capo coperto da un velo bianco. Le apparizioni si rinnovarono fino al 1745.

Nel 1767 Maria Carolina d’Asburgo, moglie di Ferdinando IV di Borbone, si recò in pellegrinaggio a Foggia. Più tardi ella volle che le nozze tra suo figlio Francesco I, principe ereditario, e Maria Clementina d’Austria, fossero celebrate a Foggia. Correva l’anno 1797 e per un solo giorno la città fu capitale e l’Iconavetere patrona del Regno.

Nel 1782 la sacra immagine fu incoronata con decreto del Capitolo Vaticano e nel 1806, per volere di Pio VII, la chiesa fu illustrata con il titolo di Basilica Minore.

La corona d’oro fu sottratta da ignoti il 6 marzo 1977. Il popolo foggiano si offrì di provvedere all’acquisto della nuova corona, così la Madonna fu nuovamente incoronata il 22 marzo 1982.

Infine, nel 1855, con l’istituzione della diocesi di Foggia, la chiesa di Sancta Maria de Focis fu elevata a cattedrale della nuova diocesi.

Vennero a Foggia anche Vittorio Emanuele II di Savoia che venerò l’immagine della Madonna nel 1863. Tre anni dopo fu la volta dei principi Umberto ed Amedeo di Savoia, mentre nel 1928 venne anche Vittorio Emanuele III.

Molti furono anche i Santi venuti da lontano per venerare l’immagine della Vergine. La tradizione ricorda i nomi di San Francesco d’Assisi, San Giovanni di Matera, San Tommaso d’Aquino, San Pietro Celestino, San Vincenzo Ferreri, Sant’Antonino, San Gerardo Majella, oltre al già citato Sant’ Alfonso Maria de’ Ligori ed i Santi Guglielmo e Pellegrino di Antiochia.

Per la devozione di questa Sacra Immagine, la Chiesa ed Capitolo di Foggia ebbero alcune rendite annue attraverso una serie di privilegi concessi già in epoca angioina con i vari diritti quali quello sullo scannaggio, la decima sopra il dazio e la bagliva, alcune rendite sopra le gabelle della carne, della neve, della farina e forno, ecc. e tali privilegi furono confermati anche dai Regi successori e fino agli albori del secolo scorso.

Gli ultimi capitoli del prezioso volume sono dedicati all’arte mariana vista da varie angolazioni. Sono chiamati in causa artisti che hanno fatto dell’Arte Sacra “l’ombelico del mondo”. Caravaggio, Michelangelo, il Beato Angelico, solo per fare qualche citazione, emergono attraverso il dovizioso apparato iconografico.

Gli echi delle ultime apparizioni a Medjiugorye, ed i quattro inviti della Vergine: la Pace , la Conversione , il Digiuno, la Preghiera, sembrano voler preannunciare l’attesa di venute escatologiche simili a quelle delle prime comunità cristiane concludendo il bellissimo testo che si inserisce a pieno titolo nella letteratura agiografica costituendo un ulteriore valore aggiunto al prezioso patrimonio bibliografico sulla storia del nostro territorio.

©2008 Lucia Lopriore