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Microstorie

La Bauhaus sul Gargano

L’artista italo-tedesco Bortoluzzi scelse Peschici come buen retiro

Passi di danza di Alfredo Bortoluzzi.

 
   Un teorema urbanistico risolto in chiave di scenografia funzionale: quinte di case inverosimili, strette ed alte come torri, oppure a un solo piano, senza tegole, con tetto a cupola rivestito d’intonaco e i margini voltati ad onda per convogliare le piogge entro le cisterne sottostanti alle grondaie. Case scialbate a calce, o dal colore grigio- rosato dei muri antichi. Bianchi e azzurri che richiamano un’isola greca, il villaggio di Oia, a Santorini, nelle elleniche Cicladi. Scoprono improvvisi scorci luminosi aperti tra valli e mare. 

Così si presentò Peschici per la prima volta ad Alfredo Bortoluzzi, in viaggio nel 1953 verso l’isolato selvaggio, mitico Gargano. Secondo il critico Carlo Munari, che andò a trovare Bortoluzzi a Peschici dopo aver curato una sua mostra nel 1967, la luce e i colori “italiani” di Peschici giovarono alla pittura di Bortoluzzi, per le sottili, segrete corrispondences interiori che riuscirono ad evocargli. Per l’artista il Gargano rappresentò l’incontro con la mediterraneità. Fu la Magna Grecia ad affascinarlo, così come aveva affascinato i voyageurs del Grand Tour che provenivano dal Nord Europa. Sbaglierebbe chi credesse Bortoluzzi un semplice “vedutista”: Peschici, i monti, le valli ed il mare sono soltanto pretesti per evocare la Stimmung della solarità. Un tentativo continua Munari – di sfuggire all’incanto opposto, della selva e delle saghe, del culto della Luna, del romantico chiuso e disperato della Kultur. 

Una Kultur che Bortoluzzi non riconosceva più come sua: aveva prodotto il buio della chiusura della Bahuaus, la scuola in cui aveva imparato tutto; aveva causato la distruzione dei suoi quadri, di quelli di Klee e di Kandinsky, reputati arte degenerata “dall’artista fallito Hitler”. 

Una Kultur che aveva prodotto il buio dei pogrom. 

Nato a Karlsruhe nel 1905 da genitori italiani, figlio di artigiani, il padre mosaicista e la madre stilista, Bortoluzzi non intraprese la carriera universitaria come il padre avrebbe desiderato, ma quella artistica. Frequentò dapprima l’Accademia di Karlsruhe e in seguito, a partire dal 1927, il Bauhaus dove sarà allievo di Albers, di Kandinsky, di Schlemmer e soprattutto di Klee, che lascerà un’impronta inconfondibile nella sua opera grafica e pittorica. 

Quando nel 1933 il nazismo trionfante ordinò la chiusura dell’istituto di Dessau, Bortoluzzi non seguì nella diaspora verso l’America gli artisti della sua scuola, né il suo grande maestro Paul Klee in Svizzera: riparò a Parigi. Su suggerimento della madre, mise a frutto l’esperienza teatrale fatta alla Bauhaus, perfezionandosi all’Ecole de danse di madame Egorova. Di lì a poco diventò primo ballerino nel balletto russo di Serge Lifar all’Opéra di Parigi. 

Girò molti teatri d’Europa a fianco di future grandi personalità. Ad Aquisgrana lavorò con Herbert von Karajan, che gli lasciò un ricordo negativo: «Von Karajan, che era all’inizio della carriera, lavorava molto, ma era senza cuore, forse perché il mondo del teatro era a quel tempo pieno di così tanti intrighi. Finì che mandarono via il mio intendente ed io andai via con lui. Erano gli anni della guerra e, se ricordo bene, era il periodo in cui l’Italia tradì la Germania… e ci fecero prigionieri».

Bortoluzzi (in controluce) durante un balletto

Bortoluzzi fu catturato nei pressi di Auschwitz. La testimonianza di Alfredo è drammatica: «Di giorno facevamo trincee e di sera dovevo ballare con i miei ballerini per i soldati tedeschi. Il mio intendente, vedendo che non ne potevo più, mi fece spostare e mi mandarono a stirare le divise in una fabbrica. 

