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Microstorie

Craco, quel borgo fantasma abitato di storie e personaggi

Cartoline dalle province

Craco (Cràchë in dialetto locale) è un comune di 587 abitanti della provincia di Matera in Basilicata. Fondato intorno al 540 d.C. da coloni greci, ha vissuto secoli di prosperità, diventando un importante centro strategico militare durante il regno di Federico II.  Il torrione domina la valle dei due fiumi che scorrono paralleli, il Cavone e l’Agri, via privilegiata per chi tentava di penetrare l’interno.

Craco ha subito una serie di disastri naturali: frane, alluvioni e terremoti hanno portato all’evacuazione completa della popolazione nel 1980. L’esodo forzato iniziò negli anni Sessanta, quando il borgo contava quasi 2000 abitanti. Parte degli abitanti si spostò a valle, in località “Craco Peschiera”, ove fu trasferita la sede comunale.

il borgo, paradossalmente, è diventato più famoso come paese fantasma di quando era abitato. L’abbandono improvviso ha preservato il borgo, che oggi si presenta quasi intatto nella sua suggestiva bellezza con le  strade deserte, gli edifici in rovina e il paesaggio circostante dominato dai calanchi lucani.  Qui sembra che il tempo si sia fermato in un’atmosfera surreale, dove il silenzio è rotto solo dal volo e dal garrire degli uccelli.

Rappresenta una testimonianza affascinante della storia e della resilienza delle comunità italiane, offrendo ai visitatori un’esperienza unica tra le sue rovine cariche di mistero e bellezza.

E’ talmente particolare da essere stato inserito nel 2010 dalla World Monuments Fund nella lista dei monumenti mondiali da salvaguardare. WMF è un’organizzazione non profit con sede a New York, fondata nel 1965.

Grazie a donazioni e a raccolte di fondi, WMF coopera con i governi e le comunità locali per salvaguardare e conservare manufatti architettonici storici e siti di rilevanza storico-culturale in tutto il mondo, attraverso il lavoro sul campo, la promozione, la concessione di borse di studio e fondi per l’educazione e l’addestramento di esperti in loco.

A partire dal 2011, è possibile visitare Craco attraverso percorsi guidati istituiti dal Comune, permettendo ai visitatori di esplorare in sicurezza gli angoli più suggestivi del borgo.

Per chi desidera visitare Craco, è consigliabile informarsi sulle modalità di accesso e sulle visite guidate disponibili, in quanto l’area è soggetta a restrizioni per preservarne l’integrità, oltre che per motivi di sicurezza. 

La storia

Craco ha origini antiche, con tracce risalenti all’VIII secolo a.C.. Fu probabile rifugio di coloni greci di Metaponto, che si trasferirono in territorio collinare per sfuggire alla malaria che imperversava nella pianura.

Successivamente fu un insediamento bizantino, dove nel X secolo i monaci basiliani favorirono lo sviluppo agricolo.

La prima citazione del nome risale al 1060, quando il territorio fu sottoposto all’autorità dell’arcivescovo Arnaldo di Tricarico, che lo chiamò «Graculum», ovvero “piccolo campo arato”.

 Nel Medioevo, sotto i Normanni, divenne un centro militare strategico, con una struttura urbana che si espanse attorno a un torrione. Nel 1276 Craco divenne sede di una universitas. Nel XV secolo,  si espanse intorno a quattro palazzi:

Palazzo Maronna, vicino al torrione, con ingresso monumentale in mattoni e con grande balcone terrazzato.

Palazzo Grossi, vicino alla chiesa madre, con un alto portale architravato, i piani superiori con volte a vela e decorati con motivi floreali o paesaggistici racchiusi in medaglioni, finestre e  balconi con ringhiere in ferro battuto.

Palazzo Carbone, costruito a fine Quattrocento, fu rinnovato e ampliato nel Settecento.

Infine il Palazzo Simonetti.

Craco fu feudo di diverse famiglie nobiliari, tra cui i Sanseverino e i Vergara.

La resistenza ai Sanfedisti e al brigantaggio

Nel 1799, Craco partecipò attivamente ai moti della Repubblica Partenopea, movimento rivoluzionario di ispirazione giacobina, represso nel sangue dalle forze sanfediste guidate dal cardinale Ruffo. Questo primo episodio di ribellione segnò l’inizio di una lunga e travagliata storia di resistenza e coinvolgimento nei grandi conflitti politici e sociali che attraversarono il Mezzogiorno.

Dopo l’Unità d’Italia, Craco – come molti altri centri lucani – fu coinvolto nel fenomeno del brigantaggio, una guerra civile alimentata dalla delusione verso il nuovo Stato unitario e dal desiderio di restaurazione borbonica. L’8 novembre 1861, la banda di Carmine Crocco e del catalano José Borjès, dopo aver occupato e saccheggiato Salandra, si diresse verso Craco.

Secondo il racconto di Crocco, il loro ingresso nel paese fu accolto pacificamente: «A mezza via una processione di donne e fanciulli con a capo il curato Colla Croce […] venivano a chiedere clemenza per il loro paese e clemenza fu accordata».

Tuttavia, la versione di Borjès, riportata nel suo diario, suggerisce un quadro più complesso: «La popolazione intiera ci è venuta incontro; e malgrado di ciò, avvennero non pochi disordini». Queste discrepanze rivelano l’ambiguità delle testimonianze coeve e la difficoltà di ricostruire con esattezza le dinamiche di quegli eventi.

A confermare il clima di instabilità è anche il racconto del militare del Regio Esercito Giuseppe Bourelly, che, dopo la partenza della banda per Aliano, trovò Craco «saccheggiato e nel massimo disordine». Questi episodi testimoniano non solo il passaggio violento delle bande, ma anche la vulnerabilità delle comunità locali, spesso strette tra repressione statale e occupazione brigantesca.

In questo contesto si distinse Giuseppe Padovano, detto Cappuccino. Ex soldato borbonico, si diede alla macchia dopo l’Unità e divenne uno dei briganti più noti della zona tra Craco e Pisticci. Il suo soprannome derivava dalla frequentazione giovanile del monastero di Craco, dove aveva ricevuto una buona istruzione. In un ambiente dominato dall’analfabetismo, la sua cultura lo rese una figura carismatica. Non fu solo un predone, ma un simbolo di resistenza armata, la cui vicenda personale incarnò le contraddizioni dell’Italia postunitaria.

Set amato da registi di fama

Craco è un borgo fantasma, spettrale, noto per essere stato scelto  come location per importanti set cinematografici. Diversi registi non hanno resistito al fascino di questa terra e l’hanno immortalata nei loro film: ad esempio ne “La passione di Cristo” (2004), Craco fu scelta da Mel Gibson come sfondo per la scena dell’impiccagione di Giuda. In “Cristo si è fermato a Eboli” (1979) Francesco Rosi vi ambienta l’arrivo di Carlo Levi al primo confino di Gagliano. 

Altri film in cui appare Craco sono:“La lupa” (1953) di Alberto Lattuada; “Il tempo dell’inizio” (1974) di Luigi Di Gianni; “King David” (1985) di Bruce Beresford; “Oddio, ci siamo persi il papa” (1986) di Robert M. Young; “Il sole anche di notte” (1990) di Paolo e Vittorio Taviani; “Ninfa plebea” (1996) di Lina Wertmuller; “Terra bruciata” (1999) di Fabio Segatori; “Nativity” (2006) di Catherine Hardwicke; “The Big Question” (2004), diretto da Francesco Cabras e Alberto Molinari; “Agente 007 – Quantum of Solace” (2008), regia di Marc Forster, con Daniel Craig e Giancarlo Giannini; “Un medico di campagna” (2012)di Luigi Di Gianni; “Ci vediamo domani” (2013) di Andrea Zaccariello; “Montedoro” (2015) di Antonello Faretta e “France” (2021) di Bruno Dumont.

Rocco Papaleo, lucano, protagonista oltre che regista del film “Basilicata coast to coast”, (2010), ha affermato che Craco “non ha retto la modernità, anche se a noi piace pensare che l’ha rifiutata”.

Il sogno ispirato al film cult di Papaleo è diventato realtà: un itinerario escursionistico attrezzato lungo 167 km. Otto giorni a piedi (o in bici) attraversando 13 borghi, da Maratea a Nova Siri. Un viaggio lento, autentico, tutto lucano. Tra natura, sapori e cultura.

Teresa Maria Rauzino

su L’Edicola 11 maggio 2025

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Microstorie

Aliano: dove la letteratura incontra l’anima del paesaggio

Aliano è un piccolo borgo di 838 abitanti in provincia di Matera in Basilicata.

Costruito su un colle argilloso a 555 metri di altezza, domina la Val d’Agri e del torrente Sauro. Nel suo territorio sono presenti numerosi calanchi, spettacolari pendii creati dall’erosione di rocce argillose, con scarsa copertura vegetale.

Dal 2018 ricandidato ogni anno a “Capitale italiana della Cultura”, è un vero scrigno di storia, arte e natura: da oltre vent’anni rappresenta un esempio di recupero ambientale e di sviluppo responsabile e sostenibile del territorio.

