In uno scenario di rocce grigie su strapiombi profondi oltre 200 metri, a circa nove chilometri a sud-ovest dal centro abitato di Monte Sant’Angelo, si trova l’abbazia di Santa Maria di Pulsano, che su questo massiccio roccioso sembra stia a guardia del golfo di Manfredonia. Secondo la tradizione, verso la fine del VI secolo, la comunità degli Equizi edificò nel medesimo luogo un monastero, passato poi ai Cluniacensi e distrutto dai Saraceni.
Storia Nel 1128 San Giovanni Scalcione da Matera (Matera, 1070 – monastero di San Giacomo a Foggia 1139), dopo molte esperienze spirituali ed un lungo peregrinare, finalmente trovò la sua sede nell’antico e abbandonato monastero di S. Gregorio a Pulsano ribattezzandolo “Santa Maria di Pulsano”, lo ricostruì fondando la Congregazione benedettina degli Eremiti Pulsanesi.
Nel XII secolo l’abbazia conobbe il momento di massimo fulgore divenendo uno dei monasteri più potenti dell’Italia meridionale, grazie anche alle cospicue donazioni dei benefattori, tra questi anche sovrani quali Ruggero II d’Altavilla e Federico II, fu inoltre famoso centro miniaturistico. Il monastero di Pulsano nel 1177 entrò ufficialmente negli interessi della casa regnante con l’inclusione (insieme a quello di S. Giovanni in Lamis) nell’honor Montis Angelis concesso da Guglielmo II alla moglie Giovanna d’Inghilterra. Questo monastero nel medioevo ha svolto un ruolo di primaria importanza nella riorganizzazione del territorio e nella fondazione di nuovi centri del Gargano. La crescente fama dell’abbazia, divenuta meta ambìta di pellegrinaggio, condivise le sorti della congregazione pulsanese, che già nei primi decenni del XIII secolo manifestava i primi segni di decadenza.
Architettura La parte più significativa del complesso monastico è costituita dalla chiesa in stile romanico, la sua costruzione potrebbe collocarsi intorno al 1128, la tradizione ci tramanda la legenda seconda la quale la chiesa fu eretta in un luogo espressamente indicato dalla Vergine Maria, apparsa in sogno a Giovanni da Matera; fu utilizzata come abside una grotta, recuperando il sito di un probabile antico insediamento di monaci di sant’Equizio.
La chiesa ha una sola navata con volta a botte scandita da grandi archi trasversali su semipilastri vicini alle pareti, ha un bellissimo portale, a forma ovale, finemente decorato con rilievi zoomorfi ed antichi blasoni che presenta molte similitudini con il portale laterale dell’abbazia di San Leonardo di Siponto.
Lateralmente, due piccoli settori della grotta ospitano la tomba dell’abate Giordano (morto nel 1145) e un altare inglobato in una piccola costruzione in muratura dal tetto a spioventi. Gli elementi più pregevoli dall’abbazia sono molto probabilmente attribuibili ai lavori d’ampliamento che effettuò l’abate Gioele (1145 – 1177), a lui si devono l’ampliamento e la ricostruzione di gran parte delle fabbriche del monastero e della chiesa. La facciata della chiesa, rifatta in un periodo imprecisabile (forse in relazione con il terremoto del 1646, che arrecò gravi danni a tutto il complesso monastico) accorciò l’originaria lunghezza della navata di una campata. Questa importante modifica è verificabile osservando proprio il prospetto, sul quale sono stati riposizionati il portale d’ingresso originario, due finestre ed un oculo decorati con motivi vegetali. All’esterno dell’edifico sacro sono visibili in alto una mensola ed un capitello per lato che, “attraversando” la muratura, testimoniano la loro appartenenza agli ultimi pilastri presenti all’interno della chiesa.
Frammenti Scultorei Alcuni frammenti scultorei pregevoli e resti dell’arredo del monastero di Pulsano, sono conservati nel museo lapidario della Basilica di San Michele a Monte sant’Angelo, sono considerati opera degli stessi artefici attivi a Siponto, maestri foggiani che hanno operato sia in Capitanata che in Abruzzo (S. Clemente a Casauria, S. Pelino a Corfinio) nella II metà del XII secolo. Tra i frammenti scultorei conservati nel museo lapidario del Santuario micaelico ricordiamo La fontana lustrale che fino al 1971 risultava posta all’esterno dell’abbazia, presso l’ingresso sud-orientale.