Di lì a poco giunsero i russi nelle vicinanze della città: Fritz Lang (un filosofo e tenore che poi seguì Bortoluzzi a Peschici, ndr ) con documenti falsi, sfruttando il mio doppio nome, si procurò due biglietti per Karlsruhe. C’era tanta neve, la gente fuggiva per le strade… e la mia casa non c’era più. Andai da mio fratello e anche qui sembrava tutto distrutto ma, avvicinandomi vidi un tubo di un camino fumante … Lui era rifugiato di sotto… 

Arrivarono prima i francesi, poi gli americani e così diventai coreografo della VII Armata Americana per i festeggiamenti e i loro show».

Peschici. La vela di una barca dipinta da Bortoluzzi

Queste testimonianze di Alfredo Bortoluzzi emergono da una tesi di laurea discussa presso l’Università di Siena nell’anno accademico 1997-98 da Anna Maria Mazzone, che ha raccolto altresì la documentazione e le “carte” che vanno dal periodo 1905 al 1995 nell’archivio privato donato dall’artista al fratello, il pittore Domenico Mazzone, erede universale di Bortoluzzi.

La tesi della Mazzone è inedita: oltre a contenere fitti carteggi in tedesco tratti dalle corrispondenze di Bortoluzzi con i suoi amici rimasti in Germania, è ricca dei bozzetti e degli studi scenografici che l’artista, mettendo a frutto gli insegnamenti di Schlemmer, realizzò durante il lungo periodo (1933-58) in cui abbandonò pennelli e monotipia per dedicarsi al balletto classico. Questi schizzi e disegni sono stati esposti per la prima volta esposti al pubblico in occasione di una retrospettiva inaugurata il 13 Novembre 2004 alla “Galleria provinciale di arte moderna e contemporanea” di Palazzo Dogana a Foggia. L’importante mostra ha ospitato circa 80 lavori di Bortoluzzi ed una ricca collezione di materiali riguardanti i rapporti con la Bauhaus e la sua attività di ballerino. 

Attualmente la Galleria foggiana ha una saletta che ospita alcuni dipinti di Bortoluzzi.

IL RICORDO DI ALFREDO BORTOLUZZI Adesso sono diventato meridionale «Sono arrivato a Peschici nel 1953 per la prima volta, era in febbraio… Il mio critico d’arte Egon Vietta mi aveva raccontato del Gargano… molto bello, verde e selvaggio e così mi sono messo in viaggio fino a Roma. A una agenzia di viaggi ho chiesto come si arriva nel Gargano. Mi hanno detto: “Si può andare fino a San Severo e là non c’è più un mezzo per andare più avanti; prenditi una bicicletta”. Ma abbiam trovato un trenino e un pullman che ci hanno portato fino a Peschici. Siamo andati subito alla spiaggia, era dopo una pioggia, avevano messo le barche ad asciugare e le vele erano tutte dipinte dagli stessi pescatori con colori molto vivaci, anche una Madonna. Era bellissimo, mi ha impressionato molto. La gente aveva una cultura rustica, erano molto gentili. Quello che mi è piaciuto molto a Peschici erano le cupolette delle case, quasi orientali, mi sembrava che le onde e le cupole avevano lo stesso movimento. E mi sono innamorato di Peschici. Adesso sono diventato proprio meridionale e mi sento a casa, qui…».  .       
Testimonianza raccolta nel documentario La Montagna del sole. Visioni di luce di Maria Maggiano

©2006 Teresa Maria Rauzino. L’articolo è stato pubblicato sul «Corriere del Mezzogiorno-Corriere della sera» del 12 Novembre 2004.

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Gioielli sul petto e sul crine

Tra arte e tradizione popolare i reperti del vasto campionario illustrato in un bel catalogo curato da Anna Maria Tripputi e Rita Mavelli. “Tredici”, “susta”, “pretensosa”,“berlocco”, i magici ori delle intriganti donne del promontorio del Gargano.

Mattinata. Pasqua Maria Eugenia Sansone con gli ori di famiglia anni 50 (Fototeca Tancredi).

Ori del Gargano, catalogo di grande impatto visivo curato da Anna Maria Tripputi e Rita Mavelli, pubblicato dall’editore Claudio Grenzi di Foggia, ci restituisce un aspetto inedito della cultura pugliese: l’oreficeria popolare. Un’arte ritenuta minore. L’artifex in genere non è mai stato elevato al rango di artista, gli è sempre stata negata la dignità di creatore.

A torto, come dimostrano i gioielli del Gargano, che emergono come opere artistiche di rara bellezza, restituendoci le atmosfere del Novecento.