Aliano è noto per essere stato il luogo di confino dello scrittore Carlo Levi, che proprio qui ambientò “Cristo si è fermato a Eboli”. Le sue strade raccontano ancora oggi una storia di resistenza, cultura e identità. Aliano riesce a trasmettere il fascino profondo di un luogo dove la storia e la letteratura si intrecciano con la vita quotidiana e la cultura contemporanea. Un dialogo costante tra memoria e futuro: dai segni lasciati da Levi, al fermento del Festival “La Luna e i Calanchi”, ideato dal poeta Franco Arminio, che trasforma il borgo in un laboratorio a cielo aperto di paesologia, arte e incontro umano. Un luogo che non è solo fisico, ma anche simbolico. Tra i vicoli, i murales, le testimonianze degli abitanti e il paesaggio quasi lunare, ogni visitatore scopre un luogo che non si dimentica: autentico, poetico, potente.

La storia

Il nome Aliano deriva dal latino Praedium Allianum, cioè podere di Allius, un patrizio romano. Sin dall’antichità, il suo territorio fu centro importante di scambi tra la civiltà greca, etrusca ed enotria, come testimonia la scoperta di una necropoli risalente ad un periodo tra il VIII ed il VII secolo a.C., contenente più di mille tombe e numerosi reperti, ora custoditi nel Museo della Siritide di Policoro.

Nell’VIII secolo le diverse grotte scavate nelle rocce sedimentarie di origine alluvionale ubicate nella zona di fosso San Lorenzo, già abitate in età preistorica, ospitarono numerosi monaci basiliani sfuggiti alle persecuzioni iconoclaste in Oriente.

I primi documenti in cui viene ufficialmente citato Aliano sono datati al 1060, anno in cui risale una bolla papale che attribuiva al vescovo di Tricarico l’amministrazione del borgo.

Aliano fu feudo di diverse famiglie, tra cui i Sanseverino, i Carafa ed i Colonna.

Luoghi d’interesse

I monumenti religiosi, i musei e le tracce del passato medievale e greco-italico di Aliano sono ben documentati, con riferimenti puntuali e stimolanti. 

Tra i luoghi d’interesse vi è la Chiesa di San Luigi Gonzaga, edificata nel XVII secolo. A navata unica, ospita delle tele coeve di ispirazione caravaggesca attribuite a Teresa del Po, Carlo Sellitto e Antonio Sarnelli (della scuola di Luca Giordano di Napoli).  Il presbiterio presenta un altare barocco e una statua lignea della Madonna Immacolata del XVIII secolo. Nella chiesa si trova anche una Croce Astile processionale del 1573, e una statua lignea di Madonna col Bambino del XV secolo, proveniente dalla chiesa di San Giacomo. 

Da visitare la chiesa di San Giacomo Maggiore in via Stella, il Santuario della Madonna della Stella in posizione panoramica, il Museo della Civiltà Contadina, con affreschi e oggetti rurali. Sosta obbligata al Museo storico Carlo Levi, che documenta il periodo di confino dell’artista e scrittore, includendo anche la casa dove visse.

Infine merita una visita il bel presepe artistico di Franco Artese, esposto a Roma ad Assisi e in tantissime parti del mondo, oggi in pianta stabile ad Aliano.

Luogo del cuore di Carlo Levi 

«Da qui tutto è lontano, ma tutto si raggiunge con un abbraccio, una stretta di mano. (…)

Spalancai una porta-finestra, mi affacciai a un balcone, dalla pericolante ringhiera settecentesca di ferro e, venendo dall’ombra dell’interno, rimasi quasi accecato dall’improvviso biancore abbagliante. Uscivo spesso nelle belle giornate, a dipingere: ma lavoravo soprattutto in casa, nello studio o sulla terrazza dove il cielo era immenso, pieno di nubi mutevoli: mi pareva di essere sul tetto del mondo, o sulla tolda di una nave, ancorata su un mare pietrificato». Così Carlo Levi descrive Aliano nel romanzo “Cristo si è fermato ad Eboli” (1945), rendendolo un luogo simbolico del Mezzogiorno italiano. Il riferimento continuo al romanzo e alla permanenza dell’autore conferisce al paese un’aura quasi mitica, che lo eleva da semplice borgo a “luogo dell’anima” italiana.

Carlo Levi durante il regime fascista, negli anni 1935-36 fu condannato al confino in Basilicata (chiamata, ufficialmente, Lucania) per la sua attività antifascista. Trascorse un periodo prima a Grassano e successivamente ad Aliano (che nel libro viene chiamata Gagliano, imitando la pronuncia locale), dove ebbe modo di conoscere la realtà di quelle terre e della sua gente. Durante il confino ad Aliano, su richiesta dei poveri del luogo, Levi esercitò gratuitamente la sua professione di medico, venendo a conoscenza in modo diretto delle misere condizioni della comunità.

Lo scrittore nelle sue ultime volontà espresse quella di essere seppellito ad Aliano «tra i suoi contadini». Nel paese sono ancora intatti tutti i luoghi descritti nel romanzo e nei vicoli sono impresse alcune frasi simbolo del libro. Levi ebbe qui l’occasione di scoprire un’altra Italia che era, appunto, quella contadina del Mezzogiorno.

Il Festival

Scriveva nell’estate 2024 il poeta e scrittore Franco Arminio, annunciando l’evento: «La luna e i calanchi è un festival che vuole raccogliere intorno a un luogo preciso il meglio delle tensioni civili e artistiche che si sprigionano intorno al Mediterraneo interiore, con una particolare attenzione a quello che accade in Lucania e nel borgo raccontato da Carlo Levi come simbolo di un Sud che costruisce nuove storie legate a un nuovo rapporto con il paesaggio. Come ogni anno, le cose che accadranno saranno molte di più di quelle previste dal programma. Perché la festa è di chi viene a farla, ad Aliano non si assiste a una serie di spettacoli, si sta dentro una cerimonia di poesia e impegno civile, si sta dalla parte del paese, si avverte il sacro che sta nelle terre che non si sono consegnate alla globalizzazione dello sfinimento».  

Il Festival, ideato da Franco Arminio e patrocinato dal Comune di Aliano con la Regione Basilicata,  la Provincia di Matera e il Parco Letterario Carlo Levi, si svolgerà dal 19 al 23 agosto. Rappresenta un perfetto esempio di come si possa fare cultura nei piccoli centri, con spirito di accoglienza e condivisione. L’approccio della “paesologia” arricchisce il racconto di una dimensione filosofica e civile. La valorizzazione del territorio e del paesaggio dei calanchi diventa vivida e poetica. I calanchi diventano quasi protagonisti del racconto. La loro potenza evocativa è forte. Il paesaggio è narrato non solo come elemento geo-fisico, ma come parte integrante della memoria e dell’immaginario collettivo.

Il Festival  emerge come un modello virtuoso di cultura partecipata e impegno civico, dove il visitatore non è spettatore ma parte attiva. L’intreccio tra eventi artistici, spiritualità e attaccamento alla terra è comunicato con passione. Una sorta di adozione collettiva di un paese nello spirito della “paesologia”. Fotografi, scrittori, pittori, registi, musicisti lasciano ogni anno una traccia artistica del loro passaggio nel paese del Cristo si è fermato a Eboli. La viva partecipazione degli abitanti del luogo e dei visitatori aggiunge autenticità e calore umano, mostrando un paese vissuto, amato, partecipato e non solo “raccontato”. Il festival di Aliano è la dimostrazione di come la Cultura possa generare economia.

Teresa Maria Rauzino

su “L’Edicola” del 4 maggio 2025

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Microstorie

I tre Papi pugliesi

La Puglia diede i natali a tre Pontefici di Santa Romana Chiesa 

Benedetto XIII

La Puglia può essere considerata terra di radicata religiosità, culla di Santi. Ma si conferma, nella sua radicata religiosità, anche terra di Papi, avendone dati ben tre alla Santa Romana Chiesa. Lo ha documentato lo storico Matteo Fantasia, nel  volume “I Papi Pugliesi” (Schena editore, 1987), portando alla luce una verità sconosciuta al grande pubblico.

Bonifacio IX  (Pietro Tomacelli), nato a Casarano in Salento, fu papa dal 1389 al 1404; Innocenzo XII (Antonio Pignatelli), nato a Spinazzola, dal 1691 al 1700; Benedetto XIII (Vincenzo Maria Orsini), nato a Gravina di Puglia, dal 1724 al 1730.

Questi tre Pontefici pugliesi hanno lasciato un’impronta notevole nella storia della Chiesa cattolica, contribuendo in modo significativo al suo sviluppo. Furono protagonisti delle sue vicende, talora turbinose. 

Bonifacio IX fu Papa durante lo Scisma d’Occidente. Salito al soglio pontificio a soli 45 anni, i giudizi storici su di lui sono contrastanti. Negativi: cultura limitata, superficialità e favoritismo familiare (fu tacciato di nepotismo, simonia). Positivi: Fliche, Martin e Castiglione lo descrivono come giovane, casto, desideroso di pace e carità.