La fontana si compone di un basamento, costituito da quattro figure zoomorfe accovacciate, intervallate da colonnine dotate di preziosi capitelli, e di una vasca, intorno alla quale si dispongono dieci protomi zoomorfe ed antropomorfe (lepre, montone, felini) e i fori per la fuoriuscita dell’acqua. Nella parte alta, costituita da una calotta che sovrasta la “coppa” e funge quasi da coperchio, quattro scene figurate ordinate su doppio registro, inserite in edicole con colonne angolari sostenute da protomi animali, i cui timpani sono affiancati dalle figure e dai simboli degli Evangelisti.
A parte le numerose lacune, maggiormente visibili in seguito alla ricomposizione, si riconoscono le raffigurazioni di Balaam sull’asina, accompagnato da un’iscrizione lacunosa [hic balaa(m) / hortante(m) / ter / …/…asellam] e sovrastato da una scena tradizionalmente indicata come la Natività (ma altrove come l’incontro tra Anna e Gioacchino, genitori di Maria, presso la Porta Aurea); poi la scena dell’Annuncio a Zaccaria della nascita del Battista (più probabilmente e semplicemente un’Annunciazione) sottostante alla raffigurazione di una mirrofora al sepolcro, sul quale campeggia la figura dell’angelo; ancora, San Pietro e San Paolo sovrastati dalla Crocifissione; e infine il miracolo di Mosè che fa scaturire l’acqua dalle rocce, accompagnato anch’esso da un’iscrizione assai lacunosa [p(er)cu…/hic moysis … fit unda] e sovrastato da una scena identificata come l’Ascensione. La fontana è probabile opera di maestranze operanti a Monte Sant’Angelo nel XII-XIII secolo.
L’icona mariana Fino al 1966 la chiesa di Pulsano ha custodito l’antica icona della Madonna con Bambino, tavola dipinta a tempera in seguito scomparsa e mai più recuperata. Essa raffigurava la Vergine Odegitria affiancata da angeli.
La chiesa abbaziale fu dedicata alla Beate Vergine Maria Madre di Dio e l’altare consacrato dopo i lavori, promossi dall’abate Gioele, il 30 Gennaio del 1177, da Papa Alessandro III. Il Papa, per l’occasione, traslò da Roma le sante reliquie di alcuni martiri romani come Lorenzo, Ippolito, Nicandro e Valeriano, il reliquiario (un cofanetto in bronzo) ed il sigillo papale in cuoio sono custoditi nella chiesa abbaziale. Il complesso monastico presenta grosse mura di cinta. Alla fine del XIV secolo l’abbazia garganica venne abbandonata del tutto ed i suoi beni dati in commenda a non residenti. Al cardinale Ginnasi (1586-1603) va il merito di aver restaurato il complesso monastico, così come attesta la presenza del suo stemma sul portale di accesso al monastero. Nella chiesa era custodita l’immagine della Madonna (foto sopra), realizzata verosimilmente nel XIII secolo secondo un tipo iconografico largamente diffuso in Puglia, che attirava ancora un certo numero di fedeli e pellegrini. L’irreversibile distruzione giunse nel 1646, quando un violento terremoto provocò la rovina degli edifici del complesso, nonché la perdita del suo prezioso archivi. Il monastero di Santa Maria di Pulsano fu sospeso nel 1806 e dopo un lungo periodo d’abbandono il 20 dicembre 1997 si è insediata una comunità monastica che è incardinata nell’arcidiocesi di Manfredonia ed è birituale latina e bizantina nell’espressione liturgica e spirituale. In questo luogo pieno di fascino non è difficile poter osservare falchi e corvi reali.
Bibliografia: • Cattedrali di Puglia – Alfredo Petrucci, Bestetti, Roma, 1976. • M. S. Calò Mariani – A. Ventura – A. Muscio – A. Altobella – J. M. Martin – P. Corsi – L. Pellegrini – U. Kindermann – E. Ciancio – A. Pepe – G. Onofrio – E. Catello – C. Laganara Fabiano, Capitanata Medievale, Claudio Grenzi Editore, Foggia 1998. • Alberto Cavallini, Santa Maria di Pulsano – il santo deserto garganico, Claudio Grenzi Editore, 1999 • S. Mola, L’area dell’abbazia di Pulsano, in Fragmenta. Il museo lapidario del Santuario di S. Michele del Gargano, a cura di S. Mola e G. Bertelli, Claudio Grenzi Editore, Foggia 2001, pp. 59-69.