Eppure fin dall’inizio del secolo scorso, l’attenzione degli studiosi di tradizioni popolari intorno a questi reperti era stata molto forte. Nel 1911 la “Mostra di Etnografia italiana”, tenutasi a Roma nel 1911 per celebrare il Cinquantenario dell’Unità d’Italia, offrì una stupenda rassegna dell’artigianato orafo di tutte le regioni italiane. L’intento era quello di “rincuorare e diffondere” un’industria ignorata e sopraffatta dalla “capricciosa imitazione di modelli forestieri”. I materiali relativi alla Puglia provenivano da Monte Sant’Angelo ed erano significativi della fiorente attività delle botteghe orafe del Promontorio del Gargano. Furono raccolti e presentati da Giovanni Tancredi.

Filippo Maria Pugliese ricordò così una visita alla ricca collezione dell’etnografo di Monte: «Giovanni (Tancredi) mi mette in mostra la sua preziosissima bacheca degli ornamenti paesani in oro… Sbarro gli occhi; ammiro; contemplo… Ecco gli orecchini: a navetta; alla pompeiana; a pendagli; a fiocchi, a campana, alla francese; a pallucce… e poi, le suste (collane): a fiori; con la crocetta; a rococò; col pendaglio; col ritrattino in cammeo, poiché la susta, affidata ad ampio nastro vellutato, nero, rosso o blu, è il segno della donna maritata, e, per lo più di agiate condizioni sociali. Ecco le collane d’oro: quella con la crocetta latina; quella col San Michele; quella alla pompeiana; con le palline, con rombetti piccoli, e detta “a specchi”; con grane e bottoni a barilotti; col coretto; quella, girante per due o tre volte intorno al collo, e reggente il “berlocco” che poteva essere anche ridotto nel mezzo dell’ampio petto matronale».

La raccolta degli ori del Gargano proseguì negli anni successivi, sempre a cura di Tancredi, che li fornì anche ad Ester Lojodice, nel 1930, per allestire, nel nascente “Museo di tradizioni popolari di Capitanata”, una sezione con un vasto repertorio di materiali orafi tipici dello Sperone d’Italia.

Il catalogo di Claudio Grenzi parte proprio dai reperti raccolti da Tancredi (Museo etnografico di Monte Sant’Angelo) e dalla Lojodice (Museo Civico di Foggia), che diventano tasselli significativi di una ricognizione che tocca i centri orafi di tutta la Capitanata (da San Marco in Lamis a Lucera, da San Severo a San Nicandro, da Mattinata fino a Vico del Gargano).

Una ricerca minuziosa e problematica per le curatrici della ricerca perché le testimonianze superstiti sono difficilmente rilevabili, a meno che non confluiscano nel “tesoro”di una chiesa, di un santuario oppure in un museo diocesano.

Le collezioni private sono infatti gelosamente custodite negli scrigni di famiglia, si trasmettono di generazione in generazione, rigorosamente per linea femminile.

Gli ori non si vendono e non si scambiano, se non in casi del tutto eccezionali. Gli elenchi dei pegni depositati, ad esempio, al Banco del Monte di Foggia, registrano il deposito di ori da parte di famiglie passate da condizioni floride allo stato di povertà.

Le due ricercatrici, nel loro lavoro di reperimento degli ori, hanno dovuto adottare approcci mediati e non invasivi per rendere possibile la comunicazione con i possessori o i portatori di questa preziosa cultura materiale. I superstiti maestri orafi, depositari di questa antica tradizione artistica, una volta convintisi dell’importanza dello studio, si sono rivelati fonti essenziali per la ricerca.

Le notizie emerse dal loro narrato, il riscontro con le fonti d’archivio e con la bibliografia tematica hanno permesso alla Tripputi e alla Mavelli di tracciare una mappa dell’attività orafa del territorio, il loro simbolismo, la storia della trasmissione e la tipologia dei gioielli prevalenti, di ricostruire i significati d’uso.

Pacchiane bardate sui muli in occasione della visita a Montesantangelo di Costanzo Ciano nel 1931 (Fototeca Tancredi).

Emerge un dato significativo: il Gargano non è affatto un’isola culturale chiusa e inaccessibile, ma estremamente aperta a tutti gli influssi esterni. Le vie dei pellegrinaggi, della transumanza e il contatto giornaliero con le sponde balcaniche spiegano la circolazione di modelli orafi provenienti dalla Campania, dall’Abruzzo e addirittura dalla costa dalmata.

