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Microstorie

Patriarchi, verdi sentinelle di un antico patrimonio

Gli ulivi millenari sono i biglietti da visita di un luogo che “profuma” di storia e atmosfere suggestive

Cartoline da Carovigno

Carovigno, popoloso borgo in provincia di Brindisi a 5 km dal mare, offre un eccellente mix di storia, cultura, natura e tradizioni popolari. La sua Piana degli ulivi è ricca di “patriarchi verdi” dalle forme scultoree affascinanti. È possibile apprezzare questo grande patrimonio inoltrandoci in una rete di sentieri, tratturi e antiche strade, frantoi ipogei e suggestive grotte.

Nei giardini di Carovigno, il Parco Provinciale (a Nord) e il Parco Comunale, troviamo ulivi millenari, un piccolo viale botanico, essenze di macchia mediterranea. il Parco della rimembranza, dedicato ai caduti della Prima Guerra Mondiale, e viali profumati con rose rampicanti.

L’araldica

Lo stemma di Carovigno, riconosciuto il 9 febbraio 1935, come tutti gli emblemi civici del Ventennio fascista era ornato dal fascio Littorio, eliminato dopo la caduta della dittatura. La forma attuale del gonfalone, un «drappo di color porpora, riccamente ornato di ricami d’oro e caricato dallo stemma, con l’iscrizione centrata in oro del nome del Comune» è tipica dell’araldica civica italiana, con stemma «D’azzurro, con un delfino cavalcato da un amorino che suona la cetra».

Le Torri e il Castello

Gli ingressi principali del centro storico di Carovigno sono costituiti dalle due antiche porte, Porta Brindisi e Porta Ostuni, e da due aperture più piccole, l’arco “del Prete” e la “Purticedda”. Della vecchia cinta muraria, spiccano quattro torri: la Torretta del civile, sulla quale si intravvede una meridiana; Torre Giranda e la sua stivatura, Torre “delli Brandi” (purtroppo inglobata in moderne costruzioni; la Torre circolare (del Prete). Ma l’attrazione principale del borgo è l’imponente castello Dentice di Frasso, le cui origini risalgono all’epoca normanna, con chiara vocazione difensiva (lo dimostrano la torre quadrata e gli ambienti sotterranei). A partire dalla fine del XIV secolo, il principe Raimondo del Balzo ampliò il castello e lo fortificò con una seconda torre, questa volta rotonda.

Nel 1492, il castello di Carovigno assunse la caratteristica forma triangolare con l’aggiunta della torre a mandorla ispirata ai progetti del celebre architetto militare Francesco Di Giorgio Martini. Le sue mura imponenti e la forma lanceolata ne fanno un originale esempio di adattamento delle fortificazioni medievali alle nuove strategie belliche. Nel 1791 il Castello entrò a far parte dei possedimenti dei Dentice di Frasso. L’ingresso è decorato con il motto della famiglia Dentice “Noli me tangere”, e il suo stemma nobiliare. All’interno, numerosi emblemi araldici – tra cui quelli delle famiglie Schlippenbach, Loffredo, Caputo, Granafei e Imperiali – raccontano il susseguirsi delle varie feudalità. Spiccano i grifoni a guardia della scalinata che conduce al piano nobile e diverse iscrizioni in latino incise all’interno delle sale. In un parco e in un orto botanico sperimentale, furono coltivate varietà di piante e frutti rari, grazie al contributo del celebre botanico dell’epoca Francesco Ingrosso.

Nel corso della storia, si sono avvicendati illustri visitatori, tra cui Guglielmo Marconi e il futuro re Umberto II. Nel 1961, il castello fu venduto da Luigi Dentice di Frasso all’Opera Maternità e Infanzia. Proprietà della provincia di Brindisi dal 1973, oggi in concessione al Comune di Carovigno, ospita la Biblioteca “ Morelli” e rappresenta, oltre che un patrimonio storico di inestimabile valore, un autentico punto di riferimento culturale e simbolico per l’intera Puglia.

Le Chiese

Nel borgo c’è da vedere la Chiesa Matrice, che risale al Trecento ed è dedicata all’Assunta. Della struttura cinquecentesca resta solo l’abside ed il bel rosone che un tempo si trovava sulla facciata principale. All’interno alcune tele settecentesche di artisti locali.

La Chiesa di S. Anna, vicino al Castello, fu costruita dalla famiglia Imperiali nel XVIII secolo. Tra le altre chiese da visitare ci sono la chiesa di Sant’Angelo (del Quattrocento) e la chiesa del Carmine, con affreschi del Settecento.

Il battimento della ‘Nzegna

Secondo una leggenda popolare, un pastore e un signore di Conversano, mentre contemporaneamente cercavano una giovenca smarrita e l’immagine della Madonna, le ritrovarono in una grotta della contrada di Belvedere a Carovigno. Il pastore e il signore (che fu miracolato), presi da emozione e gioia, per attirare l’attenzione dei contadini della contrada, legarono un fazzoletto colorato (‘Nzegna) al proprio bastone e cominciarono a lanciarlo in aria.

Ancora oggi, il “battimento della ‘Nzegna” viene riproposto durante la processione in onore della Vergine di Belvedere il lunedì, il martedì e il sabato dopo Pasqua.

Tre colpi di grancassa scandiscono i passi dei battitori che, avvolti nella ‘Nzegna, si portano verso il centro e danno inizio alla loro danza. Il suono del piffero li segue e li accompagna rimarcando con lunghe note squillanti, gli attimi in cui le bandiere vengono lanciate in aria ed i respiri degli spettatori si interrompono nell’attesa che i battitori le riprendano al volo prima che tocchino terra. E’ un rito propiziatorio, poiché l’eventuale caduta della ‘Nzegna sarebbe di cattivo auspicio per l’intera città.

Il rito si conclude con l’inchino finale e la deposizione della ‘Nzegna ai piedi della statua della Madonna. Il corteo quindi si ricompone per far rientro in cattedrale.

La ‘Nzegna è una bandiera composta da pezzi triangolari di stoffa multicolore, disposti ad incastro in doppia fila intorno ad un quadrato, all’interno del quale è raffigurato, con gli stessi colori dei triangoli, un fiore a dieci petali pentagonali, stilizzato: la rosa mistica, un simbolo mariano bizantino.

Recentemente il prof. Carito ha attribuito al drappo il significato di “pasquale segno di pace tra la comunità greca e quella di culturale latina“, collocando l’episodio della battitura della nzegna all’epoca della conquista della Puglia da parte dei normanni e alla complessiva ridefinizione dei rapporti coi cristiani di Bisanzio.

Negli ultimi secoli, Battitori della Nzegna sono stati i membri delle famiglie Brandi, Lanzillotti, Di Perna, Maellaro. Attualmente, ad assumere annualmente l’onere e l’onore della Battitura, sono due rappresentanti e discendenti delle famiglie di Sabino e Nicolò Carlucci che se la tramandano di padre in figlio da almeno quattro generazioni.

TORRE GUACETO

La Riserva naturale statale Torre Guaceto, situata sulla costa adriatica dell’alto Salento vicino a Carovigno, San Vito dei Normanni e Brindisi, si estende per 1.016 ettari a terra e 2.227 in mare. Presenta diversi habitat, dal litorale alle zone umide dovute a bonifiche e successivi allagamenti, ed è oggetto di studi scientifici, progetti di educazione ambientale e formazione professionale.

Gestita da un consorzio tra i Comuni e WWF Italia, la riserva è riconosciuta per il valore ambientale delle sue spiagge (premiate con Bandiera Blu) e per la sua biodiversità, che include 670 taxa di flora e numerose specie di fauna, come mammiferi notturni, uccelli e rettili. Tra gli uccelli che prediligono come dormitorio o punto di sosta il canneto di Torre Guaceto vi sono passeriformi come il pendolino e l’usignolo di fiume o uccelli di dimensioni maggiori come il porciglione, gli aironi e il tarabuso. Quest’ultimo, per mimetizzarsi al meglio tra le canne che lo circondano, può rimanere per molto tempo immobile in piedi o ondulare lentamente come canna al vento. Se viene disturbato, assume una particolare “posizione di attacco”. Altri protagonisti di quest’ambiente sono le rondini che in migliaia di esemplari vi stazionano durante i viaggi migratori. Tra i rapaci domina il falco di palude.

Recenti scavi hanno portato alla luce resti di un villaggio fortificato del Bronzo, mentre la scoperta, a partire dal 2019, di una necropoli a cremazione (con 35 tombe) ha evidenziato l’importanza storica del territorio, aprendo prospettive per la creazione di un museo archeologico.

teresa maria rauzino

su “L’Edicola” 14 aprile 2025

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Microstorie

Botteghe del gusto e colombe che si posano sulle tavole della festa

Nella Settimana Santa si rinnovano riti gastronomici di grande intensità. Forni e pasticcerie restano baluardi della bontà che supera i confini locali

Viaggio gourmet

La Puglia, terra di tradizioni radicate e di sapori autentici, vive la Pasqua con un’intensità che si riflette soprattutto nella gastronomia. E i forni e le botteghe artigianali svolgono un ruolo centrale nella preparazione delle specialità pasquali come le “scarcelle” a base di pasta frolla, decorate con zuccherini colorati e un uovo sodo al centro (simbolo di rinascita) a forma di colomba, di cuore, o cestino. Diffusissimi nel foggiano e nel barese sono i taralli dolci, sbollentati prima di essere cotti in forno e poi glassati con una copertura bianca di zucchero (gileppe).