Bonifacio IX

Il recupero e la riabilitazione della sua memoria storica sono avvenuti grazie al vescovo Antonio Sanfelice (1717), uno dei più illustri pastori della diocesi di Nardò. Correva l’anno 1717 quando, durante la sua visita pastorale, per ricordare il battesimo di questo illustre figlio salentino “ordinò che fosse rinnovato il ricordo quasi distrutto dell’ottimo principe che immortalmente meritò dell’orbe cristiano e della Chiesa”, facendo sostituire l’epigrafe quasi distrutta dal tempo, che era stata apposta tre secoli prima. Dice l’iscrizione, tradotta dal latino: “(…) Fermati o forestiero e ammira il decoro di questo tempio: qui Bonifacio IX Tomacelli pontefice massimo nato da genitori signori dell’uno e dell’altro Casarano col sacro battesimo fu purificato; questa chiesa primieramente venerò come madre colui che poi in Terra fece le veci del sommo Dio“. 

Papa Innocenzo XII, nato Antonio Pignatelli, si contraddistinse per una brillante carriera ecclesiastica: sacerdote dell’ordine dei Gesuiti, con laurea in diritto canonico e civile,  

La sua preparazione teologica e giuridica consentì a molti pontefici di averlo stretto collaboratore, soprattutto nelle questioni difficili da dirimere. Fu ambasciatore e fine diplomatico, nunzio apostolico a Varsavia e Vienna. Purtroppo, questa carriera che sembrava essersi avviata verso una folgorante ascesa, fu interrotta quando Clemente X, papa Altieri, nominò Pignatelli vescovo residenziale a Lecce, dove restò per 12 anni. Del suo episcopato in terra leccese si ricordano alcune importanti opere destinate alla cattedrale: tre porte nuove realizzate a sue spese, il restauro della campana grande e la dotazione di ricchi paramenti sacri e di due paliotti d’argento. Il suo ricordo fu sempre esaltato, tanto che alla sua morte, avvenuta il 28 ottobre del 1700, proprio a Lecce furono celebrate solenni esequie. 

Pignatelli fu Legato pontificio a Faenza e a Bologna, ma fu Napoli (dove operò come vescovo dal 1686 per quattro anni,  facendo emergere le sue doti di attento conoscitore delle problematiche politiche), la sede che lo lanciò per l’ascesa alla carica più importante e più prestigiosa nella vita della Chiesa.

Dopo lunghi mesi di conclave, ben sei, il 12 luglio 1691, Antonio Pignatelli divenne il successore di Pietro. Non fu eletto all’unanimità, ma si mostrò all’altezza del compito, seppe dare prova di governo, combattendo il nepotismo e ogni forma di corruzione e di sopruso nei confronti dei poveri, nominando un avvocato che prendesse le loro difese. La sua attenzione verso gli ultimi si concretizzò, inoltre, con la ristrutturazione dell’orfanotrofio San Michele a Ripa a Roma, che ampliò in modo da poter accogliere ed ospitare 300 ragazzi tolti dalla strada e avviarli al lavoro. 

Innocenzo XII

Innocenzo XII morì il 27 settembre 1700, durante il Giubileo del 1700. Il processo di canonizzazione per portarlo agli onori degli altari fu ostacolato da motivi politici (aveva avuto degli scontri violenti con Luigi XIV a causa del gallicanesimo).

Papa Benedetto XIII, nato Pierfrancesco Orsini; divenuto domenicano come Vincenzo Maria, vestì l’abito domenicano contro la volontà della famiglia. Fu nominato cardinale a 22 anni. Vescovo di Manfredonia, Cesena e Benevento, si distinse per l’impegno sociale e per  la creazione dei “Monti frumentari” (banche del grano). 

Il giornale di Napoli «Avvisi Pubblici» n. 27 del 4 luglio 1724 annunciò così la nomina di Orsini al pontificato: «E’ stato tale e tanto il giubilo inteso dalla Cittadinanza dello stato di Solofra per la esaltazione al soglio Pontificio del di loro primo natural Padrone, oggi Sommo Pontefice, che per dieci giorni continui quel pubblico lo manifestò con estraordinaria allegrezza facendo vedere pareggiare la notte col giorno per la quantità ben grande de’ lumi, ed altri fuochi di gioia accesi nelle publiche strade, e nei palagi, in molti dei quali vedevasi esposto il ritratto di S. Santità, e facendo sentire un continuo rimbombo di mortaretti, salve d’archibuggi, e di varie sorti di fuochi artificiali».

Vissuto in povertà e semplicità, Benedetto XIII durante il Pontificato fece ricostruire la città di Benevento dopo il terremoto del 1688. Fu ritenuto uno spirito umile e caritatevole; il suo tratto distintivo fu l’attenzione costante ai bisogni dei poveri e alla riforma del clero. Ma il suo fu un pontificato molto “discusso”. Tra i demeriti, la persecuzione contro Pietro Giannone. Morì il 21 febbraio 1730. Per non disturbare il popolo romano, impegnato nelle strade a festeggiare il Carnevale, per lui non suonarono neppure le campane a morto.   

Teresa Maria Rauzino

su L’Edicola del 29 aprile 2025

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Microstorie

Quel borgo sul mare circondato dagli agrumi

Cartoline da Rodi Garganico

«Rodi giace su di una scoscesa prominenza al lido del mare maestosamente aperto; questa città è circondata non già da nudi scogli, ma da folti e ridenti boschi di agrumi, in cui serpeggiano con placido mormorio argentei ruscelli d’acque dolci».
La descrizione risale a 219 anni fa, ed è del frate illuminista Michelangelo Manicone.
Rodi garganico è ancora un “paradiso” dove gli agrumi maturano per tutto l’anno: si inizia ad aprile/maggio con l’arancia bionda, la cui raccolta prosegue fino a settembre, e a Natale si raccoglie la duretta. Le arance del Gargano e i limoni Femminello sono riconosciuti come prodotti IGP. I terreni sono coltivati presso le sorgenti e protetti da muriccioli in pietra calcarea o da barriere di canne che salvaguardano aranci e limoni dai venti freddi e dalla salsedine.
Questa tradizione continua a essere una componente significativa dell’identità economica del comune di Rodi Garganico, un borgo della provincia di Foggia, in Puglia, con una popolazione di 3.323 abitanti. Dal 2010 ha ottenuto il titolo di “città”. Fa parte del Parco Nazionale del Gargano. Le sue spiagge, in particolare la Spiaggia di Levante e quella di Ponente, contribuiscono alla sua fama di località balneare, più volte insignita della Bandiera Blu, l’ultima nel 2024, oltre alle “vele” di Goletta Verde di Legambiente.
Recentemente è stato costruito un porto, che sta contribuendo alla crescita del turismo nautico.

La memoria

Le origini di Rodi Garganico sono antiche, con vari insediamenti preistorici e una probabile colonizzazione greca nell’ VIII secolo a.C.. Durante l’epoca romana era un porto importante. Nel corso dei secoli ha subito varie dominazioni e attacchi, tra cui la distruzione da parte degli Ostrogoti nel 485 d.C. e un assalto saraceno nel 950. Nel 1461 fu occupata dagli Aragonesi.

Il borgo antico

Situato su un promontorio roccioso, il centro storico conserva le caratteristiche di un antico borgo marinaro.
La Chiesa di San Pietro e Paolo è la più antica chiesa urbana, attualmente ubicata nel cuore del paese. Anticamente faceva parte di un convento francescano: si narra che fu edificato quando San Francesco, tra il 1216 ed il 1221, venne in pellegrinaggio presso la grotta di San Michele a Monte Sant’Angelo. Differenze stilistiche ed architettoniche documentano l’ampliamento della chiesa in momenti successivi.


La Chiesa del Crocifisso fu la prima parrocchia cittadina, chiusa in seguito ai danni riportati dal terremoto del 1679 e del 1995. Un restauro che, iniziato, non è stato completato. Dei 10 altari posti all’interno, il primo a destra è dedicato alla natività, il primo a sinistra è posto sotto una bellissima statua lignea di inestimabile valore, raffigurante Cristo Morto. Di notevole interesse sono anche i due organi, oggi ospitati nelle altre chiese di Rodi.

La Chiesa di San Nicola di Mira, finalmente aperta un mese fa dopo il restauro, fu costruita nel 1680 e consacrata nel 1827 dall’arcivescovo Eustachio Dentice, il quale depose sulla mensa dell’altare maggiore le reliquie dei SS. Martiri Cristoforo e Teodoro. Si venera la gigantesca statua lignea di San Cristoforo, compatrono della città, donata dall’abate Giuseppe Spinelli nel 1681.

La devozione

Come ogni anno a Rodi, dal 1 al 3 luglio, tre giorni di festa patronale sono dedicati alla Madonna della Libera.
Il santuario, un tempo abbazia extra moenia, è inglobato attualmente nel centro di Rodi Garganico.