Certamente ci sono delle varianti rispetto ai modelli base, come si evince dalla terminologia linguistica utilizzata dai garganici per denominare i vari gioielli. «Le tipologie di collane, di orecchini e di pendenti – sottolinea Anna Maria Tripputi – hanno una straordinaria pregnanza linguistica, oserei dire onomatopeica».

Lo storico Michele Vocino mise in evidenza la quasi naturale predisposizione delle donne del Gargano all’esibizione dei gioielli: «La mania degli ori e dei monili è più di tutto accentuata a San Giovanni e a Monte sant’Angelo, dove sono in uso grandi spilloni artistici per i capelli e orecchini esageratamente grossi e pesanti da sembrare perfino impossibile che possano essere sostenuti da piccole orecchie».

Ori da esibire, dunque, ma – ci avverte Anna Maria Tripputi – anche da indossare in particolari momenti di passaggio della vita: il battesimo, la cresima, il fidanzamento, il matrimonio, la morte.

Il gioiello, in realtà, è un indicatore, un segno particolarmente efficace dell’orizzonte mitico-culturale di un territorio e soprattutto del popolo che lo abita. Connota le testimonianze di cultura materiale con la sua unicità.

ANNA MARIA TRIPPUTI, RITA MAVELLI, Ori del Gargano, Claudio Grenzi Editore, Foggia.

©2007 Teresa Maria Rauzino. Le immagini di questa pagina (Fototeca Tancredi) sono tratte dal catalogo di Claudio Grenzi.

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Sulle rotte dei pirati

Kair ad-Din, detto il Barbarossa (1475–1546)

Khair ad-din, il mitico corsaro del Saladino, assaltò l’abbazia di Kàlena

«Is Morus! Is Morus! Li turchi Li turchi».

Così gridavano i torrieri del mar Tirreno e dell’Adriatico quando avvistavano le navi dei pirati all’orizzonte. E gli abitanti dei paesi costieri fuggivano verso l’interno, cercando di salvare il salvabile… Niente di nuovo sotto il sole. La pirateria era praticata sin dall’antichità dai «popoli del mare»: i Cretesi, i Fenici, i Greci e gli Etruschi, forti della loro talassocrazia, attaccavano le navi nemiche per impossessarsi di merci e uomini. I Romani, non riuscendo a debellare il fenomeno, avevano varato un’apposita legge, la “Lex Gabinia de piratis persequendis” (67 a.C.), che diede a Pompeo i pieni poteri. Ci fu una tregua, ma a partire da VII sec. d.C. il Mediterraneo tornò ad essere “infestato” dai pirati, questa volta musulmani: la “Gihàd” islamica (lotta contro gli infedeli) si tradusse in attacchi alle navi cristiane, costrette a ridurre i traffici nel Mediterraneo. Il Gargano e le Tremiti furono più volte oggetto di questo assalto. L’abbazia di Santa Maria di Kàlena fu assalita da Khair ad- din. Raccontiamo qui brevemente la storia di questo mitico corsaro del Saladino.

Dopo il 1492 le isole e le coste del Mediterraneo divennero il rifugio di centinaia di migliaia di mori, cacciati dopo l’unificazione della Spagna da Ferdinando il Cattolico e Isabella di Castiglia. La politica spietata dei “re cattolicissimi” contro i moriscos contribuì alla fondazione di veri e propri stati barbareschi, che trovarono nei pirati e corsari dei leader spregiudicati e intelligenti, strenui oppositori degli spagnoli.

Essi si spinsero nel Mediterraneo, effettuando sbarchi e saccheggi lungo le sue coste. I nomi dei pirati che terrorizzavano le popolazioni del Gargano sono ancora vivi nell’immaginario collettivo dei paesi di mare. Fra i più noti vi fu Kair ad-Din (1475–1546), detto il Barbarossa [1].

Non mancano suggestioni e leggende legate a questo famoso corsaro, riferibili a un luogo-simbolo dell’immaginario collettivo di Peschici. Dall’abbazia benedettina di Santa Maria di Kàlena, un camminamento sotterraneo portava alla “caletta” del Jalillo: serviva ai frati per sfuggire alle frequenti scorribande saracene. Si racconta di un antico tesoro di Kair ad-Din: un vitello d’oro posto come cuscino a una fanciulla morta e seppellita nella cripta nell’abbazia di Peschici (probabilmente la giovane moglie del corsaro). Denominato il Barbarossa [2], questi fu al servizio del sultano Solimano (1520-1566), che gli affidò il comando supremo della flotta ottomana.