Ci sono poi i “puddhriche” o “cuddhura”, pane dolce o salato intrecciato con uova incorporate, diffuso soprattutto nel Salento. Da gustare i pasticciotti leccesi e il cavicione di Ischitella (a base di sponsali uvetta e acciughe).

I luoghi

Uno spazio meritano i Forni d’eccellenza, che poniamo all’attenzione dei nostri lettori in un tour tutto pugliese. Emergente è il Forno Sammarco di San Marco in Lamis in Capitanata. Il suo maestro panificatore, Antonio Cera, è noto per aver valorizzato i grani antichi e le ricette della tradizione con un approccio quasi filosofico, una sorta di rivoluzione culturale. Educa i consumatori, e ha creato una rete consapevole di agricoltori e ristoratori che esaltano la salute e la tradizione.

Oltre al pane, il forno offre dolci tradizionali e biscotti, mantenendo viva la cultura gastronomica del Gargano. Le sue colombe artigianali e le scarcelle reinterpretate sono ormai celebri a livello non solo nazionale. Una nuova proposta per le festività è la “Palummella”, un nuovo lievitato pasquale ideato dal foodblogger Alessandro Tipaldi, realizzato in collaborazione con il forno Sammarco, oltre che con il bar Cinquanta Spirito Italiano. Questo lievitato si distingue per la sua composizione con salumi e formaggi del Sud, e fave di cacao che gli conferiscono una nota agrodolce, proponendo un’alternativa alla dolce colomba.

Il secondo forno da segnalare è il Panificio Di Gesù di Altamura. Nel cuore della capitale del pane Dop, questo forno produce pani e dolci pasquali secondo metodi tramandati da generazioni, usando solo lievito madre e cottura in forno a legna. La colomba artigianale Di Gesù nasce da un impasto soffice, lievitato naturalmente, arricchito da ingredienti selezionati e decorato a mano con glassa croccante alle mandorle. Nessun conservante, solo pazienza e passione.

Le eccellenze

Tra le botteghe tipiche e pasticcerie artigianali da segnalare la Dolceria Sapone di Conversano. Celebre per le colombe pasquali con ingredienti del territorio: fichi, mandorle di Toritto, limoni del Gargano, unisce tradizione e creatività. La colomba, simbolo indiscusso della Pasqua, è un lievitato che nasce dalla cura del lievito madre e da una lenta lavorazione. Infatti, il ciclo produttivo si completa dopo 36 ore di lievitazione naturale. Ecco la Colomba al Limoncello, di soffice pasta lievitata ricoperta con cioccolato bianco e farcita con una deliziosa crema al limoncello; colomba albicocca e cremino alla mandorla, in cui le albicocche candite e la pasta di mandorle creano un gusto esclusivo e unico, con sentori di miele di trifoglio e scorze di agrumi; soffice, delicata e senza canditi, è la Colomba al pistacchio. Ancora, tra le tante varianti, c’è la colomba “Intensamente fondente” con cioccolato, glassata di mandorle, nocciole e cacao, e indicata per gli intolleranti al lattosio.

Marchio storico della pasticceria salentina, la Martinucci di Maglie e Salento, propone ogni anno un assortimento pasquale che va dai dolci tradizionali alle colombe gourmet. Una chicca è l’agnello in pasta di mandorla, modellato con maestria e adornato con dettagli raffinati dai maestri pasticceri della casa. Un capolavoro che incanta occhi e palato, una dolcezza che dura da oltre 70 anni.

Nella seconda metà degli anni ’20, la famiglia Panese fonda un forno adiacente alla propria abitazione a Specchia. Nel 1950, nasce la Pasticceria Martinucci, un laboratorio che diventa un crocevia dei più grandi ingegni della tradizione pasticcera italiana: Siciliani, Napoletani e Veneti, tutti chiamati da Rocco Martinucci e sua moglie Annunziata Panese a cedere le proprie conoscenze e manualità. Oggi, l’azienda ha aperto ben 25 store ed esporta la “dolce tradizione salentina” in Italia e in molti paesi del mondo, producendo pasticceria, gelati, torte, dolci monoporzione e tiramisù, che è la referenza più ricercata.

In Capitanata

E infine si torna in Capitanata per un salto alla Pasticceria Casoli di Troia, in provincia di Foggia. Famosa per la scarcella foggiana, realizzata in diverse dimensioni e con decorazioni artistiche, si sta affermando per la “Colomba passionata”, gusto classica, arancia, liquore strega, estasi, pistacchio e nocciola.

È sicuramente una deliziosa alternativa alla Colomba tradizionale. Lievitata naturalmente, il che la rende estremamente soffice, viene farcita con una delicata crema alla ricotta di mucca pecora e bufala, e ricoperta poi con uno strato di pasta di mandorle pugliesi. Questa Colomba nasce dalla Passionata Dolce, inventata dai coniugi Lucia e Nicola che hanno fatto della loro passione un lavoro, dando a questo esclusivo dolce il nome “Passio-nata, Nata dalla Passione”.

All’ombra della cattedrale di Troia gli undici gusti della Passionata vengono declinati come gli undici raggi del Rosone.

Teresa Maria Rauzino

su “L’Edicola” 15 aprile 2025

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Microstorie

Quei primitivi nuraghi salentini tra frantoi e set cinematografici

A cavallo tra Ionio e Adriatico, Specchia fu luogo prescelto dalla famiglie nobili medievali per le sue tipicità. Il tour nel centro storico alla scoperta delle architetture industriali legate alla lavorazione dell’olio

Cartoline da Specchia

Specchia, in provincia di Lecce, è un piccolo borgo di 4.502 abitanti nel cuore del Salento, uno dei più belli d’Italia. Da un’altura strategica domina la pianura sottostante, a metà strada tra Ionio e Adriatico. Recentemente è stato riqualificato con la creazione di un “albergo diffuso”, che rappresenta la volontà di mostrare un territorio autentico, e preservarlo dai rischi del turismo di massa. Un esempio seguito da molti piccoli Comuni del Salento e italiani che hanno recuperato e valorizzato vecchi edifici in centri storici, evitando di invadere il territorio con nuove costruzioni. Un caso che ha fatto scuola, analizzato in varie tesi di laurea.

Il nome

Il nome di Specchia deriva da “specchie”, manufatti tipici del Salento e della Murgia realizzati con lastre calcaree sovrapposte a secco in forma conica, la cui origine risale probabilmente al periodo medievale. La loro funzione è oggetto di dibattito. Per lo storico dell’arte francese Émile Bertaux le “specchie” erano una sorta di ““nuraghi di Terra d’Otranto” crollati nel tempo. Oppure “enormi torri di avvistamento necessarie alla difesa”. La “specchia di pietre” era chiamata anche “Specla de Amygdalis” con riferimento agli alberi di mandorlo di cui era ricchissima la zona. Le due ipotesi sono avvalorate dallo stemma comunale che rappresenta un “Mandorlo fiorito poggiante su un cumulo di pietre e sormontato da una corona con cinque torri”.

Una caratteristica Specchia salentina

La Storia

Probabilmente nel IX secolo un primo piccolo nucleo di contadini e pastori occupò questa collinetta lontana dal mare e al riparo dalle frequenti scorrerie saracene. Con la venuta dei Normanni, per la Terra d’Otranto iniziò l’era feudale. Nel 1190, Tancredi diventa re di Napoli e conte di Lecce. Specchia viene infeudata a Filiberto Monteroni.

Nel 1414, la regina Giovanna invia nel Salento contro gli Orsini-Del Balzo un esercito guidato da Luigi III d’Angiò e da Giacomo Caldora, famoso capitano di ventura che negli anni 1434-35 assedia Specchia, la espugna e la distrugge.

Alfonso I D’Aragona, re di Napoli e di Sicilia, nel 1452, concede a Raimondo Del Balzo il permesso di ripopolare la rocca. Riedificati il castello e le mura, si concede asilo ai fuggiaschi dei centri costieri, terrorizzati dai Turchi dopo il sacco di Otranto (1480).

Dai Del Balzo ai Di Capua, ai Gonzaga, ai Brajda, ai Trane, il feudo passa in mano alle nobili famiglie fino all’abolizione del feudalesimo nel 1806.

Chiese e palazzi

Scrive lo storico Antonio Penna: «Al visitatore che in silenzio e in solitudine si avventura per il borgo, parleranno i semplici e composti portali catalani o barocchi, le cornici di pietra leccese, le iscrizioni in italiano o latino, i beccatelli dei balconi proiettati sulle strade, le logge panciute in ferro battuto, gli archetti pensili, che ancora adornano le facciate di case un tempo signorili, i fregi, le statue, le colonne, le edicole votive con immagini sacre sbiadite dal tempo».