Sulla effigie della Vergine qui venerata, lo storico Michelangelo De Grazia ci ha tramandato una suggestiva leggenda.
Quando Costantinopoli, capitale dell’impero romano d’Oriente, fu espugnata dai Turchi nel 1453, i Veneziani in fuga dalla città cercarono di salvare le sacre icone dalla distruzione, imbarcandole sulle loro galee. Una di queste navi, giunta in direzione di Rodi, nonostante il vento favorevole, inspiegabilmente si fermò, mentre le altre proseguivano la rotta per la Serenissima. Il capitano, sorpreso, sbarcò al lido per chiedere spiegazioni agli abitanti, che non seppero dargliene.
Mentre camminava fuori le mura della città, vide il “greco pannello” della Vergine, portato in salvo nel proprio naviglio, “tenersi ritto” sopra un macigno, senza alcun supporto. La riportò a bordo. Ma la galea, nonostante il vento e le correnti favorevoli, per tutta la notte non riuscì a riprendere il largo. Il mattino seguente, il capitano scese di nuovo a terra. Nello stesso luogo del giorno precedente, e nella medesima posizione, stava ritta la sacra icona. Ritenendo ciò una chiara manifestazione del desiderio della Vergine di voler restare a Rodi, il capitano donò il quadro alla popolazione. E così finalmente poté riprendere la rotta…


De Grazia ci descrive così il sacro Quadro: «In un verde prato, tappezzato di variopinti fiori, è situato un poggiolo. Sopra di esso è seduta la Vergine, avente al sinistro braccio il bambino, che serra fra le dita un colombino, che gli lambisce la mano; ha la destra alzata, con la palma aperta per mostrare una crocetta dipinta in oro in mezzo di essa. Finissimi sono i colori della pittura, bruna la carnagione e nell’assieme si può dire un quadro raro».

LA MADONNA DELLA LIBERA E I MARINAI

Segni vibranti dell’ancestrale culto mariano custoditi nel Santuario della Madonna della Libera sono gli ex voto, offerti dai fedeli alla Vergine per “grazia ricevuta”, preziose testimonianze di un’arte popolare scomparsa. Dalle pitture delle tavolette votive affiora un drammatico spaccato di vita quotidiana: i frequenti naufragi dei trabaccoli che, tra Ottocento e primo Novecento, solcavano arditamente l’Adriatico, impegnati nel redditizio commercio degli agrumi.
Venuta dal mare, la Madonna della Libera accompagnò la marineria rodiana nelle storie quotidiane dei traffici sul mare. Quando i trabaccoli carichi di agrumi scampavano ai naufragi sulle rotte per la Dalmazia, i superstiti si recavano a sciogliere voti alla Madonna. Il soggetto delle tavolette votive è prevalentemente il naufragio:
il vero protagonista è il mare, scuro, minaccioso. Alle curve delle onde corrispondono, in alto, le rotondità delle nubi, in un cielo che da scurissimo diventa sempre chiaro verso l’apparizione della Vergine.

LA SAGRA E LA FESTA

Il 3 maggio 2025, Rodi Garganico sarà il cuore pulsante di un evento che celebra il gusto, la tradizione e la cultura pugliese: Ia Sagra delle Arance. Durante la manifestazione, la città si animerà con visite guidate tra gli agrumeti, escursioni alla scoperta del paesaggio garganico e spettacoli folkloristici che rievocano la cultura e le tradizioni del passato. Il pubblico può assistere a show cooking e degustazioni, scoprendo i mille utilizzi delle arance in cucina, dalle ricette dolci a quelle salate. Non mancano stand enogastronomici con prodotti tipici locali, dove gli agrumi diventano protagonisti di confetture, liquori e dolci artigianali. Un appuntamento imperdibile per chi desidera conoscere le eccellenze di Rodi Garganico.

La festa del Convento 𝐝𝐞𝐥𝐥𝐨 𝐒𝐩𝐢𝐫𝐢𝐭𝐨 𝐒𝐚𝐧𝐭𝐨

Su un’amena collina da cui si gode uno splendido panorama, nel 1538 venne edificato il primo convento cappuccino del Gargano, consacrato nel 1678 dall’arcivescovo Vincenzo Maria Orsini (il futuro papa Benedetto XIII). All’interno si può ammirare uno splendido dipinto su tela (purtroppo solo in copia) raffigurante la Madonna circondata dagli Apostoli, sul capo dei quali discende lo Spirito Santo. L’antica tradizione dell’ultimo sabato di Aprile vede il popolo rodiano impegnato a trascorrere una piacevole giornata primaverile nei pressi del Convento, all’insegna della religiosità, della natura, dei picnic. 

Teresa Maria Rauzino

su L’Edicola 25 aprile 2025

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Pietramontecorvino. Le tre porte che aprono uno scrigno di storia

Cartoline dalle province

Festa sant’Alberto in un bellissimo scatto di Carolina Niro

Appollaiata su un’altura di 456 metri del Subappennino Dauno, Pietramontecorvino,  in provincia di Foggia, conta meno di tremila abitanti, di cui 160 nel centro storico.

Il Touring Club Italiano ha assegnato la Bandiera Arancione a questo piccolo borgo che,  oltre al suo patrimonio storico, culturale e ambientale di pregio, offre al viaggiatore un’accoglienza “esperienziale” di qualità, all’insegna del motto «Vivi l’Italia più vera». Pietramontecorvino  è inclusa anche nei ” borghi più belli d’Italia”.

Un paese che affonda le radici nei Bizantini e nei Normanni. Una storia segnata da cicli di distruzione e rinascita.  Rappresenta un esempio di resilienza,  simbolo della bellezza dell’Italia nascosta.

Oltre alla sua ricca storia, il borgo festeggia diverse tradizioni, come la festa di Sant’Alberto e la manifestazione “Suoni, sapori e colori di Terravecchia”. Non mancano quindi i piaceri della tavola: cucina tradizionale, piatti rustici, prodotti locali e sagre popolari raccontano l’anima autentica di questo angolo di Puglia.

La gastronomia è rinomata per piatti tipici e salumi, con un focus sull’olio extravergine d’oliva e il vino Cacc’e mitte.

Per chi ama stare all’aria aperta, Pietramontecorvino offre escursioni nei boschi, itinerari in mountain bike e relax nel verde. 

«Bello, intorno, il paesaggio della Daunia — recita il promo sul sito dei  borghi — campagne assolate con il grano, gli ulivi, le viti, strade deserte. Qui l’aria pungente dell’inverno reca l’odore della legna che arde nei camini, mentre il vento d’estate spande dai vicini monti il profumo delle ginestre».

Il nome 

“Pietra” indica la rupe che accoglie il borgo, mentre “Montecorvino” richiama l’antico centro bizantino-normanno distrutto nel XV secolo. Secondo la tradizione, furono proprio i profughi di Montecorvino a rifugiarsi tra queste rocce — la preta, in dialetto — dando origine a un nuovo insediamento.

Un viaggio nella storia

1018: Montecorvino è sede vescovile.

1137: il borgo viene distrutto da Ruggero II.

1218: compare per la prima volta il Castello di Pietra, feudo autonomo.

1456: un terremoto devasta Montecorvino, che viene definitivamente abbandonato.

1862: il paese assume il nome attuale, Pietramontecorvino.

Il centro storico

Fondata su un sperone di roccia, un tempo  circondata da fortificazioni,  la Terravecchia presenta tre porte storiche, vicoli stretti e un impianto urbanistico ad anello, con case scavate nella roccia di tufo e architetture medievali.

La Chiesa matrice di Santa Maria Assunta  è un edificio sacro di grande importanza storica e culturale.  Risale probabilmente al XII secolo, come dimostra il portale di lato, un tempo ingresso principale. Nel 1700 è stata ristrutturata, ma conserva ancora elementi medievali che le conferiscono un fascino particolare: un mix di stili architettonici, con tocchi barocchi, che rendono la Matrice un luogo affascinante da visitare.

Il Castello, noto come Palazzo Ducale, risale alla metà del XII secolo. Inizialmente era una torre normanna-angioina, progettata per scopi militari.

Alcuni elementi architettonici  testimoniano la sua origine duecentesca, come uno stemma angioino posto sulla facciata laterale.

Nel corso dei secoli,  ha subito diverse ristrutturazioni. 

Oggi  è un luogo di interesse per eventi culturali e visite turistiche. Ospita un Ente di Formazione, un ristorante didattico e il Museo Archeologico Parrocchiale.

La Torre Normanna è un  monumento storico che continua a suscitare interesse. È alta 30 metri,  con elementi architettonici che riflettono le sue origini medievali. In occasione dell’evento “Magolandia”, la torre è stata aperta al pubblico per visite guidate, offrendo una vista panoramica dal terrazzo merlato.   Simbolo prezioso per il borgo, è un importante punto di riferimento storico e culturale, attirando i visitatori affascinati dalla storia e dall’architettura.

Fuori dal centro storico, meritano una visita: la Chiesa del Rosario (XVI sec.), con il suo elegante soffitto a cassettoni; il Bosco di Sant’Onofrio, rifugio ideale in estate, tra faggete e sorgenti; la Torre di Montecorvino, detta “Torre del Diavolo”, che domina l’intera valle come ultimo simbolo dell’antico insediamento.

QUELLE STAFFE COLORATE IN PROCESSIONE CONTRO LA SICCITA’

Ogni 16 maggio, la popolazione si mette in cammino con i maestosi palii variopinti per il pellegrinaggio verso Montecorvino, in onore del patrono Sant’Alberto Normanno. Sette chilometri, lungo i quali si snoda un cammino di devozione, fede, tradizione e identità culturale.

Particolarmente suggestiva è la visione dei “palii”: lunghi fusti d’albero decorati con stoffe colorate, portati a braccia dai fedeli, diventano veri e propri simboli visivi del pellegrinaggio, visibili anche da lontano. C’è un suggestivo contrasto tra i colori degli scialli e il verde tenero del grano: un’immagine semplice ma potente. Questa antica tradizione continua a unire i tre Paesi nati dalla diaspora degli abitanti dell’antica Montecorvino dopo la sua distruzione: Motta Montecorvino, Pietramontecorvino e Volturino.