L’abbazia di Santa Maria di Kàlena, nelle campagne di Peschici (FG) in un suggestivo scatto del pittore Romano Conversano

Khair-ad-din e i suoi fratelli Arug e Isac ereditarono lo spirito combattivo e l’amore per il mare dal padre Giacobbe (un giannizzero musulmano che dopo aver partecipato alla spedizione per la conquista dell’isola di Lesbo, stabilita qui la sua residenza, si era trasformato in un marinaio dedito al commercio nell’arcipelago greco); la madre, figlia di un prete copto, inculcò loro una forte religiosità, che si tradusse nello stimolo alla guerra santa (gihad). Al comando di una galea, i fratelli Barbarossa esercitarono il commercio e la pirateria al largo di Rodi. In seguito ad un attacco dei Cavalieri di Malta (irriducibili nemici dei musulmani), Isaac morì; Arug e gli uomini dell’equipaggio furono catturati. Incatenati ai banchi di voga delle galee, per un paio d’anni, remarono a suon di scudisciate come tutti i “galeotti” di quel tempo.

Arug, liberato dopo il pagamento di un riscatto, si diede alla pirateria con i fratelli, concludendo un accordo con il sultano di Tunisi: in cambio di un decimo del bottino, trovò un sicuro rifugio in quel porto. Il commercio cristiano subì perdite considerevoli.

I fratelli Barbarossa spadroneggiavano sul tratto di costa da Tripoli a Tangeri. Arug si proclamò re di Algeri. Quando questi fu sconfitto e ucciso con tutti i suoi uomini, fu un momento di tragedia e di lutto per la sua famiglia. Khair ad-din dopo averlo atteso invano ad Algeri, assunse il comando della flotta. Selim I, sultano di Costantinopoli ricevette la notizia della morte di Arug da una galea inviata da Khair ad-din alla “Sublime Porta”, che gli donò le province del nord Africa da lui conquistate. Il Barbarossa sapeva che il sultano era impegnato nella conquista della Siria e dell’Egitto, e non poteva occuparsi di questi territori. Selim, infatti, lo ringraziò e lo nominò suo “Beylebey” vale a dire governatore. Khair ad-din ottenne così la protezione della potenza ottomana, e, di fatto, il riconoscimento del governo personale su queste terre. 

Carlo V di Spagna corse ai ripari: nel 1519 incaricò l’ammiraglio Ugo de Moncada di procedere alla riconquista d’Algeri, ma la sua flotta fu distrutta da una violenta tempesta. Khair ad-din consolidò il suo potere conquistando, tra gli anni 1520 al 1529, tutta la costa africana. Organizzò una flotta potente, che operò nel Mediterraneo con azioni mirate, seguendo un piano generale, e attaccando le navi cristiane dalle Baleari alla Sicilia, dalla Sardegna al Lazio e alle coste spagnole. Con lui vi erano i migliori marinai musulmani: Draguth; Sinam (“l’ebreo di Smirne”); Aydin (cristiano rinnegato detto il “terrore del diavolo”) e molti altri. Tutte le navi che incapparono nella potente flotta dei luogotenenti di Khair ad-din furono saccheggiate e gli uomini dell’equipaggio schiavizzati.

Nel 1533 Solimano invitò a corte Khair ad-din, affidandogli un incarico importante: la ricostruzione e l’organizzazione della flotta ottomana. Il Barbarossa si gettò con entusiasmo in questa nuova impresa. Gli arsenali della Sublime Porta lavorarono a ritmo serrato per tutto l’inverno del 1534: in primavera più di 80 navi furono pronte agli ordini del nuovo ammiraglio. Quando Khair ad-din lasciò il “Corno d’Oro”, accompagnato dall’ammirazione dei figli di Maometto, il terrore corse lungo le isole cristiane dell’Egeo, e si propagò man mano sui lidi più lontani dove, dalle torri di guardia, vedette timorose scrutavano il mare. Le acque azzurre dello Ionio furono rotte dalla voga ritmata dei turchi, il Barbarossa si diresse a nord, mise a sacco le coste italiane, attaccò Sperlonga. A Fondi (in provincia di Latina) cercò di rapire Giulia Gonzaga, augusta preda destinata a Solimano, che riuscì a fuggire nella notte.