Interessante è la chiesa di S. Nicola, edificata nel IX-X secolo, nel 1587 restaurata e adattata al rito latino, come ricorda una epigrafe posta sulla facciata. S. Eufemia, circondata da uliveti, è una suggestiva chiesetta di origine bizantina a tre navate separate da colonne monolitiche, con archi a tutto sesto. Il convento dei Francescani Neri, costruito nei primi decenni del Cinquecento, nel Settecento fu rinnovato in stile barocco; trasformato in educandato femminile nel 1885, e nel 1945 in orfanotrofio, fu chiuso nel 1980.

Di costruzione seicentesca sono le chiese dell’Assunta e di S. Antonio, con annesso convento dei Domenicani. Anche la Matrice fu edificata nel 1605 ma ha subito molti rifacimenti. I pilastri sono in pietra leccese e stuccati alla veneziana, mentre gli archi trionfali sono decorati con motivi floreali.

Il centralissimo castello Risolo è una struttura fortificata di impianto cinquecentesco, con due torrioni quadrati posti agli angoli dell’antica costruzione. Furono i Protonobilissimi, marchesi di Specchia nei sec. XVI e XVII, a trasformarlo in palazzo marchesale.

I frantoi ipogei

Il Comune di Specchia ha aderito alla Strada dell’Olio “Jonica-Antica Terra d’Otranto”. Il suo extravergine è un prodotto di qualità, con marchio “De.C.O Specchia”. Nel borgo antico è possibile visitare i frantoi ipogei, testimonianza di architettura industriale e della vita socio-economica del Salento tra XV e XIX secolo, basata sulla produzione di olio lampante esportato in tutta Italia. L’antico frantoio ipogeo Scupola scavato nel tufo custodisce varie macine, torchi “alla genovese” e alla calabrese”, vasche di spremitura e di decantazione, depositi di stoccaggio delle olive e posti di ristoro per gli operai. A Specchia è possibile visitare anche il frantoio ipogeo di via Perrone e il frantoio del Convento dei Francescani Neri.

Ciceri e tria

Gli eventi culturali e le sagre offrono varie opportunità per scoprire la cucina locale, famosa per piatti come “ciceri e tria” (pasta fritta e ceci). Si tratta di un primo piatto basato su una ricetta antica (il poeta Orazio ne menziona l’esistenza già nel 35 a.c.): pasta fresca realizzata con farina, semola rimacinata, acqua e olio d’oliva, stesa sottile e trasformata in tagliatelle corte a forma a spirale: la particolarità è che una parte viene fritta, dando consistenza al piatto. Tra le innumerevoli ricette di questa terra di ricchissima tradizione gastronomica, bisogna ricordare la minestra con fave e carciofi e l’insalata di melanzane alla griglia. Da gustare le caratteristiche frise con l’olio d’oliva e i pomodori e come dolce il pasticciotto a base di frolla, crema pasticciera e amarene.

Set cinematografico

In questo affascinante borgo del Salento sono stati girati diversi film: nel 2000 “Sangue vivo”, diretto da Edoardo Winspeare; nel 2006 “Eccezzziunale veramente – Capitolo secondo… me”, diretto da Carlo Vanzina, con Diego Abatantuono. Le scene furono girate in piazza del Popolo e in alcuni palazzi storici. Nel 2013 il film “La santa” diretto da Cosimo Alemà. Questi film testimoniano come il borgo sia stato scelto come set cinematografico per valorizzarne le bellezze architettoniche e paesaggistiche.

La rinascita del borgo con l’albergo diffuso

Agli inizi degli anni ’90, chi visitava Specchia non trovava quasi più abitanti nel centro storico. L’emigrazione aveva colpito l’intera area. Le case erano chiuse e abbandonate. Nel 1995 la locale Pro Loco e alcuni artisti cominciarono a far rivivere questi luoghi con “SpecchiArte”. Quadri, fotografie e sculture esposte lungo le stradine e all’interno delle abitazioni spoglie di mobili, per valorizzare un borgo antico sconosciuto ai più.

Ma Specchia deve la sua rinascita al progetto Leader del Comune e del GAL “Capo S. Maria di Leuca”: furono ristrutturate una ventina di vecchie abitazioni e offerte in locazione non più come normali appartamenti, ma come esempio italiano di “Albergo Diffuso”, una struttura ricettiva innovativa che ha favorito il contatto diretto tra turisti e abitanti. Le case arredate in stile “arte povera” richiamavano l’atmosfera e il design di un tempo dando “visibilità” all’artigianato locale, nel rispetto dei gusti e delle esigenze del turista moderno, che non si sentiva più un ospite esterno, ma un abitante del borgo, condividendo i ritmi di vita dei residenti, gustando i prodotti eno-gastronomici e partecipando alle manifestazioni locali tramandate di generazione in generazione.

Questo progetto, supportato anche da un’agenzia turistica americana, ha attirato visitatori e contribuito alla rinascita del borgo, valorizzando il suo patrimonio storico e culturale. I flussi turistici sono cresciuti di anno in anno. Il flusso turistico è proseguito in maniera costante e ha prodotto un “effetto volano” notevole. un territorio rurale nuovamente vissuto, scoperto, amato dai suoi abitanti e da tanti viaggiatori provenienti dagli USA, Giappone e Danimarca, dal Centro e dal Nord d’Italia.

Teresa M. Rauzino su L’Edicola per l’Italia 23 marzo 2025

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Microstorie

I dodici paesi del Griko nella Notte della Taranta

Cartoline dall’area del Salento di cultura ellenofona e che fa riferimento a Calimera. Le influenze culturali e linguistiche risalenti alla Magna Grecia e alla dominazione bizantina

La Grecìa Salentina è un’area segnata da influenze risalenti alla Magna Grecia e alla dominazione bizantina. Un suo retaggio è il Griko, è un’antica lingua ellenica parlata oggi da circa ventimila pugliesi. A tutt’oggi, la “grecità” è considerata tratto dominante della cultura salentina. Scoprire il Griko significa esplorare una lingua unica e la sua storia affascinante, e lo si può fare soltanto visitando i luoghi dove è ancora viva. L’isola linguistica è composta oggi da 12 comuni: Calimera (capofila), Carpignano Salentino, Castrignano dei Greci, Corigliano d’Otranto, Cutrofiano, Martano, Martignano, Melpignano, Soleto, Sternatia e Zollino e Sogliano Cavour. La Grecìa Salentina è nota per le sue tradizioni culturali e gastronomiche. Eventi come la Notte della Taranta a Melpignano celebrano la musica tradizionale, attirando visitatori da tutto il mondo. Questa piccola enclave linguistica offre numerosi luoghi da visitare, come palazzi storici e chiese.

Il luogo

Andiamo alla scoperta di Calimera, un borgo di 7.297 abitanti in provincia di Lecce. Il suo nome deriverebbe dal greco Kalimèra, che significa “buon giorno” o, secondo alcuni studiosi, “bella contrada” (kallá meréa). Altre ipotesi puntano, invece, su una derivazione bizantina del toponimo “cal/gal”, che significa “anfratto, luogo riparato”. Il gonfalone è un drappo azzurro su cui campeggia un sole splendente: «D’azzurro, al sole d’oro”. Nella simbologia araldica il sole rappresenta l’immortalità e la regalità.

La storia

Il borgo si trova lungo la Via Traiana Calabra, l’antica strada che collegava Otranto a Lecce e Brindisi. Le sue origini sono incerte. Come per gli altri centri ellenofoni del Salento, il dibattito storiografico lega la sua nascita ad una colonizzazione bizantina o a più antiche radici magno-greche. Oggi attivo centro del terziario, Calimera in passato era nota per la produzione del carbone, attività che proveniva dall’utilizzo del legname del grande bosco. I “craunàri” erano carbonaie venditori ambulanti di carbone e avevano un santo protettore tutto loro: S. Biagio. Oggi è rimasto molto poco del borgo antico, ma Calimera si distingue nell’area ellenofona per l’intensa attività culturale volta al recupero e alla valorizzazione della grikítà. Simbolo tangibile della “ellenicità” di Calimera, la bella stele attica donata dal Municipio di Atene al centro salentino nel 1960. Merita di essere segnalata una vasta produzione letteraria e una ricca produzione musicale che riesce a mantenere vivo un patrimonio collettivo di canti religiosi, di lavoro e di lutto.

Le chiese

La chiesa Matrice di San Brizio, costruita nella centrale piazza del Sole nel 1689 sulle rovine di un tempio più antico, ha un ampio portale barocco, sul quale troneggia la statua in pietra leccese del santo patrono. L’interno, a una navata a croce latina, presenta nove altari con tele di valore, il primo altare dedicato alla Madonna della Misericordia mostra un originale quadro di Madonna gravida, attribuita al Catalano. Alle spalle della chiesa un massiccio campanile a quattro piani.