Info:
L’8 settembre ricorre la festività della Madonna di Pulsano: i fedeli partono da Monte Sant’Angelo e raggiungono l’abbazia sul dorso di muli. Dal 1991 si è costituito il Movimento “Cristiani Pro Pulsano” associazione di volontariato formata da cittadini di Manfredonia e Monte Sant’Angelo che si prefigge di mantenere viva la memoria storica dell’antica Abbazia di Pulsano. Nel mese di agosto presso il monastero si tiene un Corso pratico d’iconografia. Ora il monastero ha anche una foresteria per ospitare un numero limitato di pellegrini per brevi periodi di ritiro.
Localizzazione. L’arcipelago delle isole Tremiti è composto da tre isole (San Domino, San Nicola, Capraia), un isolotto (Cretaccio) ed alcuni scogli. È collocato a 12 miglia marine al largo della costa settentrionale del Gargano, a livello del lago di Lesina. È un concentrato di bellezze naturali e di storia, sospeso sul mare azzurro e limpido dell’Adriatico. Le isole Tremiti sono raggiungibili; via mare da Rodi Garganico, Peschici, Vieste e Manfredonia (FG) e da Termoli (CB), con l’elicottero da Foggia.
La storia. Furono abitate sin dal neolitico. Il loro antico nome era “Insulae Diomedeae”, dall’eroe greco Diomede, che qui approdò di ritorno da Troia e vi trovò sepoltura. La leggenda vuole che Afrodite trasformò i suoi compagni in “diomedee”, rari uccelli di mare della famiglia delle procellarie che nidificano sui calcari di S. Domino. Qui morì esule Giulia, nipote di Cesare Augusto, Carlo Magno vi mandò in esilio Paolo Diacono. Il nome “Tremitis” compare per la prima volta nella cartografia medievale.
Nel 1045 alcuni monaci Benedettini di Montecassino eressero un monastero intorno alla chiesa dedicata a Santa Maria del Mare. In breve tempo l’abbazia estese i suoi possedimenti, con dipendenze che andavano dall’Abruzzo alla terra di Bari. Artefice di questa veloce crescita fu l’abate Alberico, il cui nome di origine germanica è forse in rapporto con la particolare protezione accordata al monastero dagli imperatori tedeschi. Durante il periodo in cui Alberico fu alla guida della comunità il monastero ospitò Federico di Lorena, cancelliere papale e futuro papa; nel 1058 vi sostò per breve tempo anche Desiderio di Montecassino, che ben presto considerò l’abbazia delle Tremiti una potenziale rivale della più antica e potente abbazia dell’Italia meridionale e cercò di impossessarsene col consenso dei Normanni. Nella lunga e accanita contesa tra i due monasteri Desiderio non riuscì però ad avere la meglio e l’abbazia delle Tremiti mantenne la propria indipendenza, limitandosi ad accettare, alla fine, una formale protezione da parte della casa madre di Montecassino. In epoca federiciana conobbe un periodo di decadenza. Nel XIII sec., dopo un’inchiesta per irregolarità disposta dal Papa e condotta dal Vescovo di Dragonara, l’abbazia fu ceduta ai monaci Cistercensi di San Bernardo provenienti dal monastero di Casanova nella diocesi abruzzese di Penne, che l’ampliarono e la fortificarono con l’aiuto del Re Carlo I D’Angiò.
Dopo la conquista e spoliazione ad opera dei pirati essa rimase abbandonata per lungo tempo. All’inizio del sec. XV Papa Gregorio XII la diede ai Canonici Regolari Lateranensi, che la restaurarono in ricco stile rinascimentale, trasformando l’esterno in una possente fortezza e riportandola all’antico splendore. Nel XVIII sec. l’abbazia fu soppressa e l’isola divenne una colonia penale.
Gli abitanti, circa 100 tra pescatori e contadini nel periodo invernale, invece in estate le isole si popolano di tremitesi che vivono a Termoli e di molti turisti, la gente del posto parla un dialetto che deriva da quello partenopeo come discendenti dei napoletani, che furono deportati, nel 1843, da Re Ferdinando II.