La leggenda narra che  Sant’Alberto apparve a due donne, promettendo pioggia per i campi arsi da siccità in cambio di un pellegrinaggio penitenziale. Così fecero i Petraioli e durante la via del ritorno le nuvole riversarono sui campi la pioggia promessa: Alberto il Normanno aveva sconfitto la siccità e conquistato eterna devozione.

Ancora oggi, la comunità, unita dalla statua del Santo, cammina verso il sito archeologico dove si celebrano riti a lui dedicati. Un viaggio tra storia, devozione e folclore, che unisce tre comunità e fa rivivere una leggenda che dura da 126 anni.

Non è solo una processione, non è solo  espressione di fede, ma momento collettivo che rafforza le radici e l’identità di una comunità. Un’esperienza che resta nel cuore. 

GENIUS LOCI

Gaetano Schiraldi, parroco della Matrice “S. Maria Assunta”  di Pietramontecorvino dal 2019,   

socio della società di Storia patria per la Puglia,  ha recentemente approfondito la storia di Pietramontecorvino, sottolineando che ci sono ancora molte storie da

raccontare, valorizzando gli archivi parrocchiali e diocesani. 

Ha scritto diversi libri che trattano temi di storia, arte e devozione. Tra i suoi titoli più noti: «Il tesoro di Volturino. Il patrimonio ecclesiastico»;

«Alberto da Montecorvino Custos noster. Storia, arte e devozione»;«La comunità cristiana di Lucera nell’alto e basso medioevo: primi appunti per una storia»; «Con la forza del passato e il coraggio del futuro. Storia del Movimento Cattolico nelle Diocesi».

Nella sua chiesa, don Gaetano organizza eventi culturali di spessore, che ne fanno un punto importante di divulgazione storica.

Pietra Montecorvino 

«Sud, sud. Nuje simmo dô sud, nuje simmo curte e nire / nuje simmo nate pe cantà e faticammo a faticà».

A cantare il “Sud” resiliente è 

Pietra Montecorvino,  alias Barbara D’Alessandro, cantante e attrice napoletana, moglie di Eugenio Bennato.

Lo pseudonimo è ispirato proprio dal nome del Comune di Pietramontecorvino, in provincia di Foggia.

Teresa Maria Rauzino

su L’Edicola del 20 aprile 2025

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Microstorie

Ricordi Ortesi nella silloge “Il Fico e la Cicala” di Savino Di Palma

Recensione al volume di Savino Di Palma dal titolo “Il Fico e la Cicala. Uno scrigno di poesie in Terra d’Orta”

Fresco di Stampa il nuovo libro di Savino Di Palma dal titolo “Il Fico e la Cicala”, pp. 172, Yucanprint, Lecce 2025, € 15, con prefazione di Geppe Inserra e postfazione di Arturo Gianluca Di Giovine.

L’Autore, non nuovo alla scrittura, propone in una silloge autobiografica tutte le Sue emozioni partendo dall’adolescenza fino ai nostri giorni. Le rime sciolte si tramutano in pensieri basati su esperienze del Suo vissuto quotidiano trascorso in massima parte nell’amato paese natìo: Orta Nova.

I sentimenti d’amore per la famiglia e per gli amici più cari, i ricordi della fanciullezza, i giochi, i primi amori, il periodo del militare, le scelte di vita successive, impreziosiscono il testo argomentato in cinque parti: “L’Adolescenza, le Stagioni, la Quercia, Madre Natura, Pandemia e Ricordi Indebili” questi i titoli in cui è suddiviso il testo.

Non mancano dissertazioni sul clima sulle sue mutazioni, sulla natura, spesso trascurata dall’incuria dell’uomo, sull’esodo dei giovani in cerca di un lavoro sperando in una vita migliore. La dedica ad alcuni amici scomparsi prematuramente mettono in evidenza il commovente ricordo e la sofferenza per il distacco. L’Autore non manca di narrare i periodi bui come quello della Pandemia, quando le città erano deserte, quando c’era il timore di incubare il Covid e si restava in casa tutti insieme. Poteva essere questo un modo per raccogliersi nella preghiera e per augurarsi di non essere contagiati. Molti amici e parenti sono scomparsi e di loro non resta che il ricordo.

Via Cavour, la strada dove è cresciuto, viene menzionata insieme all’ex Gesuitico, alla masseria Cirillo-Farrusi, al territorio della Palata, alla campagna dove l’Autore soleva raccogliere i frutti del fico che lo ha ispirato per il titolo del testo.

Simbolicamente Egli immagina un dialogo fra la cicala ed il fico che si domandano cosa sia quel brusìo insopportabile che odono, il progresso che inesorabilmente deturpa il paesaggio agreste e l’ambiente circostante con il suo inquinamento acustico provocato dalle pale eoliche distribuite selvaggiamente quasi a voler prendere il sopravvento sulla natura stessa.

La parte più intima dell’Autore viene evidenziata quando dedica le rime alla moglie Grazia, compagna di vita, ai tre figli, al nipotino, ai Suoi genitori verso i quali manifesta gratitudine per averlo formato educandolo ai sani principî della morale ispirata all’aiuto per il prossimo.

Il dovizioso apparato iconografico contenuto nel volume, lo impreziosisce e rappresenta un unicum nel suo genere.

Sicuramente i cittadini di Orta Nova leggendo il testo si identificheranno con l’autore ricordando il passato e rivivendo suoni, profumi, esperienze e voci che non si odono più. Uno scrigno di racconti in rime che si unisce alla doviziosa collezione di pubblicazioni sulla ridente cittadina ortese.

@Lucia Lopriore

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Microstorie

Patriarchi, verdi sentinelle di un antico patrimonio

Cartoline da Carovigno. Gli ulivi millenari sono i biglietti da visita di un luogo che “profuma” di storia e atmosfere suggestive

Carovigno, popoloso borgo in provincia di Brindisi a 5 km dal mare, offre un eccellente mix di storia, cultura, natura e tradizioni popolari. La sua Piana degli ulivi è ricca di “patriarchi verdi” dalle forme scultoree affascinanti. È possibile apprezzare questo grande patrimonio inoltrandoci in una rete di sentieri, tratturi e antiche strade, frantoi ipogei e suggestive grotte.

Nei giardini di Carovigno, il Parco Provinciale (a Nord) e il Parco Comunale, troviamo ulivi millenari, un piccolo viale botanico, essenze di macchia mediterranea. il Parco della rimembranza, dedicato ai caduti della Prima Guerra Mondiale, e viali profumati con rose rampicanti.

L’araldica

Lo stemma di Carovigno, riconosciuto il 9 febbraio 1935, come tutti gli emblemi civici del Ventennio fascista era ornato dal fascio Littorio, eliminato dopo la caduta della dittatura. La forma attuale del gonfalone, un «drappo di color porpora, riccamente ornato di ricami d’oro e caricato dallo stemma, con l’iscrizione centrata in oro del nome del Comune» è tipica dell’araldica civica italiana, con stemma «D’azzurro, con un delfino cavalcato da un amorino che suona la cetra».

Le Torri e il Castello

Gli ingressi principali del centro storico di Carovigno sono costituiti dalle due antiche porte, Porta Brindisi e Porta Ostuni, e da due aperture più piccole, l’arco “del Prete” e la “Purticedda”. Della vecchia cinta muraria, spiccano quattro torri: la Torretta del civile, sulla quale si intravvede una meridiana; Torre Giranda e la sua stivatura, Torre “delli Brandi” (purtroppo inglobata in moderne costruzioni; la Torre circolare (del Prete). Ma l’attrazione principale del borgo è l’imponente castello Dentice di Frasso, le cui origini risalgono all’epoca normanna, con chiara vocazione difensiva (lo dimostrano la torre quadrata e gli ambienti sotterranei). A partire dalla fine del XIV secolo, il principe Raimondo del Balzo ampliò il castello e lo fortificò con una seconda torre, questa volta rotonda.

Nel 1492, il castello di Carovigno assunse la caratteristica forma triangolare con l’aggiunta della torre a mandorla ispirata ai progetti del celebre architetto militare Francesco Di Giorgio Martini. Le sue mura imponenti e la forma lanceolata ne fanno un originale esempio di adattamento delle fortificazioni medievali alle nuove strategie belliche. Nel 1791 il Castello entrò a far parte dei possedimenti dei Dentice di Frasso. L’ingresso è decorato con il motto della famiglia Dentice “Noli me tangere”, e il suo stemma nobiliare. All’interno, numerosi emblemi araldici – tra cui quelli delle famiglie Schlippenbach, Loffredo, Caputo, Granafei e Imperiali – raccontano il susseguirsi delle varie feudalità. Spiccano i grifoni a guardia della scalinata che conduce al piano nobile e diverse iscrizioni in latino incise all’interno delle sale. In un parco e in un orto botanico sperimentale, furono coltivate varietà di piante e frutti rari, grazie al contributo del celebre botanico dell’epoca Francesco Ingrosso.