Dedicata a San Vito è un’antica chiesetta risalente al Cinquecento, ubicata nella campagna a est del cimitero, vicino all’antico Bosco di Calimera. Per la Pasquetta, il Lunedì dell’Angelo, la popolazione di Calimera vi si reca per tradizione e compie ancora oggi il rito del passaggio attraversando un grande masso forato che emerge dal pavimento dell’unica navata della chiesa. È una pietra che richiama un rito propiziatorio di fertilità di origine pagana.

I musei

Il Museo di Storia naturale del Salento, a 2 chilometri dal centro di Calimera, è il museo più grande del Sud Italia. Narra la storia del Pianeta Terra. Per poterlo apprezzare, è necessario visitare tutte le sezioni, da quella di mineralogia a quelle di teratologia, di paleontologia, di astronomia. Oltre che museo, è anche Osservatorio faunistico della provincia di Lecce Centro di recupero della fauna selvatica, accoglie e cura animali esotici abbandonati dai proprietari o trovati in precarie condizioni come fauna selvatica e tartarughe marine. Il museo dispone di uno staff di studiosi altamente qualificati che, oltre a organizzare regolari spedizioni scientifiche per lo studio della fauna, soprattutto in Africa, intrattengono rapporti di collaborazione per la ricerca scientifica con università e organismi nazionali e internazionali (Gabon, Kenia, Uganda in Africa e Costa Rica in Sud America).

Nel centro storico di Calimera, in una caratteristica “casa a corte” che è “contenuto”, oltre che “contenitore”, il punto di incontro con la cultura locale è, dal 2003, la “Casa-museo della civiltà contadina e della cultura grika”, realizzata dal Circolo Arci Ghetonìa (Vicinato, ingriko), che dal 1985 si occupa di ricerca, valorizzazione e promozione del territorio: non solo oggetti di tradizione, ma biblioteca, emeroteca, raccolta di video, cd, consentono di conoscere l’anima di un popolo.

Quale futuro per il Griko?

Il flusso migratorio greco verso il Salento, secondo gli studiosi, si colloca in epoca antica (Magna Grecia) e durante la dominazione bizantina, con l’arrivo durante l’VIII secolo di religiosi greci che vi diffusero la cultura, la lingua greca, celebrando secondo il rito ortodosso. Ai bizantini subentrarono i normanni, gli svevi, gli angioini, gli aragonesi e gli spagnoli. Tempi difficili per il clero greco che restò attivo nelle sole zone di Otranto, Gallipoli, Nardò e Calimera. I monaci cattolici scalzarono gli ortodossi e anche la lingua greca fu pian piano soppiantata dal latino, anche se battesimi e matrimoni furono ancora celebrati con rito greco per tutto il ‘700. Dopo la seconda guerra mondiale, sia a causa dell’ emigrazione, sia per la diffusione dei mezzi radiotelevisivi, il numero dei parlanti è diminuito. Negli ultimi decenni, sono stati avviati vari progetti per preservare e promuovere la cultura e la lingua grika. Con legge dell’8 giugno 1990 n. 142, fu istituito ufficialmente il Consorzio dei comuni della Grecìa Salentina. Dal 2001 è l’Unione dei Comuni della Grecìa Salentina a coordinare iniziative culturali, educative e turistiche per valorizzare questo patrimonio unico, cercando di coinvolgere anche le giovani generazioni nella riscoperta delle proprie radici. Ma la lingua grika, trasmessa solo oralmente di generazione in generazione, potrebbe sopravvivere attraverso una sua metamorfosi: da tradizione orale potrebbe diventare lingua scritta; essere codificata e organizzata nelle sue regole morfologiche e sintattiche e resa disponibile per essere insegnata e appresa.

A provarci fu  Franco Corlianò. Autore di libri, canzoni e poesie, oltre che pittore, è stato uno dei pilastri della cultura grika. La sua canzone “Klama”, conosciuta come “Andramu pai” sul dramma dell’emigrazione, fu resa celebre dalla cantante greca Maria Farandouri. Ma la sua eredità è il Vocabolario di Griko, un’opera di fondamentale importanza per la sopravvivenza della lingua ellenofona.

(Teresa M.Rauzino su L’Edicola per l’Italia 30 marzo 2025)

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Il marchio slow, olio e biomoschettieri del gusto orsarese

CARTOLINE DA ORSARA DI PUGLIA

Il piccolo borgo sui Monti Dauni è un centro di tutela e valorizzazione delle tradizioni non solo gastronomiche. Famoso per “Fucacoste e cocce priatorje” ha anche una lunga storia e luoghi di particolare suggestione.

Lo spopolamento dei borghi, il mancato utilizzo delle risorse forestali, un’agricoltura che non sa più valorizzare le sue storiche produzioni. La crisi delle aree interne sta cambiando la geografia umana dei territori. L’antidoto? Si chiama «restanza» termine coniato dall’antropologo Vito Teti e diventato un bestseller per Einaudi. Il concetto è che al diritto a migrare corrisponde il diritto a restare, costruendo un altro senso dei luoghi e di sé medesimi. È un continuo aggiornamento della tradizione. Per farlo servono però strumenti adeguati.

A provarci è Orsara di Puglia, un borgo di 2.485 abitanti che si erge a 635 sul livello del mare sui monti del Subappennino daunio, in provincia di Foggia. Unico comune in provincia di Foggia con i marchi di “Città Slow”, “Città dell’Olio” e “Città Bio”, Orsara è diventato un bio-distretto dell’agricoltura sostenibile che rispetta i più alti standard qualitativi.

La storia

Orsara ha origini antiche. In epoca romana, fu teatro di operazioni belliche durante la seconda guerra punica; fu poi attraversata dalla via Traiana. Nell’VIII secolo, una comunità di monaci basiliani si stabilì in zona, venerando l’arcangelo Michele in una grotta, sull’esempio di Monte Sant’Angelo da dove il culto del patrono dei Longobardi si era diffuso in tutta Europa. Nel XIII secolo, dal 1228 al 1294, i cavalieri dell’ordine di Calatrava, provenienti dalla Spagna, si insediarono nel territorio.

Denominato Orsara Dauno-Irpina dal 1861 al 1884, fino al 1927 il Comune faceva parte della provincia di Avellino. Gli orsaresi parlano un dialetto influenzato dalle vicende storiche del loro territorio. Il toponimo “Orsara” potrebbe derivare dalla presenza di orsi nella zona o dal nome di un notabile longobardo-bizantino. L’emblema comunale avvalora la prima ipotesi, con uno stemma araldico in cui campeggia, su uno sfondo azzurro, un orso accompagnato dal suo cucciolo “entrambi di nero, ritti e con la zampa sinistra alzata, sostenuti dalla pianura d’oro, il tutto addestrato dalla quercia di verde, fustata al naturale, nodrita nella pianura”.

Il culto di san Michele

Le tradizioni religiose sono fortemente radicate. Sorta lungo la via Francigena, vi è l’abbazia dell’Angelo di Orsara. Sorge sul fianco scosceso di un vallone, e si è sviluppata intorno alla grotta naturale di San Michele, che è accessibile da una chiesa del XII secolo. Ha un soffitto a volta e ospita una statua dell’Arcangelo durante le celebrazioni. Il fianco Nord, con piccole aperture e nicchie naturali, dove sono incise delle croci e dei frammenti di iscrizioni che testimoniano il passaggio di pellegrini e la devozione popolare.

All’interno del complesso abbaziale sono inglobate la chiesa di Santa Maria e la cappella dell’Annunziata: la prima, costruita nel XVI secolo e ricostruita dopo il terremoto del 1930, si distingue per il suo stile gotico e per le vetrate colorate; la seconda, monumento nazionale, dell’antico tempio fondato nel XII secolo da monaci spagnoli lungo la via Francigena: la presenza dei cavalieri di Calatrava dal 1228 sottolinea l’importanza storica e culturale del luogo, che divenne un centro di pellegrinaggio con tradizioni religiose che perdurano ancora oggi.

La chiesa di San Nicola di Bari, già esistente nel 1127 fu completamente barocchizzata a partire dal 1622. Qui nel 1590 fu trasferita la sede parrocchiale, che precedentemente era nell’antica chiesa abbaziale. Seicentesche sono le statue di San Michele, opera del napoletano Giacomo Colombo, e della Madonna della Neve, opera del napoletano Aniello Stallato. Del 1777 è il complesso e ricco altare marmoreo. Prezioso è un calice in argento realizzato da un maestro Nicola Aventino di Sulmona tra il Trecento e il Quattrocento. Vi è poi un bel un crocifisso bifronte in pietra del XV o XVI secolo, di scuola gotico-fiamminga, e un pregevole organo del 1756.