Riserva Marina. Dal 1989 l’arcipelago, d’acque limpide e frastagliata costa ricca di grotte, è riserva naturale marina.
Gli ambienti.
San Nicola. L’isola di San Nicola con i resti dell’abbazia fortificata è sicuramente la più interessante dal punto di vista storico e artistico, a tale proposito mi piace ricordare che lo storico dell’arte francese Émile Bertaux, visitando l’Italia del Sud tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, la battezzò con il nome di «Montecassino in mezzo al mare», infatti il primo insediamento monastico è stato quello dei monaci Benedettini di Cassino (Chartularium Tremitense).
L’isola è lunga km 1.6 e larga m 450, con massima elevazione di m 75. San Nicola di Tremiti è il centro storico ed amministrativo dell’arcipelago. Cinta di mura e con un Castello trasformato nel sec. XV, ha in alto, la chiesa di Santa Maria al Mare, consacrata nel 1045 dal vescovo di Dragonara, con l’annessa abbazia. L’intero complesso è stato diverse volte rimaneggiato ed ampliato dai religiosi che l’abitarono, fino a raggiungere dimensioni sproporzionate, in rapporto all’esiguità dell’isola.
La chiesa, nella facciata principale, presenta un portale rinascimentale i cui rilievi sono opera di scultori dalmati.
La Chiesa è ben conservata, ha un impianto a pianta rettangolare a 3 navate con un doppio deambulatorio. L’edificio ha, inoltre, una loggia al piano superiore. La particolare originalità dell’impianto planimetrico è data dalla presenza al centro di una vasta aula quadrata che presenta su ciascun lato tre monumentali arcate cieche che inquadrano altrettanti archi passanti di minore altezza sormontati da monofore. I pilastri che li sostengono hanno forma polilobata con due semicerchi ai lati di un nucleo quadrato. Sul lato aperto verso il coro lo schema doveva essere ripetuto. Attualmente un grande arco trionfale a sesto acuto segna il passaggio al coro, in cui ancora visibile è l’antica abside centrale. L’intero edificio venne ricoperto da un tappeto musivo di cui rimangono significativi resti.
I frammenti musivi rimasti sono dislocati in vari punti dell’edificio. Quasi intatto il tappeto che riveste lo spazio quadrangolare al centro (sec. XI-XII). I mosaici sono costituiti da piccole tessere di circa un cm di lato di marmo bianco pentelico, giallo di Siena, palombino di Subiaco, nero di Mattinata disposte ad opus tessellatum, alternati a piccoli inserti di opus sectile.
Sull’altare maggiore è collocato un polittico ligneo intagliato e dorato, opera goticizzante di fattura veneta della metà del 1400 di particolare pregio.
Di notevole pregio è anche il Crocifisso su tavola, è una grande tavola con una croce lignea dipinta che misura 3,44 m di altezza e 2,58 m di larghezza. Sulla tavola, oltre al Cristo crocifisso, vi sono raffigurati anche la Vergine e l’Apostolo Giovanni. Secondo gli storici dell’arte la tavola è attribuibile alla scuola pisano-lucchese di autore ignoto dell’XI-XII sec. Il pregiato Crocefisso è in stile bizantino ed è molto simile a quello che si venera nel Duomo di Spoleto.
Sul lato sinistro del presbiterio c’è la statua lignea “S. Maria a Mare”, che rappresenta la Vergine Maria con il bambino, i volti sono abbronzati e ciò rivelerebbe ancora influssi di tipo bizantino.
Dietro la chiesa, si trovano i resti di due chiostri; uno gotico e l’altro rinascimentale, ancora dopo si trovano la biblioteca del monastero ed alcune sale. Al centro del primo chiostro c’è un pozzo decorato che attingeva acqua da una cisterna di raccolta sotterranea.
San Domino. La maggiore isola dell’arcipelago con lunghezza km 2.8 e larghezza 1.7, massima elevazione m 116, è ricoperta da una pineta che in molti punti giunge fino alle rocce, che vanno a strapiombo sul mare. Lungo la costa si possono visitare in barca numerose grotte: in particolare, nel tratto sudorientale, la grotta del Sale e la grotta delle Viole, che nelle prime ore del mattino presenta riflessi violacei; nel tratto occidentale, la grotta del Bue Marino, profonda circa 70 metri, dove un tempo si segnalava la presenza della foca monaca.