Nel corso della storia, si sono avvicendati illustri visitatori, tra cui Guglielmo Marconi e il futuro re Umberto II. Nel 1961, il castello fu venduto da Luigi Dentice di Frasso all’Opera Maternità e Infanzia. Proprietà della provincia di Brindisi dal 1973, oggi in concessione al Comune di Carovigno, ospita la Biblioteca “ Morelli” e rappresenta, oltre che un patrimonio storico di inestimabile valore, un autentico punto di riferimento culturale e simbolico per l’intera Puglia.

Le Chiese

Nel borgo c’è da vedere la Chiesa Matrice, che risale al Trecento ed è dedicata all’Assunta. Della struttura cinquecentesca resta solo l’abside ed il bel rosone che un tempo si trovava sulla facciata principale. All’interno alcune tele settecentesche di artisti locali.

La Chiesa di S. Anna, vicino al Castello, fu costruita dalla famiglia Imperiali nel XVIII secolo. Tra le altre chiese da visitare ci sono la chiesa di Sant’Angelo (del Quattrocento) e la chiesa del Carmine, con affreschi del Settecento.

Il battimento della ‘Nzegna

Secondo una leggenda popolare, un pastore e un signore di Conversano, mentre contemporaneamente cercavano una giovenca smarrita e l’immagine della Madonna, le ritrovarono in una grotta della contrada di Belvedere a Carovigno. Il pastore e il signore (che fu miracolato), presi da emozione e gioia, per attirare l’attenzione dei contadini della contrada, legarono un fazzoletto colorato (‘Nzegna) al proprio bastone e cominciarono a lanciarlo in aria.

Ancora oggi, il “battimento della ‘Nzegna” viene riproposto durante la processione in onore della Vergine di Belvedere il lunedì, il martedì e il sabato dopo Pasqua.

Tre colpi di grancassa scandiscono i passi dei battitori che, avvolti nella ‘Nzegna, si portano verso il centro e danno inizio alla loro danza. Il suono del piffero li segue e li accompagna rimarcando con lunghe note squillanti, gli attimi in cui le bandiere vengono lanciate in aria ed i respiri degli spettatori si interrompono nell’attesa che i battitori le riprendano al volo prima che tocchino terra. E’ un rito propiziatorio, poiché l’eventuale caduta della ‘Nzegna sarebbe di cattivo auspicio per l’intera città.

Il rito si conclude con l’inchino finale e la deposizione della ‘Nzegna ai piedi della statua della Madonna. Il corteo quindi si ricompone per far rientro in cattedrale.

La ‘Nzegna è una bandiera composta da pezzi triangolari di stoffa multicolore, disposti ad incastro in doppia fila intorno ad un quadrato, all’interno del quale è raffigurato, con gli stessi colori dei triangoli, un fiore a dieci petali pentagonali, stilizzato: la rosa mistica, un simbolo mariano bizantino.

Recentemente il prof. Carito ha attribuito al drappo il significato di “pasquale segno di pace tra la comunità greca e quella di culturale latina“, collocando l’episodio della battitura della nzegna all’epoca della conquista della Puglia da parte dei normanni e alla complessiva ridefinizione dei rapporti coi cristiani di Bisanzio.

Negli ultimi secoli, Battitori della Nzegna sono stati i membri delle famiglie Brandi, Lanzillotti, Di Perna, Maellaro. Attualmente, ad assumere annualmente l’onere e l’onore della Battitura, sono due rappresentanti e discendenti delle famiglie di Sabino e Nicolò Carlucci che se la tramandano di padre in figlio da almeno quattro generazioni.

TORRE GUACETO

La Riserva naturale statale Torre Guaceto, situata sulla costa adriatica dell’alto Salento vicino a Carovigno, San Vito dei Normanni e Brindisi, si estende per 1.016 ettari a terra e 2.227 in mare. Presenta diversi habitat, dal litorale alle zone umide dovute a bonifiche e successivi allagamenti, ed è oggetto di studi scientifici, progetti di educazione ambientale e formazione professionale.

Gestita da un consorzio tra i Comuni e WWF Italia, la riserva è riconosciuta per il valore ambientale delle sue spiagge (premiate con Bandiera Blu) e per la sua biodiversità, che include 670 taxa di flora e numerose specie di fauna, come mammiferi notturni, uccelli e rettili. Tra gli uccelli che prediligono come dormitorio o punto di sosta il canneto di Torre Guaceto vi sono passeriformi come il pendolino e l’usignolo di fiume o uccelli di dimensioni maggiori come il porciglione, gli aironi e il tarabuso. Quest’ultimo, per mimetizzarsi al meglio tra le canne che lo circondano, può rimanere per molto tempo immobile in piedi o ondulare lentamente come canna al vento. Se viene disturbato, assume una particolare “posizione di attacco”. Altri protagonisti di quest’ambiente sono le rondini che in migliaia di esemplari vi stazionano durante i viaggi migratori. Tra i rapaci domina il falco di palude.

Recenti scavi hanno portato alla luce resti di un villaggio fortificato del Bronzo, mentre la scoperta, a partire dal 2019, di una necropoli a cremazione (con 35 tombe) ha evidenziato l’importanza storica del territorio, aprendo prospettive per la creazione di un museo archeologico.

teresa maria rauzino

su “L’Edicola” 14 aprile 2025

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Microstorie

Botteghe del gusto e colombe che si posano sulle tavole della festa

Nella Settimana Santa si rinnovano riti gastronomici di grande intensità. Forni e pasticcerie restano baluardi della bontà che supera i confini locali

Viaggio gourmet

La Puglia, terra di tradizioni radicate e di sapori autentici, vive la Pasqua con un’intensità che si riflette soprattutto nella gastronomia. E i forni e le botteghe artigianali svolgono un ruolo centrale nella preparazione delle specialità pasquali come le “scarcelle” a base di pasta frolla, decorate con zuccherini colorati e un uovo sodo al centro (simbolo di rinascita) a forma di colomba, di cuore, o cestino. Diffusissimi nel foggiano e nel barese sono i taralli dolci, sbollentati prima di essere cotti in forno e poi glassati con una copertura bianca di zucchero (gileppe).

Ci sono poi i “puddhriche” o “cuddhura”, pane dolce o salato intrecciato con uova incorporate, diffuso soprattutto nel Salento. Da gustare i pasticciotti leccesi e il cavicione di Ischitella (a base di sponsali uvetta e acciughe).

I luoghi

Uno spazio meritano i Forni d’eccellenza, che poniamo all’attenzione dei nostri lettori in un tour tutto pugliese. Emergente è il Forno Sammarco di San Marco in Lamis in Capitanata. Il suo maestro panificatore, Antonio Cera, è noto per aver valorizzato i grani antichi e le ricette della tradizione con un approccio quasi filosofico, una sorta di rivoluzione culturale. Educa i consumatori, e ha creato una rete consapevole di agricoltori e ristoratori che esaltano la salute e la tradizione.

Oltre al pane, il forno offre dolci tradizionali e biscotti, mantenendo viva la cultura gastronomica del Gargano. Le sue colombe artigianali e le scarcelle reinterpretate sono ormai celebri a livello non solo nazionale. Una nuova proposta per le festività è la “Palummella”, un nuovo lievitato pasquale ideato dal foodblogger Alessandro Tipaldi, realizzato in collaborazione con il forno Sammarco, oltre che con il bar Cinquanta Spirito Italiano. Questo lievitato si distingue per la sua composizione con salumi e formaggi del Sud, e fave di cacao che gli conferiscono una nota agrodolce, proponendo un’alternativa alla dolce colomba.

Il secondo forno da segnalare è il Panificio Di Gesù di Altamura. Nel cuore della capitale del pane Dop, questo forno produce pani e dolci pasquali secondo metodi tramandati da generazioni, usando solo lievito madre e cottura in forno a legna. La colomba artigianale Di Gesù nasce da un impasto soffice, lievitato naturalmente, arricchito da ingredienti selezionati e decorato a mano con glassa croccante alle mandorle. Nessun conservante, solo pazienza e passione.

Le eccellenze

Tra le botteghe tipiche e pasticcerie artigianali da segnalare la Dolceria Sapone di Conversano. Celebre per le colombe pasquali con ingredienti del territorio: fichi, mandorle di Toritto, limoni del Gargano, unisce tradizione e creatività. La colomba, simbolo indiscusso della Pasqua, è un lievitato che nasce dalla cura del lievito madre e da una lenta lavorazione. Infatti, il ciclo produttivo si completa dopo 36 ore di lievitazione naturale. Ecco la Colomba al Limoncello, di soffice pasta lievitata ricoperta con cioccolato bianco e farcita con una deliziosa crema al limoncello; colomba albicocca e cremino alla mandorla, in cui le albicocche candite e la pasta di mandorle creano un gusto esclusivo e unico, con sentori di miele di trifoglio e scorze di agrumi; soffice, delicata e senza canditi, è la Colomba al pistacchio. Ancora, tra le tante varianti, c’è la colomba “Intensamente fondente” con cioccolato, glassata di mandorle, nocciole e cacao, e indicata per gli intolleranti al lattosio.