I palazzi

Orsara di Puglia conserva un patrimonio monumentale e artistico di rilievo. Nella zona dell’abbazia e del Palazzo Baronale, in largo San Michele, sorge Palazzo Varo, un bell’ edificio rinascimentale del XVI secolo che conserva l’architrave nobiliare sul portone, la scalinata interna in pietra e le cantine che si aprono sulla piazza. Da circa un secolo di proprietà della diocesi, Palazzo Varo ospita in alcuni locali al primo piano il Museo Diocesano con un’ampia e interessante collezione che spazia dal Neolitico al XX secolo, mixando reperti archeologici che testimoniano la presenza di popolazioni osce-irpine, opere d’arte e oggetti d’uso comune.

L’imponente Palazzo di Torre Guevara, eretto nel 1680 a sette chilometri da Orsara, nella Piana di Giardinetto, era una sontuosa tenuta di caccia, a tre piani con un impianto rettangolare di sessanta metri per venti e con ben 80 stanze. Era una delle dimore reali della corte aragonese e poi borbonica di Napoli.

Alla ricerca dei sapori perduti

La cucina orsarese  riflette la tradizione del Tavoliere, con una forte presenza di pasta fatta in casa come orecchiette, fusilli, cicatelli, “maccarun a curtiell” e “p’zzell”. Le zuppe di legumi, come “lajanell e fasul” (laganelle e fagioli), sono arricchite con peperoncino. La presenza di allevamenti locali favorisce piatti a base di carne, tra cui l’arrosto con patate e una varietà di salumi come salsicce, soppressate e prosciutti.

Le verdure, specialmente le erbe selvatiche, occupano un posto centrale nella gastronomia orsarese. L’asparago verde della Daunia è particolarmente pregiato e in attesa del riconoscimento IGP. Altre erbe spontanee, come i cardi selvatici, il marasciuolo e le cimette di senape selvatica (“lassanell”), sono utilizzate in diverse preparazioni tradizionali.

Un promotore di questa cucina è lo chef Peppe Zullo, noto come “cuoco contadino”, che valorizza le erbe selvatiche e gli ortaggi locali attraverso la filosofia “Dalla terra alla tavola”. Ha creato il “Bosco dei Sapori Perduti” e gestisce un orto di 25.000 metri quadrati, contribuendo alla promozione delle eccellenze gastronomiche di Orsara.  Zullo  coltiva frutti introvabili altrove come la mela limoncina (piccola come un’albicocca, dolce e succosa), oltre alla borragine, salvia dal fiore rosa, timo stellato, menta greca e nespole, spiegando a tutti l’importanza del recupero dei frutti perduti. 

Durante l’estate, Orsara attira visitatori per il suo clima fresco e un ricco carnet di eventi culturali ed enogastronomici, ma è una meta da scoprire tutto l’anno. Ad esempio, il 1º novembre, secondo la tradizione della notte di Ognissanti, le anime del Purgatorio tornano sulla terra e, per accoglierle e consolarle gli orsaresi posizionano nelle strade del borgo le zucche intagliate e illuminate da lumini (cocce priatorje), oltre ad accendere falò di rami secchi di ginestre (fucacoste).

Il dolce tipico, comune a molti paesi del meridione (grano cotto mescolato a chicchi di melograno e noci tritate e condito con vincotto) a Orsara viene chiamato “muscetaglje”, forse dal francese “mouche taille”. Da assaporare…

Teresa Maria Rauzino

su “L’Edicola per l’Italia” 16 marzo 2025

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Microstorie

Sul Promontorio un omaggio alle “Funtanedde”

Cartoline da Ischitella

Ischitella

Dal centro abitato, la vista spazia dalle colline circostanti al lago di Varano, al mare Adriatico fino alle isole Tremiti. In alcune giornate particolarmente limpide si possono scorgere le coste del Molise, dell’Abruzzo e della Dalmazia. Siamo a Ischitella, un borgo di 4139 abitanti nel cuore del Parco Nazionale del Gargano.

Qui il territorio comunale è un inno all’acqua con numerose sorgenti cui è dedicata la nota canzone popolare “A vie de Funtanedde”.

Le Funtanedde

Alla Folicara (a Fulcare), la “faggeta depressa”, uno dei “popolamenti” considerati “relitti” di un’area più ampia occupata durante l’ultima glaciazione.  Particolari condizioni microclimatiche, come le “forre” (dove l’inversione termica mantiene temperature basse e alta umidità),  e la presenza  di venti umidi provenienti dal mare, creano un habitat favorevole a soli 200 metri, rispetto ai 1000 e 1700 metri sul livello del mare della faggete nell’Appennino.

Nelle dune dell’istmo di Varano prospera la macchia mediterranea. E poi sono gli estesi oliveti a dominare il paesaggio.

Le origini

La presenza umana risalirebbe al neolitico superiore (3000 a.C.), riscontrato da materiale litico finemente lavorato e ceramica rinvenuto presso le stazioni di Grotta Pippola, Monte Grande e il canale di Scarcafarina. Alla “Civita” o “Niuzi” troviamo (purtroppo nel più completo abbandono) i resti di necropoli risalenti al V-IV secolo a.C.

La tradizione, non suffragata da fonti certe, tramanda che a Ischitella  nel 970 si era accampato un gruppo di musulmani che  facevano scorrerie sui paesi limitrofi, poi cacciati da mercenari slavi al soldo dell’imperatore Ottone I. Successivamente troviamo il nome di Ischitella citato in una bolla di Papa Stefano IX del 1058, che, accordando la sua protezione  all’Abbazia di Càlena (Peschici), vi includeva come pertinenza la cella ischitellana di San Pietro in Cuppis. In un documento svevo, risalente al 1225, viene attribuito a Ischitella il nome di “Castrum”.

Il borgo si divide oggi in due parti: la medievale “Terra” e l’ottocentesca “Ponte”.

Le porte d’entrata per il centro storico hanno un’origine antica quanto il paese stesso. La Portella si trova nei pressi del Giro Esterno, mentre la Porta Grande è presente nella Via Sotto le Mura. Una terza porta fu demolita nell’ottocento per collegare il centro storico al nuovo abitato.

Nel 1646 Ischitella subì vari crolli durante il disastroso terremoto del Gargano, che qui causò 86 vittime.

Il Palazzo  e il Casino di caccia dei Principi Pinto 

Il palazzo Pinto (oggi Ventrella) sorto sui ruderi dell’antico castello del XII secolo, crollato per il sisma, fu ricostruito dal principe Francesco Emanuele Pinto nel 1714. Danneggiato da un incendio nel 1804,  presenta aggiunte che, in parte, alterano la linea settecentesca. L’interno, in gran parte ristrutturato dalla famiglia Ventrella, conserva grandiosi saloni con i soffitti finemente decorati e arredi d’epoca. Essendo di proprietà privata, purtroppo non è  visitabile. In località Niuzi, il Casino di Caccia vanvitelliano dei principi Pinto è stato trasformato dai Ventrella in una “dimora di charme”.

Palazzo Pinto (oggi Ventrella)
Casino di caccia dei Principi Pinto (oggi Ventrella) in località Niuzi (agro di Ischitella)

Le chiese

L’ex convento di San Francesco nasce come piccola cappella donata al santo (in pellegrinaggio sul Gargano), da Matteo Gentile, feudatario di Ischitella. Dalla visita di san Francesco trae origine la leggenda del “Cipresso” miracolosamente germogliato dal bastone che il santo piantò a terra quando si inginocchiò sul sagrato per pregare.

L’abbazia  di San Pietro in Cuppis, che  risale all’XI secolo, è purtroppo “sgarrupata”. Presenta particolarità architettoniche rare.

La chiesa di Sant’Eustachio,  eretta nel ‘700 dai Pinto come cappella privata,  conserva preziose tele del Settecento napoletano e un raro “Bambinello” donato dal principe Francesco Emanuele Pinto, noto per i grandiosi presepi che allestiva nel suo palazzo napoletano sulla riviera di Chiaia. 

Chiesa di sant’Eustachio, un tempo Chiesa di San Michele

La chiesa della SS.ma Annunziata (nota come  Crocefisso di Varano), costruita sulle rive del lago di Varano nel X secolo e ampliata nel XVI, sorge sul sito della  medioevale Bayranum, spopolata nel 1500 e oggi scomparsa. Cosa resta? Un rudere della cinta muraria, oltre alla Torre piccola  e alla Torre grande (Torre Sanzone),  in località Foce Varano, oggi purtroppo cadenti, che rappresentano le torri costiere più antiche del Gargano. Hanno la struttura architettonica arcaica a base cilindrica e merli a coda di rondine rari nelle Torri pugliesi a base quadrangolare. Costituivano il sistema difensivo durante il vicereame spagnolo nel Regno di Napoli. Furono probabilmente edificate tra il 1269 e il 1270 da Riccardo di Lauro per conto di Carlo I d’Angiò.  Un patrimonio architettonico che meriterebbe di essere restaurato e valorizzato.