Tra San Nicola e San Domino si alza dal mare il Cretaccio, isolotto di creta giallastra.
Capraia. Lunga. km 1.6 e larga m 600, sta a nord dell’isola di S. Nicola ed è disabitata; le rocce sono coperte da una vegetazione a cespugli di cardi, capperi, artemisia.
Bibliografia:
Émile Bertaux, L’art dans l’Italie méridionale: De la fin de l’empire romain à la conquête de Charles d’Anjou. Tome premier. Tome premier, Volumi 1-2. – A. Fontemoing, 1904
Mac Clendon, The Church of S. Maria di Tremiti and its Significance for the History of Romanesque Architecture, in «Journal of the Society of Architectural Historians», 43 (1984), 1, pp. 5-19.
Radicchio, L’isola di San Nicola di Tremiti, Bari 1993.
P. Belli D’elia, Espressioni figurative protoromaniche nella Puglia centrale: il ‘mosaico del grifo’ della cattedrale di Bitonto, in Bitonto e la Puglia tra Tardoantico e Regno normanno, Atti del Convegno (Bitonto 15-17 ottobre 1998), a cura di C.S. Fioriello, Bari 1999, pp. 171-192.
Erica Morlacchetti, L’abbazia benedettina delle isole Tremiti e i suoi documenti dall’XI al XIII secolo, Volturnia Edizioni, 2015.
Donatella Langiano, Isole Tremiti, Polaris, 2020.
Isole Tremiti – Storia arte cultura e ambiente nella Riserva Marina dell’arcipelago, Claudio Grenzi Editore 2023.
La rielaborazione dell’età di Mezzo attraverso alcune celebri pellicole cinematografiche
1. Medievalismi nel Cinema. Dalle origini ad oggi: alcuni esempi
Il Medioevo che approdava nei Cinema e in televisione a partire dagli ultimi anni del XIX secolo, vantava già una lunga “carriera” di rappresentazione tra i diversi canali comunicativi ed artistici d’età moderna (giornali, letteratura, pittura, architettura, poesia).
Nel corso dell’Ottocento, come già è stato accennato in alcuni articoli precedenti, il gusto per il Medioevo si diffonde in tutta l’Europa romantica: l’architettura neo-stilistica ne resta uno degli esempi più significativi, a sua volta declinata in una moltitudine di varianti nazionali e regionali; gli stili liberamente ispirati alle monumentalità del passato medievale, come il neogotico, il neoromanico, il neomoresco, l’eclettismo, divengono il simbolo della borghesia emergente, uno status symbol o tratto distintivo della nobiltà regale, che vuole sottolineare le proprie origini medievali, o ancora espressione del potere monarchico – restaurativo (in tal senso si pensi ai restauri di monumenti ed edifici pubblici del Medioevo, promossi dai sovrani ottocenteschi, come Carlo Felice Savoia ad Hautecombe, Ferdinando I di Borbone a Palermo con i restauri decennali della Cattedrale e del Palazzo Reale, il restauro in stile neogotico del Duomo di Colonia finanziato dalla Corte prussiana di Federico Guglielmo IV) (1).
Come non citare, in questo contesto, l’architetto del secolo, Viollet-Le-Duc (1814-1879), autore dei restauri integrativi e “neomedievali” francesi (fortemente inventivi, ricostruttivi e rielaborativi) di Notre-Dame, del Castello di Pierrefonds, della cittadella fortificata di Carcassone, della Sainte Chapelle di Parigi, ispiratori dei fantasiosi castelli delle fiabe Disneyane (2).
Questo interesse crescente per il Medioevo e il suo ruolo “mitopoietico”, di generatore di miti e storie patrie, nazionali, viene largamente promosso, esaltato e diffuso dalla letteratura, come il romanzo storico di Walter Scott, inaugurato con il Waverley (1814), la narrativa gotica, da Horace Walpole (The Castle of Otranto, 1764) a Lewis (The Monk, 1796), nonché dalla riscoperta e la traduzione (spesso vere e proprie rielaborazioni) dei poemi epici e dei romance d’età medievale, come il Parcival e Nibelungenlied, recuperati da Bodmer negli anni Cinquanta del Settecento, che ispireranno i drammi musicali di Richard Wagner (La Tetralogia L’anello del Nibelungo, 1848-1876), le ballate popolari inglesi raccolte da Richard Hurd nelle Reliquies of Ancient English Poetry (1762), i Canti di Ossian (1760), di James Macpherson, in realtà una libera interpretazione di poesie gaelico – scozzesi d’età medievale, tutte opere che puntavano a dimostrare la superiorità dell’epica medievale d’area germanica e nord europea rispetto a quella classica, latina e mediterranea (3).