Marchio storico della pasticceria salentina, la Martinucci di Maglie e Salento, propone ogni anno un assortimento pasquale che va dai dolci tradizionali alle colombe gourmet. Una chicca è l’agnello in pasta di mandorla, modellato con maestria e adornato con dettagli raffinati dai maestri pasticceri della casa. Un capolavoro che incanta occhi e palato, una dolcezza che dura da oltre 70 anni.

Nella seconda metà degli anni ’20, la famiglia Panese fonda un forno adiacente alla propria abitazione a Specchia. Nel 1950, nasce la Pasticceria Martinucci, un laboratorio che diventa un crocevia dei più grandi ingegni della tradizione pasticcera italiana: Siciliani, Napoletani e Veneti, tutti chiamati da Rocco Martinucci e sua moglie Annunziata Panese a cedere le proprie conoscenze e manualità. Oggi, l’azienda ha aperto ben 25 store ed esporta la “dolce tradizione salentina” in Italia e in molti paesi del mondo, producendo pasticceria, gelati, torte, dolci monoporzione e tiramisù, che è la referenza più ricercata.

In Capitanata

E infine si torna in Capitanata per un salto alla Pasticceria Casoli di Troia, in provincia di Foggia. Famosa per la scarcella foggiana, realizzata in diverse dimensioni e con decorazioni artistiche, si sta affermando per la “Colomba passionata”, gusto classica, arancia, liquore strega, estasi, pistacchio e nocciola.

È sicuramente una deliziosa alternativa alla Colomba tradizionale. Lievitata naturalmente, il che la rende estremamente soffice, viene farcita con una delicata crema alla ricotta di mucca pecora e bufala, e ricoperta poi con uno strato di pasta di mandorle pugliesi. Questa Colomba nasce dalla Passionata Dolce, inventata dai coniugi Lucia e Nicola che hanno fatto della loro passione un lavoro, dando a questo esclusivo dolce il nome “Passio-nata, Nata dalla Passione”.

All’ombra della cattedrale di Troia gli undici gusti della Passionata vengono declinati come gli undici raggi del Rosone.

Teresa Maria Rauzino

su “L’Edicola” 15 aprile 2025

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Microstorie

Quei primitivi nuraghi salentini tra frantoi e set cinematografici

A cavallo tra Ionio e Adriatico, Specchia fu luogo prescelto dalla famiglie nobili medievali per le sue tipicità. Il tour nel centro storico alla scoperta delle architetture industriali legate alla lavorazione dell’olio

Cartoline da Specchia

Specchia, in provincia di Lecce, è un piccolo borgo di 4.502 abitanti nel cuore del Salento, uno dei più belli d’Italia. Da un’altura strategica domina la pianura sottostante, a metà strada tra Ionio e Adriatico. Recentemente è stato riqualificato con la creazione di un “albergo diffuso”, che rappresenta la volontà di mostrare un territorio autentico, e preservarlo dai rischi del turismo di massa. Un esempio seguito da molti piccoli Comuni del Salento e italiani che hanno recuperato e valorizzato vecchi edifici in centri storici, evitando di invadere il territorio con nuove costruzioni. Un caso che ha fatto scuola, analizzato in varie tesi di laurea.

Il nome

Il nome di Specchia deriva da “specchie”, manufatti tipici del Salento e della Murgia realizzati con lastre calcaree sovrapposte a secco in forma conica, la cui origine risale probabilmente al periodo medievale. La loro funzione è oggetto di dibattito. Per lo storico dell’arte francese Émile Bertaux le “specchie” erano una sorta di ““nuraghi di Terra d’Otranto” crollati nel tempo. Oppure “enormi torri di avvistamento necessarie alla difesa”. La “specchia di pietre” era chiamata anche “Specla de Amygdalis” con riferimento agli alberi di mandorlo di cui era ricchissima la zona. Le due ipotesi sono avvalorate dallo stemma comunale che rappresenta un “Mandorlo fiorito poggiante su un cumulo di pietre e sormontato da una corona con cinque torri”.

Una caratteristica Specchia salentina

La Storia

Probabilmente nel IX secolo un primo piccolo nucleo di contadini e pastori occupò questa collinetta lontana dal mare e al riparo dalle frequenti scorrerie saracene. Con la venuta dei Normanni, per la Terra d’Otranto iniziò l’era feudale. Nel 1190, Tancredi diventa re di Napoli e conte di Lecce. Specchia viene infeudata a Filiberto Monteroni.

Nel 1414, la regina Giovanna invia nel Salento contro gli Orsini-Del Balzo un esercito guidato da Luigi III d’Angiò e da Giacomo Caldora, famoso capitano di ventura che negli anni 1434-35 assedia Specchia, la espugna e la distrugge.

Alfonso I D’Aragona, re di Napoli e di Sicilia, nel 1452, concede a Raimondo Del Balzo il permesso di ripopolare la rocca. Riedificati il castello e le mura, si concede asilo ai fuggiaschi dei centri costieri, terrorizzati dai Turchi dopo il sacco di Otranto (1480).

Dai Del Balzo ai Di Capua, ai Gonzaga, ai Brajda, ai Trane, il feudo passa in mano alle nobili famiglie fino all’abolizione del feudalesimo nel 1806.

Chiese e palazzi

Scrive lo storico Antonio Penna: «Al visitatore che in silenzio e in solitudine si avventura per il borgo, parleranno i semplici e composti portali catalani o barocchi, le cornici di pietra leccese, le iscrizioni in italiano o latino, i beccatelli dei balconi proiettati sulle strade, le logge panciute in ferro battuto, gli archetti pensili, che ancora adornano le facciate di case un tempo signorili, i fregi, le statue, le colonne, le edicole votive con immagini sacre sbiadite dal tempo».

Interessante è la chiesa di S. Nicola, edificata nel IX-X secolo, nel 1587 restaurata e adattata al rito latino, come ricorda una epigrafe posta sulla facciata. S. Eufemia, circondata da uliveti, è una suggestiva chiesetta di origine bizantina a tre navate separate da colonne monolitiche, con archi a tutto sesto. Il convento dei Francescani Neri, costruito nei primi decenni del Cinquecento, nel Settecento fu rinnovato in stile barocco; trasformato in educandato femminile nel 1885, e nel 1945 in orfanotrofio, fu chiuso nel 1980.

Di costruzione seicentesca sono le chiese dell’Assunta e di S. Antonio, con annesso convento dei Domenicani. Anche la Matrice fu edificata nel 1605 ma ha subito molti rifacimenti. I pilastri sono in pietra leccese e stuccati alla veneziana, mentre gli archi trionfali sono decorati con motivi floreali.

Il centralissimo castello Risolo è una struttura fortificata di impianto cinquecentesco, con due torrioni quadrati posti agli angoli dell’antica costruzione. Furono i Protonobilissimi, marchesi di Specchia nei sec. XVI e XVII, a trasformarlo in palazzo marchesale.

I frantoi ipogei

Il Comune di Specchia ha aderito alla Strada dell’Olio “Jonica-Antica Terra d’Otranto”. Il suo extravergine è un prodotto di qualità, con marchio “De.C.O Specchia”. Nel borgo antico è possibile visitare i frantoi ipogei, testimonianza di architettura industriale e della vita socio-economica del Salento tra XV e XIX secolo, basata sulla produzione di olio lampante esportato in tutta Italia. L’antico frantoio ipogeo Scupola scavato nel tufo custodisce varie macine, torchi “alla genovese” e alla calabrese”, vasche di spremitura e di decantazione, depositi di stoccaggio delle olive e posti di ristoro per gli operai. A Specchia è possibile visitare anche il frantoio ipogeo di via Perrone e il frantoio del Convento dei Francescani Neri.

Ciceri e tria

Gli eventi culturali e le sagre offrono varie opportunità per scoprire la cucina locale, famosa per piatti come “ciceri e tria” (pasta fritta e ceci). Si tratta di un primo piatto basato su una ricetta antica (il poeta Orazio ne menziona l’esistenza già nel 35 a.c.): pasta fresca realizzata con farina, semola rimacinata, acqua e olio d’oliva, stesa sottile e trasformata in tagliatelle corte a forma a spirale: la particolarità è che una parte viene fritta, dando consistenza al piatto. Tra le innumerevoli ricette di questa terra di ricchissima tradizione gastronomica, bisogna ricordare la minestra con fave e carciofi e l’insalata di melanzane alla griglia. Da gustare le caratteristiche frise con l’olio d’oliva e i pomodori e come dolce il pasticciotto a base di frolla, crema pasticciera e amarene.

Set cinematografico

In questo affascinante borgo del Salento sono stati girati diversi film: nel 2000 “Sangue vivo”, diretto da Edoardo Winspeare; nel 2006 “Eccezzziunale veramente – Capitolo secondo… me”, diretto da Carlo Vanzina, con Diego Abatantuono. Le scene furono girate in piazza del Popolo e in alcuni palazzi storici. Nel 2013 il film “La santa” diretto da Cosimo Alemà. Questi film testimoniano come il borgo sia stato scelto come set cinematografico per valorizzarne le bellezze architettoniche e paesaggistiche.

La rinascita del borgo con l’albergo diffuso

Agli inizi degli anni ’90, chi visitava Specchia non trovava quasi più abitanti nel centro storico. L’emigrazione aveva colpito l’intera area. Le case erano chiuse e abbandonate. Nel 1995 la locale Pro Loco e alcuni artisti cominciarono a far rivivere questi luoghi con “SpecchiArte”. Quadri, fotografie e sculture esposte lungo le stradine e all’interno delle abitazioni spoglie di mobili, per valorizzare un borgo antico sconosciuto ai più.