A TAVOLA

Specialità gastronomiche e la “Cruedda”

Un aroma intenso aleggia nel  borgo antico di Ischitella durante il periodo pasquale, quando per tradizione si prepara il “Cavicione” (Calzone), secondo un’antica ricetta quaresimale contadina, farcito con cipollotti sponsali, uvetta e acciughe. Il risultato è un ricco sapore agrodolce … Attenzione però a non chiamarlo dolce o pizza, gli Ischitellani tengono a precisare che è il “loro cavicione”.

Le tipicità

Il croccante è un dolce di mandorle tritate e zucchero, mescolati e cotti a fuoco lento fino a ottenere un composto omogeneo, da compattare a forma di cestino, vassoio o piatto, e ornare con i  “fruttini” di pasta di mandorle.

Un simbolo dell’artigianato locale è la “Cruedda“, cesto o cestina di paglia lavorata a mano e decorata con fili colorati. La paglia di grano della varietà Bianchetta, legata insieme da filo di lino e da giunco, è decorata con  ritagli di stoffa colorata, una sorta di stemma dei poveri per identificare le cruedde.  

Il Tempo

Esse  scandivano i ritmi delle giornate come il ritrovo delle lavandaie al ruscello o il trasporto del pane al forno; ciò imponeva che fossero immediatamente riconoscibili dai proprietari. La Cruedda veniva utilizzata per contenere di tutto: pasta fresca fatta a mano, pane, frutta, panni da lavare,  corredo nuziale, paramenti sacri delle chiese. Oggi la Cruedda è stata riportata in auge dall’Associazione omonima ed è un souvenir molto apprezzato dai visitatori.

Cruedde

IL PERSONAGGIO

Pietro Giannone dall’eresia al premio letterario della città

In un ideale percorso del “Gargano segreto”, il luogo della memoria ritrovato è la piccola Ischitella del tempo in cui Pietro Giannone vi nacque, nel 1676, da “buoni e onesti parenti”. Ad Ischitella visse per ben diciotto anni, ma le dedicò soltanto poche righe nella “Vita, scritta da lui medesimo”. Da Napoli, dove si era laureato in Legge e svolgeva attività forense, Giannone segnò la storiografia europea: smascherò il potere religioso, mostrando la sua invasività in quindici lunghi secoli di potere. 

La vicenda

Per questo suo imperdonabile “peccato”, fu imprigionato e lasciato morire nelle fredde carceri sabaude, in un lontano giorno del 1748, dopo aver segnato il ristabilimento, nella Storia, delle “regole del gioco”. La sua “historia” tutta civile, senza strepiti di battaglie, tutta nuova, di documentazione che sostiene una visione laica,  fu espressione dei ceti più avanzati del suo tempo. Il clima culturale della Napoli del 1714-48 espresse una vivacità intellettuale fra le più forti a livello europeo.  Giannone ne fu il capofila. Dalla sua analisi emergerà la tesi giurisdizionalista che farà scoppiare la grande contraddizione della Chiesa/Istituzione, “potere umano non legittimato né da Dio né dagli uomini, e che gestiva i 4/5 del reddito dello Stato”.

Ischitella: Monumento dedicato a Pietro Giannone in piazza de Vera d’Aragona

A Giannone oggi è dedicato il Premio Letterario nazionale di poesia “Città di Ischitella-Pietro Giannone” per una raccolta inedita di liriche nei dialetti d’Italia e lingue minoritarie, giunto alla XXII edizione.  Il concorso, organizzato dal Comune di Ischitella e dall’associazione “Periferie”,  a fine estate attira cultori del dialetto da tutta Italia.

Teresa Maria Rauzino

su “L’Edicola per l’Italia” 9 marzo 2025

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Microstorie

Nel paese degli innamorati dove trionfa la paposcia

In viaggio alla scoperta dei borghi più caratteristici di Puglia e Basilicata. Prima tappa nel promontorio garganico a Vico per scoprire le tipicità di una città che ha radici antiche e un patrimonio, non solo storico e naturalistico, ma anche enogastronomico.

CARTOLINE DA VICO DEL GARGANO

Vico del Gargano è uno dei “borghi più belli d’Italia”. Sito su una collina dell’entroterra del Gargano nord, a pochi chilometri dalla frazione di San Menaio-Calenella, e alle porte della Foresta Umbra (sempre più meta di escursionisti e appassionati di orienteering), gode di una posizione invidiabile all’interno del Parco nazionale del Gargano, di cui è parte integrante. Un paesaggio di faggi e di abeti e, lungo la costa, di macchia mediterranea con la pineta d’Aleppo (Marzini), una delle ultime autoctone nel panorama forestale nazionale.


L’attrazione
Consolidato è il settore turistico, grazie alle bellezze naturali delle spiagge di San Menaio e Calenella, ma Vico resta un paese agricolo. Gli estesi uliveti secolari e gli agrumeti (con le arance “durette” e “bionde” Igp), sono integrati dall’allevamento di bovini, suini, ovini e caprini.
Prodotti che si ritrovano nei piatti tipici: la paposcia, le orecchiette con le noci, l’insalata di arance, il “ruoto” di capretto e patate gratinate, la zuppa di pesce, le minestre con l’olio forte, i pancotti, i rinomati “sospiri” e “il gateau della sposa”, oltre ai dolcetti di pasta di mandorle.


La storia

La presenza dell’uomo è documentata sin dalla più remota antichità sul territorio vichese. Stazioni e siti paleolitici, neolitici, eneolitici sono presenti un po’ dappertutto, ma di maggiore interesse sono la necropoli paleocristiana di Montepucci e la zona archeologica di monte Tabor.
Secondo la tradizione, non suffragata da fonti certe, le origini di Vico risalgono al 970 ad opera dei conquistatori slavi, provenienti dall’Adriatico. Sueripolo, duce degli Schiavoni, che, al servizio di Ottone I, aveva scacciato i pirati Saraceni, fondò il primo nucleo di Peschici e Vico. Ufficialmente si parla di un “Castrum Vici” solo nel 1113, quando i Normanni lo inglobarono nel Ducato di Puglia e Calabria.


Le caratteristiche
Nel corso dei secoli si è strutturato un patrimonio artistico e architettonico con monumenti di sicuro interesse. Passeggiando tra le vie del centro storico ci si imbatte nel Castello Normanno-Svevo-Angioino, edificato dai Normanni nel 1167 e ampliato da Federico II nel 1240. Questi, nel 1234, aveva dato in dote alla terza moglie, Isabella d’Inghilterra, Vico e i paesi garganici compresi nell’Honor Montis Sancti Angeli.
Il Castello subì influenze stilistiche che testimoniano le varie dominazioni. Il nucleo più antico è chiuso agli angoli da torri quadrate. Quella di sud est, con l’originaria merlatura, culmina con un’elegante bifora, descritta da A. Haseloff «un capitello a foglie piatte e grossi bulbi obliqui». Un bastione circolare, la cosiddetta torre maestra, ricorda il periodo aragonese. E gli adattamenti per bocche di fuoco, accanto alle balestriere, ricordano l’assedio e il cannoneggiamento di Vico nel 1529, da parte degli spagnoli.
Oggi il Castello è uno dei simboli del borgo.


Gli altri luoghi
Altre testimonianze della storia di Vico del Gargano sono la cinta muraria con le caratteristiche torri a base circolare del 1292 erette per difesa contro le invasioni. Durante il periodo feudale, Vico fu possesso delle più importanti famiglie napoletane: i Caracciolo e gli Spinelli.
Elegante nella sua semplicità è il Palazzo della Bella, costruito all’inizio del Novecento da Ignazio della Bella. La sagoma della costruzione signorile, articolata da un unico corpo e una magnifica torre ornata da bifore sui lati e da merlature guelfe, introduce a Vico una parentesi
“fiorentina”: il progetto richiama il modello trecentesco di palazzo Vecchio, in stile neo-gotico.


Le chiese
Degne di nota sono le numerose chiese, tra cui la Matrice sotto il titolo della Beatissima Vergine Assunta. A tre navate, la chiesa è provvista di undici altari. Nella descrizione che ne fa l’arcivescovo Orsini nel 1678, erano ricordati l’altare di San Valentino, patrono di Vico già
da sessant’anni, e l’altare del Ss. Crocifisso sotto il patronato di D. Troiano Spinelli, marchese di Vico. Oggi la chiesa custodisce le tele dell’originalissima via Crucis di Alfredo Bortoluzzi, artista della Bauhaus e allievo di Klee e Kandinsky.
Nel centro storico, tappa obbligata è il Vicolo del Bacio. Largo non più di 50 centimetri e lungo poco meno di 30 metri, è luogo di incontro degli innamorati che, soprattutto in occasione della festa di San Valentino, si danno qui appuntamento.

Vico del Gargano, Foggia, Puglia

Tra i luoghi di culto troviamo la chiesa del Purgatorio, un tempo Santa Maria del Suffragio, sede dell’Accademia degli Eccitati Viciensi. Espressione del nuovo pensiero illuminista, contribuì alla formazione di una nuova classe dirigente, più attenta alla qualità della vita. Fra i soci, Giacinto Mascis divenne sindaco di Vico e don Pietro de Finis nel 1792 fece costruire fuori le mura il cimitero di San Pietro, anticipando l’editto napoleonico di Saint Cloud (1804). De Finis già nel 1751 aveva aperto, a sue spese, una scuola per tutti. Suo discepolo fu padre Michelangelo Manicone (che lo ricorderà come il maestro suo di grammatica), naturalista, erudito, ricercatore, ecologista ante litteram e politico progressista.