Ma l’età medievale fu anche sentita e rappresentata come una dimensione utopica, da attualizzare, sognare e rivivere: è il caso di William Morris (1834-1896), poeta inglese, romanziere, pittore, editore e, soprattutto, fondatore delle “Arts and Craft”, movimento artistico ispirato liberamente alle Corporazioni d’Arti e Mestieri medievali, che faceva suoi i principi attribuiti dallo stesso Morris e dai suoi antesignani Pugin e Ruskin, all’arte e al lavoro delle maestranze dell’età di mezzo, ovvero il corporativismo, l’idea di un’etica cristiana nell’arte, la legittimità e piena dignità stilistica del prodotto d’artigianato, che è frutto non soltanto di un’operazione e abilità manuale, ma anche del valore, delle virtù del suo produttore (4).
In tal senso il Medioevo morrisiano diventava una valida e attuabile alternativa al mondo moderno, delle macchine, delle fabbriche e dell’industrializzazione, un contraltare luminoso ad una realtà colpevole di standardizzare la produzione artistica e rendere statico, senza valore, il prodotto dell’uomo. La “Morris e Co”, nata in seno al movimento “Arts and Craft”, che comprendeva, oltre il già citato Morris, Dante Gabriele Rossetti, Edward Burne Jones, Madox Brown e Philip Webb (tutti artisti parte della Confraternita dei Preraffaelliti, associazione di pittori interessati a rievocare ed esaltare nelle loro opere temi cavallereschi, arturiani, shakespeariani, che trovavano negli Idilli del Re di Tennyson, del 1885, la loro resa letteraria), specializzata nella produzione di tessuti, carte da parati, arazzi, vetrate decorative, con soggetti e temi di ispirazione medievale, sarà d’esempio per la società bolognese “Aemilia Ars”, di Alfonso Rubbiani (1848-1915), protagonista di un revival stilistico neomedievale in Emilia Romagna (4).
Un’immagine romantica di Medioevo, ricreato ulteriormente nel corso del Novecento (seppur spogliato dei suoi accenti risorgimentali e scenografici, confluito nel Liberty con accenti più decorativi ed estetici), ed entrato potentemente a far parte dell’immaginario collettivo occidentale, a tal punto da influenzare i mass-media, la cultura pop, la musica, le mode e le rievocazioni storiche della nostra contemporaneità, le quali, a loro volta, ne ripropongono un’immagine, una rappresentazione idealizzata, ben poco filologica, ma fantasy, mitica, o apocalittica, connessa soltanto a determinati aspetti, particolarmente suggestivi o emotivi dell’età di mezzo (5).
Sin dalle prime esperienze del XX secolo il Cinema ha rappresentato una delle principali fabbriche dell’immaginario medievale; a tal proposito, impossibile non citare il film muto L’Inferno(1911) ispirato alla Divina Commedia dantesca, prodotto dalla “Milano films” e diretto da Bertolini, Giuseppe de Liguoro e Adolfo Padova; Giovanna d’Arco (1913), con la regia di Ubaldo del Colle, prodotto da “Savoia films”, primo lungometraggio muto dedicato alla condottiera francese; l’horror tedesco Nosferatu il vampiro(1922), diretto e prodotto da Friedrich Murnau, ispirato al celebre romanzo gotico Dracula di Bram Stocker (1897), pellicola intrisa da quelle suggestioni medievaleggianti e neogotiche, un Medioevo oscuro, tenebroso caratterizzato da castelli imponenti e temibili, guglie spaventose e creature del folklore medievale; ed infine due film del 1913, entrambi dal titolo Ivanhoe ed ispirati all’omonimo romanzo di Scott, uno statunitense, con la regia di Herbert Brenon, l’altro inglese, diretto da Leedham Bantock[1].