La Tunisia in mano del Barbarossa era una minaccia talmente grave per i possedimenti spagnoli di Sicilia e dell’Italia meridionale che Carlo V ordinò un attacco decisivo. Una spedizione al comando di Andrea Doria investì La Goletta : il 14 giugno del 1535, navi spagnole, del papa, del vicerè di Napoli e dei cavalieri di San Giovanni, sbarcarono uomini e cannoni. Una sommossa interna di schiavi cristiani accelerò la caduta di Tunisi. In Europa un sospiro di sollievo salutò questa vittoria cristiana. A Bona, dove si era ritirato, il Barbarossa armò prontamente 26 galeotte e prese il mare, arrivò alle Baleari. Il saccheggio fu spietato, uomini e donne trasportati ad Algeri, furono rivenduti come schiavi.

Il Doria e il Barbarossa non si scontrarono mai direttamente: ora è Andrea Doria che cattura navi turche nello Jonio, ora è il Barbarossa che infierisce sulle coste pugliesi.

Nel 1537 i turchi cinsero d’assedio Corfù con un grande spiegamento di forze, 100 galee e 25.000 uomini, i cristiani resistettero. Nel 1538 una nutrita flotta di navi venete, genovesi, spagnole e pontificie si concentrò nei pressi dell’isola, e attese Andrea Doria con i suoi 50 galeoni. Khair ad-din aveva già schierato le proprie navi, 150 galee nel golfo di Arta, su una linea a mezzaluna che consentiva di concentrare il fuoco di tutti i cannoni sullo stretto canale d’ingresso. Gli avversari studiarono le rispettive mosse: Andrea Doria si diresse verso sud con l’intenzione di attaccare i possedimenti del sultano, Kair ad-Din salpò e inseguì la flotta cristiana, che per il cattivo tempo si disperse lungo le coste.

Solo a Lepanto ci sarà la riscossa cristiana. Il 19 ottobre del 1540, 200 galeoni, 50 galee, 25.000 uomini al comando di Andrea Doria circondarono la città. Barbarossa era assente: il suo vice Hasan assunse la difesa, le navi spagnole furono disperse da un’improvvisa tempesta. Carlo V non aveva seguito i consigli di chi riteneva la stagione inadatta alla spedizione, e si ripetè il disastro della spedizione di Moncada: il vento di burrasca distrusse 140 navi. Gli equipaggi spagnoli furono decimati dai turchi. I Cavalieri di Malta furono gli ultimi a lasciare il campo, coprendo la ritirata. Ancora oggi quel luogo è chiamato “sepolcro dei cavalieri”.

Un fatto nuovo portò la costernazione nel mondo cristiano, Kair ad-Din si alleò, per conto del Sultano, con la cattolicissima Francia di Francesco I: nel 1543, 100 galee turche aiutarono i francesi contro Carlo V.

Mentre navigava alla volta di Marsiglia, Khair ad-din assalì Reggio Calabria dove rapì un’avvenente fanciulla diciottenne, Dona Maria, figlia di un governatore spagnolo, e la sposò. Assalì poi Gaeta e Nizza. Nella primavera del 1544 saccheggiò le isole d’Elba, di Ischia e Procida, e impose dei tributi alle isole Lipari. Il suo rientro a Costantinopoli fu un vero trionfo: venne acclamato “re del mare”. Per merito suo, la potenza ottomana si impose su tutto il Mediterraneo. Nel luglio del 1546, una violenta febbre lo uccise, all’età di 63 anni. Ancora oggi i Turchi ne ricordano le gesta. Nelle vicinanze di Galata, ad Istanbul, una maestosa cupola ricopre la tomba del protettore dell’Islam: il suo spirito indomito aleggia ancora sul Mediterraneo.


1 Cfr. M. VERONESI, Storia della pirateria. in http://cronologia.leonardo.it/storia/biografie/pirati3.htm; BONAFFINI GIUSEPPE (a cura di), La vita e la storia di Ariadeno Barbarossa, Sellerio Editore, Palermo, 1993.

www.corsaridelmediterraneo.it

©2007 Teresa Maria Rauzino. L’articolo è stato pubblicato sul quotidiano “L’Attacco” del 7 luglio 2007.