L’incanto di Zavoli e l’albergo diffuso
La dedica poetica del noto giornalista e il progetto di recupero del centro storico di Gae Aulenti mai realizzato

Sergio Zavoli fu colpito dalla calorosa accoglienza e dall’ incantevole bellezza del borgo antico, tanto che nella sua raccolta di liriche “L’orlo delle cose” (Mondadori, 2004) dedicò dei versi a Vico del Gargano:
«Vico, nido chiaro d’altura,/ ora non hai più mura in cui sbiancare/ per l’arrivo del principe in amore,/ non splende più la calce/ sui fianchi del palazzo cui addossavi le case/ per scaldare gli amanti.// Ora i ragazzi in fila sui muretti di pietra/ l’uno all’altro si danno magre spalle/senza un brivido mai, un volto che si giri.// Vico, di guardia a valli disarmate,/un’aria incuriosita /mossa appena da ventagli di palme/arriva sui balconi dove un tempo/a gronde di geranio si tingeva/il tuo svevo pallore».

L’architetto e urbanista Tano Lisciandra, autore nel 2003 con Gae Aulenti di un progetto di “albergo diffuso” nel centro storico del paese, nel saggio “I muri e l’anima” dava, a riguardo, questi consigli ai Vichesi: «Per sopravvivere senza rinunciare a se stessi e per offrire ai turisti un’esperienza di soggiorno in un borgo antico ancora vivo, gli amministratori hanno pensato di dar vita ad un albergo diffuso: la hall, la reception e i servizi in un grande palazzo nobiliare, ora in disuso; le stanze, in un centinaio di abitazioni, sparse qua e là nel centro storico. Certo, le camere,
oltre che farle, bisogna anche riempirle. Di qui l’urgenza di restaurare gli edifici per le residenze alberghiere e, intorno a loro, tutto il centro storico. Di qui anche la necessità di riconvertire alla nuova mission l’intero paese e il suo territorio. Obiettivo non certo impossibile. Le risorse ambientali sono abbondanti. Le opportunità non mancano. Per valorizzare le une e cogliere le altre occorre però uno sforzo di rinnovamento culturale».
Il progetto non fu attuato.

Teresa Maria Rauzino

su “L’Edicola per l’Italia” 22 febbraio 2025

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Microstorie

CHI SAREBBE OGGI GIOLITTI PER SALVEMINI?

I politici dell’Autonomia Differenziata giudicati dal meridionalismo storico. Una conversazione insolita tra storia e attualità con il meridionalista Michele Eugenio Di Carlo, che sta ristudiando e “interrogando” le più rilevanti figure del meridionalismo storico, da Giustino Fortunato a Gaetano Salvemini, ad Antonio Gramsci…

Un viaggio nella storia per agire nel presente.

Diretta Facebook settimanale culturale “TEMPI” di Futuro Meridiano◽️Passato Presente Futuro

con MICHELE EUGENIO DI CARLO (Meridionalista, autore di saggi storici), LAURA SPOSATO (Redazione Futuro Meridiano). Conduce ASSUNTA PAVONE (Responsabile Comunicazione Futuro Meridiano)

◽️

Michele Eugenio di Carlo su Meridionalismo storico e Autonomia differenziata

📚 DIRETTA

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Microstorie

Salviamo le Torri di Varano – i tesori del Gargano che stanno crollando

Petizione diretta a Giorgia Meloni (Presidente del Consiglio), a Michele Emiliano (Presidente Regione Puglia), Rosa Barone (Assessore Welfare Regione Puglia); Giuseppe Nobiletti (Presidente Amministrazione Provinciale di Foggia); Raffaele Piemontese (Vicepresidente Regione Puglia); Alessandro Nobiletti (Sindaco Comune di Ischitella (FG); Pasquale Pazienza (Presidente Parco del Gargano); Ludovico Vaccaro (Procuratore Capo di Foggia); Arma dei Carabinieri – Nucleo CC Tutela Patrimonio Culturale di Bari; Anita Guarnieri (Soprintendente – Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e paesaggio per Foggia e BAT); Gennaro Sangiuliano (Ministro della Cultura)

La petizione è stata lanciata l’ 11 febbraio 2024 su change.org 

da Alessandro Rota.

Ecco il testo

“La Storia è la memoria di un popolo, e senza una memoria, l’uomo è ridotto al rango di animale inferiore” Malcom X

Esprimiamo la grande preoccupazione per il Patrimonio Storico e Culturale del Comune di Ischitella (FG), rappresentato dalle due Torri medievali di Varano (grande e piccola) che versano in uno stato di totale degrado e abbandono ormai da decenni. I recenti episodi di cedimento della Torre Grande sono l’ennesima manifestazione di tale situazione, e le enormi crepe e buchi presenti nella Torre Piccola presagiscono un imminente crollo.

                                                

Le due Torri di Varano, site nella frazione “Foce Varano”, costituiscono i monumenti più importanti e significativi del territorio del Comune di Ischitella (prov. Foggia). La loro costruzione è risalente al XIII secolo e nei secoli più recenti sono passate in mano ai proprietari dei “feudi” della zona del Lago di Varano. Sono gli esempi più antichi di Torri di epoca medievale presenti sulle coste del Gargano.

                                                  

Esse costituiscono non solo due edifici di rilevanza storica, ma sono un grande patrimonio della memoria, della cultura e delle tradizioni locali.

Arrivando alla storia più recente, fino agli anni 1960/1970 le due Torri vengono utilizzate quotidianamente e mantenute con cura dalla gente del posto, dopodiché lo spopolamento della zona e la conseguente incuria ne determinano il primo abbandono.

                                             

Pur essendo beni di rilevanza storica e culturale, non vi sono stati interventi per la messa in sicurezza fino al 1987, anno in cui la Torre Grande è crollata rovinosamente per metà, fortunatamente senza causare vittime.

                                                 

Dopo la messa in sicurezza della parte rimasta in piedi, da quel momento le due Torri, anziché essere tenute sotto controllo e periodicamente curate, vengono sempre più abbandonate.

Inoltre, negli anni ‘90 l’edificio storico posto di fianco alla Torre Piccola viene demolito per costruire una casa moderna che a tutt’oggi (2024) risulta incompleta e ovviamente disabitata.

A partire dal 2010 le due Torri vengono attenzionate da alcuni abitanti del luogo e da appassionati di storia e cultura locali. I segni del degrado si fanno sempre più evidenti:

– nella Torre Grande la scalinata risulta invasa dalle piante selvatiche e vi sono numerose crepe, oltre a crolli evidenti di porzioni di facciata

– nella Torre Piccola, in corrispondenza di quella che era una finestra, si apre un enorme buco e le evidenti crepe giungono fino alle merlature. Le piante selvatiche invadono il suo interno, già pieno di detriti (pietre e travi).

In entrambe le Torri, la situazione appare gravissima e minaccia crolli importanti che potrebbero creare anche incidenti e vittime in quanto la loro posizione è prospiciente la strada.

La proprietà delle due Torri risulta privata, ma ad oggi i diversi titolari non hanno effettuato la necessaria manutenzione per far sì che tali beni storici vengano preservati, con i risultati di ROVINA che purtroppo ci ritroviamo a constatare. Le Istituzioni locali e nazionali che dovrebbero vigilare su questi beni costituenti il patrimonio storico e culturale italiano, fino a Gennaio 2024 non sono intervenute in maniera efficace.

Negli anni, sono state fatte molte segnalazioni e numerose sono state le iniziative di sensibilizzazione promosse proprio da chi ha a cuore la situazione e che promuove tale iniziativa di sensibilizzazione a interventi che ormai sono divenuti urgenti. Purtroppo, il degrado ha continuato ad avanzare.

                                    

Successivamente al nuovo rovinoso crollo della scalinata della Torre Grande avvenuto il 13 Gennaio 2024 abbiamo mandato una segnalazione direttamente al Segretario Generale del Ministero della Cultura, Dott. Mario Turetta, che ha prontamente risposto inoltrando la segnalazione direttamente alla Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio BAT e Foggia.

Da quel momento, sono intercorsi i primi dialoghi tra la Soprintendenza e il Comune di Ischitella, seguiti da un sopralluogo della Soprintendente BAT e Foggia Anita Guarnieri il 5 Febbraio 2024.

L’obiettivo dei firmatari è rendere noto alla popolazione quanto accaduto fino ad oggi, e di quanto sta accadendo, con la finalità di attivare finalmente le azioni e gli interventi necessari ed estremamente urgenti per salvare le due Torri di Varano.