Ma Specchia deve la sua rinascita al progetto Leader del Comune e del GAL “Capo S. Maria di Leuca”: furono ristrutturate una ventina di vecchie abitazioni e offerte in locazione non più come normali appartamenti, ma come esempio italiano di “Albergo Diffuso”, una struttura ricettiva innovativa che ha favorito il contatto diretto tra turisti e abitanti. Le case arredate in stile “arte povera” richiamavano l’atmosfera e il design di un tempo dando “visibilità” all’artigianato locale, nel rispetto dei gusti e delle esigenze del turista moderno, che non si sentiva più un ospite esterno, ma un abitante del borgo, condividendo i ritmi di vita dei residenti, gustando i prodotti eno-gastronomici e partecipando alle manifestazioni locali tramandate di generazione in generazione.

Questo progetto, supportato anche da un’agenzia turistica americana, ha attirato visitatori e contribuito alla rinascita del borgo, valorizzando il suo patrimonio storico e culturale. I flussi turistici sono cresciuti di anno in anno. Il flusso turistico è proseguito in maniera costante e ha prodotto un “effetto volano” notevole. un territorio rurale nuovamente vissuto, scoperto, amato dai suoi abitanti e da tanti viaggiatori provenienti dagli USA, Giappone e Danimarca, dal Centro e dal Nord d’Italia.

Teresa M. Rauzino su L’Edicola per l’Italia 23 marzo 2025

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Microstorie

I dodici paesi del Griko nella Notte della Taranta

Cartoline dall’area del Salento di cultura ellenofona e che fa riferimento a Calimera. Le influenze culturali e linguistiche risalenti alla Magna Grecia e alla dominazione bizantina

La Grecìa Salentina è un’area segnata da influenze risalenti alla Magna Grecia e alla dominazione bizantina. Un suo retaggio è il Griko, è un’antica lingua ellenica parlata oggi da circa ventimila pugliesi. A tutt’oggi, la “grecità” è considerata tratto dominante della cultura salentina. Scoprire il Griko significa esplorare una lingua unica e la sua storia affascinante, e lo si può fare soltanto visitando i luoghi dove è ancora viva. L’isola linguistica è composta oggi da 12 comuni: Calimera (capofila), Carpignano Salentino, Castrignano dei Greci, Corigliano d’Otranto, Cutrofiano, Martano, Martignano, Melpignano, Soleto, Sternatia e Zollino e Sogliano Cavour. La Grecìa Salentina è nota per le sue tradizioni culturali e gastronomiche. Eventi come la Notte della Taranta a Melpignano celebrano la musica tradizionale, attirando visitatori da tutto il mondo. Questa piccola enclave linguistica offre numerosi luoghi da visitare, come palazzi storici e chiese.

Il luogo

Andiamo alla scoperta di Calimera, un borgo di 7.297 abitanti in provincia di Lecce. Il suo nome deriverebbe dal greco Kalimèra, che significa “buon giorno” o, secondo alcuni studiosi, “bella contrada” (kallá meréa). Altre ipotesi puntano, invece, su una derivazione bizantina del toponimo “cal/gal”, che significa “anfratto, luogo riparato”. Il gonfalone è un drappo azzurro su cui campeggia un sole splendente: «D’azzurro, al sole d’oro”. Nella simbologia araldica il sole rappresenta l’immortalità e la regalità.

La storia

Il borgo si trova lungo la Via Traiana Calabra, l’antica strada che collegava Otranto a Lecce e Brindisi. Le sue origini sono incerte. Come per gli altri centri ellenofoni del Salento, il dibattito storiografico lega la sua nascita ad una colonizzazione bizantina o a più antiche radici magno-greche. Oggi attivo centro del terziario, Calimera in passato era nota per la produzione del carbone, attività che proveniva dall’utilizzo del legname del grande bosco. I “craunàri” erano carbonaie venditori ambulanti di carbone e avevano un santo protettore tutto loro: S. Biagio. Oggi è rimasto molto poco del borgo antico, ma Calimera si distingue nell’area ellenofona per l’intensa attività culturale volta al recupero e alla valorizzazione della grikítà. Simbolo tangibile della “ellenicità” di Calimera, la bella stele attica donata dal Municipio di Atene al centro salentino nel 1960. Merita di essere segnalata una vasta produzione letteraria e una ricca produzione musicale che riesce a mantenere vivo un patrimonio collettivo di canti religiosi, di lavoro e di lutto.

Le chiese

La chiesa Matrice di San Brizio, costruita nella centrale piazza del Sole nel 1689 sulle rovine di un tempio più antico, ha un ampio portale barocco, sul quale troneggia la statua in pietra leccese del santo patrono. L’interno, a una navata a croce latina, presenta nove altari con tele di valore, il primo altare dedicato alla Madonna della Misericordia mostra un originale quadro di Madonna gravida, attribuita al Catalano. Alle spalle della chiesa un massiccio campanile a quattro piani.

Dedicata a San Vito è un’antica chiesetta risalente al Cinquecento, ubicata nella campagna a est del cimitero, vicino all’antico Bosco di Calimera. Per la Pasquetta, il Lunedì dell’Angelo, la popolazione di Calimera vi si reca per tradizione e compie ancora oggi il rito del passaggio attraversando un grande masso forato che emerge dal pavimento dell’unica navata della chiesa. È una pietra che richiama un rito propiziatorio di fertilità di origine pagana.

I musei

Il Museo di Storia naturale del Salento, a 2 chilometri dal centro di Calimera, è il museo più grande del Sud Italia. Narra la storia del Pianeta Terra. Per poterlo apprezzare, è necessario visitare tutte le sezioni, da quella di mineralogia a quelle di teratologia, di paleontologia, di astronomia. Oltre che museo, è anche Osservatorio faunistico della provincia di Lecce Centro di recupero della fauna selvatica, accoglie e cura animali esotici abbandonati dai proprietari o trovati in precarie condizioni come fauna selvatica e tartarughe marine. Il museo dispone di uno staff di studiosi altamente qualificati che, oltre a organizzare regolari spedizioni scientifiche per lo studio della fauna, soprattutto in Africa, intrattengono rapporti di collaborazione per la ricerca scientifica con università e organismi nazionali e internazionali (Gabon, Kenia, Uganda in Africa e Costa Rica in Sud America).

Nel centro storico di Calimera, in una caratteristica “casa a corte” che è “contenuto”, oltre che “contenitore”, il punto di incontro con la cultura locale è, dal 2003, la “Casa-museo della civiltà contadina e della cultura grika”, realizzata dal Circolo Arci Ghetonìa (Vicinato, ingriko), che dal 1985 si occupa di ricerca, valorizzazione e promozione del territorio: non solo oggetti di tradizione, ma biblioteca, emeroteca, raccolta di video, cd, consentono di conoscere l’anima di un popolo.

Quale futuro per il Griko?

Il flusso migratorio greco verso il Salento, secondo gli studiosi, si colloca in epoca antica (Magna Grecia) e durante la dominazione bizantina, con l’arrivo durante l’VIII secolo di religiosi greci che vi diffusero la cultura, la lingua greca, celebrando secondo il rito ortodosso. Ai bizantini subentrarono i normanni, gli svevi, gli angioini, gli aragonesi e gli spagnoli. Tempi difficili per il clero greco che restò attivo nelle sole zone di Otranto, Gallipoli, Nardò e Calimera. I monaci cattolici scalzarono gli ortodossi e anche la lingua greca fu pian piano soppiantata dal latino, anche se battesimi e matrimoni furono ancora celebrati con rito greco per tutto il ‘700. Dopo la seconda guerra mondiale, sia a causa dell’ emigrazione, sia per la diffusione dei mezzi radiotelevisivi, il numero dei parlanti è diminuito. Negli ultimi decenni, sono stati avviati vari progetti per preservare e promuovere la cultura e la lingua grika. Con legge dell’8 giugno 1990 n. 142, fu istituito ufficialmente il Consorzio dei comuni della Grecìa Salentina. Dal 2001 è l’Unione dei Comuni della Grecìa Salentina a coordinare iniziative culturali, educative e turistiche per valorizzare questo patrimonio unico, cercando di coinvolgere anche le giovani generazioni nella riscoperta delle proprie radici. Ma la lingua grika, trasmessa solo oralmente di generazione in generazione, potrebbe sopravvivere attraverso una sua metamorfosi: da tradizione orale potrebbe diventare lingua scritta; essere codificata e organizzata nelle sue regole morfologiche e sintattiche e resa disponibile per essere insegnata e appresa.

A provarci fu  Franco Corlianò. Autore di libri, canzoni e poesie, oltre che pittore, è stato uno dei pilastri della cultura grika. La sua canzone “Klama”, conosciuta come “Andramu pai” sul dramma dell’emigrazione, fu resa celebre dalla cantante greca Maria Farandouri. Ma la sua eredità è il Vocabolario di Griko, un’opera di fondamentale importanza per la sopravvivenza della lingua ellenofona.

(Teresa M.Rauzino su L’Edicola per l’Italia 30 marzo 2025)