In conclusione, dopo tali considerazioni e dati di fatto, con tale lettera

                                                                       RICHIEDIAMO

– che il Ministero dei beni culturali attivi direttamente, per i due Beni Culturali in oggetto, le due Torri di Varano, la procedura di Esproprio per pubblica utilità a fini di tutela, fruizione pubblica e ricerca, corrispondendo un’indennità ai proprietari, secondo la normativa vigente:

• D.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, “Testo Unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di pubblica utilità”, in particolare D.L.gs 27.12.2002, n. 302, e successive integrazioni e modificazioni;

• D.L.gs 22.01.04, n. 42, “Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio”, artt. 95-100.

CHIEDIAMO INOLTRE

– che venga URGENTEMENTE analizzata la situazione dagli organi competenti, attuando tutte le azioni possibili finalizzate alla tutela di questi due beni del patrimonio storico-culturale del territorio di Ischitella, condividendo con la cittadinanza un progetto di restauro urgente e valorizzazione.

Il fine di tale richiesta è che le due Torri di Varano possano tornare ad essere due significative attrattive storico-culturali e turistiche del territorio del Gargano, che potranno essere valorizzate, una volta restaurate, attraverso la costituzione di una rete di collaborazione tra Istituzioni e Associazioni locali che potranno gestire, anche tramite la richiesta di appositi fondi, la promozione e le visite nei siti.

LE TORRI DI VARANO NON DEVONO MORIRE: non c’è più tempo, salviamole insieme!

Alessandro Rota

presidente Associazione Culturale Officine Ianós ed ex-bambino che tutte le estati giocava alle due Torri di Varano, immaginando che fossero eterne e indistruttibili come i castelli delle fiabe

Teresa Maria Rauzino

presidente Sezione Gargano Nord della Società Storia Patria per la Puglia

Associazione “il Quadrato Magico”

Potete firmare la petizione “Salviamo le Torri di Varano – i tesori del Gargano che stanno crollando”

su change.org al seguente link: 

https://chng.it/hTY7ZBk8DF

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    Microstorie

    Arthur Miller a Monte Sant’Angelo… alla ricerca delle sue radici ebraiche

    Per il drammaturgo americano, il viaggio a Monte Sant’Angelo diventa un pretesto per riscoprire la sua identità

    Monte Sant’Angelo in un quadro del pittore Luigi Schingo

    Molte suggestioni vengono ispirate dai viaggi, che per il narratore diventano pretesto di scrittura. Nel 1948, nel Mezzogiorno poverissimo di un’Italia appena uscita dalla seconda guerra mondiale, su una piccola Fiat rumorosa, viaggia un newyorkese di origine ebraica: Arthur Miller (1915-2000), uno degli intellettuali più impegnati del Novecento, che balzerà agli onori della cronaca dopo il matrimonio con  Marilyn Monroe.

    Il giovane scrittore è in compagnia dell’amico italo-americano Vincent Longhi e visita Monte Sant’Angelo, un “nido d’aquila turrito” denso di memorie medievali.  Quell’angolo di Puglia lascia un’impronta indelebile nell’animo di Miller, che l’anno dopo pubblicherà il capolavoro che gli valse il Premio Pulitzer: “Morte di un commesso viaggiatore (1949)”.

    Il racconto “garganico” appare nel 1951 sull’autorevole rivista “Harper’s Magazine”. Tradotto in italiano dalla Rizzoli nel 1970, è stato ripubblicato da Davide Grittani nell’antologia “Verso Sud” (ed. Grenzi).

    Monte Sant’Angelo diventa il luogo dove Miller va alla ricerca del tempo perduto, riscopre la propria identità. L’autore ritrova nella luce tersa del Sacro Monte tutta la sua essenza. L’ambiente e le persone destano in lui strane suggestioni, facendogli riconoscere, in alcuni gesti e situazioni, una componente etnica latente: l’ebraismo.

    Miller, che nella finzione del racconto è l’ebreo Bernstein, resta colpito dall’asprezza del paesaggio e del contesto; vorrebbe ritornare a casa. Ma Vinny Appello (Longhi), l’amico d’origini italiane, che prima a Lucera, poi a Monte Sant’Angelo sta ricercando le proprie radici presso una zia e nel santuario di San Michele, gli comunica il desiderio che guida il suo viaggio: “appartenere a una storia”.

    Quando scendono nella cripta del santuario, il pavimento di pietra è bagnato dallo stillicidio della grotta carsica. Lungo le pareti e ai lati dei tortuosi corridoi che si diramano da una sala centrale a volta, vi sono delle tombe antiche, con iscrizioni illeggibili. Il prete ricorda vagamente una nicchia degli Appello, ma non ha idea della sua ubicazione. Appello passa da una cripta all’altra, facendosi luce con una candela. Si curva, sembra un monaco, o un archeologo, scompare poco a poco nella lunga oscurità dei tempi, in cerca del suo nome su una pietra.

    Bernstein (Miller) ne è fortemente turbato. Ricorda i racconti di suo padre sul paese d’origine in Europa, la tinozza dove tutti attingevano l’acqua, lo scemo del villaggio, il barone del luogo. Nessun motivo di orgoglio in tutto questo, niente. E del resto, ora non è un americano a tutti gli effetti?

    Trovano un ristorante, sul precipizio al margine opposto della città; un grande, unico locale con quindici o venti tavoli; sulla parete di fondo una fila di finestre si affaccia sulla piana sottostante. Fa freddo. Il vento imperversa.

    Una ragazza, la figlia del padrone, arriva dalla cucina, e Appello le chiede cosa c’è da mangiare.

    La porta si apre ed entra un uomo. Guardandolo, Bernstein prova un’immediata impressione di familiarità, di cui non sa trovare la ragione. Si chiama Mauro di Benedetto, porta un cappello nero, insolito da quelle parti, dove tutti portano il berretto: «Vendo stoffe, qui, alla gente, e ai negozi, se così si possono chiamare» dice. Il suo sguardo non ha l’innocenza contadina degli uomini del paese. Dopo aver mangiato, beve un’ultima, lunga sorsata di vino, si alza e comincia a rivestirsi. Prende il suo fagotto posato su un tavolo e comincia a disfarlo.

    Bernstein lo osserva leggermente curvo sopra il fagotto. Vede le sue mani occupate a disfare il nodo. Ora l’uomo sta togliendo la carta che avvolge due pezze di stoffa, ne spiana con cura le grinze. La cameriera porta un’enorme pagnotta rotonda di almeno mezzo metro di diametro. Gliela offre, e lui la mette in cima alla pila di scampoli.

    A quel gesto, un’ombra di sorriso increspa le labbra di Bernstein (Miller). Ora l’uomo riavvolge con attenzione il fagotto, lo chiude con un laccio e lo riannoda. Bernstein ride, sollevato, dicendo ad Appello: « È esattamente il modo in cui faceva un fagotto mio padre… e mio nonno. Tutta la nostra storia è far fagotto e andar via. Solo un israelita sa legare un fagotto così!».

    Perché tanta fretta di arrivare a casa? L’uomo scrolla le spalle: «Non so. Per tutta la vita sono tornato a casa per l’ora di cena, il venerdì sera, e mi piace arrivare prima del tramonto. E mio padre il venerdì sera è sempre tornato a casa prima del tramonto».

    «Porta a casa il pane fresco per il Sabbath, che comincia al tramonto del venerdì – dice Bernstein all’amico – E’ un ebreo, ti dico. Domandaglielo, per piacere».

    Alla domanda di Appello, l’uomo scuote la testa, in segno di diniego. Quindi va via, ma Bernstein è felice lo stesso. Si sente finalmente a proprio agio. Ridiscende nella cripta e mentre l’amico continua a cercare la tomba dei monaci medievali suoi avi, egli non si muove, cercando dentro di sé il perché di quello che è accaduto. Vede quell’uomo cortese scendere giù per la montagna, camminare attraverso la piana, per strade segnate da generazioni di uomini, un viandante senza nome che porta a casa una pagnotta ancora calda il venerdì sera… e che si inginocchia in una chiesa la domenica.

    Un’ironia indescrivibile: sotto l’insensato impulso della storia, un ebreo è segretamente sopravvissuto. Pur spogliato della sua coscienza, osserva il Sabbath in un paese cattolico. La sua stessa inconsapevolezza finisce per essere una muta prova di un passato ancora vivo.

    «Un passato anche per me» pensa Bernstein, attonito nel sentire quanta importanza abbia questa cosa per lui. Per lui che non ha mai avuto una religione, e nemmeno una storia.

    Finalmente Appello ritrova la tomba tanto cercata. Anche lui è felice di aver ritrovato l’identità perduta. Quando risalgono su, il paese è deserto. L’aria odora di carbone di legna e di olio d’oliva. Qualche pallida stella è apparsa nel cielo.

    Bernstein (Miller) pensa a Mauro di Benedetto che sta scendendo per la strada sassosa e serpeggiante, affrettandosi per arrivare a casa, prima del calar del sole…

    @Teresa Maria Rauzino

    sul Corriere del mezzogiorno agosto 2008