Fig. 1. Re Theoden (interpretato dall’attore Bernard Hill, scomparso recentemente), Re e Signore di Rohan ne Il Signore degli Anelli. Il Ritorno del Re (The Lord of the Rings. The Return of the King, 2003), incarna i valori cavallereschi e l’etica cortese dell’Eroe della letteratura medievale (Ciclo bretone, romance, epica altomedievale).
Sono questi alcuni illustri precursori delle produzioni cinematografiche occidentali successive, in particolare di quelle figlie dell’industria hollywoodiana, espressione di una cultura americana innamorata, sin dalla seconda metà del XIX secolo, dei miti del Graal, del Ciclo Bretone, del Medioevo simbolico e arturiano dei Preraffaelliti, di eroi leggendari come Sir Gawain, Prince Valiant, Sir Kay della Tavola Rotonda e Robin Hood illustrati, fra gli altri, da Howard Pyle (1853-1911) ed Harold Foster (1892-1982) [2].
In questo processo un ruolo di primo piano spetta ai prodotti dell’americana Walt Disney, ispirati al ciclo arturiano, alle fiabe dei fratelli Grimm e ai castelli neogotici e suggestivi di Ludwig II di Baviera: Snow White andthe Seven Dwarfs (Biancaneve e i sette nani, 1937), Sleeping Beauty (La bella addormentata nel bosco, 1959) Cinderella (Cenerentola, 1950), The Sword in the Stone (La spada nella roccia, 1963), The Hunchbackof Notre Dame (Il gobbo di Notre Dame, 1996) sono film d’animazione che rappresentano il tentativo degli Stati Uniti, innamorati dei romanzi storici di Walter Scott e delle leggende arturiane della madrepatria, di appropriarsi di un’età che storicamente non è mai appartenuta loro ma nella quale, trasfigurandola, sognandola e immaginandola, trovano la loro nuova identità e legittimazione [3].
Tra le produzioni statunitensi ricordiamo Excalibur (1981) di John Boorman, ispirato alle storie del Ciclo Arturiano descritte da Thomas Malory nel XV secolo, L’armata delle tenebre (Army of Darkness, 1992), film che alterna viaggi nel tempo e comicità demenziale ad ambientazioni, trame e scenografie che ritraggono un Medioevo magico, truculento e splatter, del regista Sam Raimi; il colossal Braveheart(1995) di Mel Gibson, ispirato alla figura di William Wallace ed alla sua rivolta del XIII secolo, romanzata, contro Edoardo I per l’indipendenza della Scozia dall’Inghilterra (il film, lontano dall’essere una ricostruzione storicamente fedele, sottolinea tematiche originali e rielabora diversi aspetti della vita del condottiero, come la lotta per la libertà, la vendetta personale del protagonista in nome della moglie violata e assassinata, che diventa la ribellione di tutto il popolo scozzese, ferito nelle sue aspirazioni, il peso delle scelte dei padri sui figli o sugli eredi, l’onore ferito e difeso, l’eroismo e la lotta mortale per una causa giusta e identitaria) – il William Wallace interpretato da Gibson, emblema della libertà e del patriottismo, anche grazie al vasto successo ottenuto dalla pellicola, è diventato il simbolo degli indipendentisti scozzesi, approdati al Referendum per l’Indipendenza della Scozia nel 2014 dal Regno Unito (che ha visto la vittoria del No, pur con un piccolo divario percentuale rispetto al Sì mentre, recentemente, la figura di Wallace è stata ripresa e simpaticamente sovrapposta a quella di Mancini nella copertina del giornale scozzese “The National”, per supportare la Nazionale di calcio dell’Italia nella partita contro l’Inghilterra; infine, si ricordi anche l’avventuroso Il settimo figlio (The Seventh Son, 1999) di Bodrov[4].
Fig. 2. Mancini novello William Wallace, ideale difensore dell’onore e delle aspirazioni indipendentiste scozzesi, nella versione dell’eroe scozzese interpretata da Mel Gibson in Braveheart (1995), sulla copertina del “The National Scotland”, 10 luglio 2021.
Per non parlare, poi, dello sterminato filone di film debitori dell’immaginario templare, ispirati alle Crociate o alla cerca del Graal – si citino soltanto, a titolo esemplificativo, Le Crociate – Kingdom of Heaven (2005) di Ridley Scott, Outcast – L’ultimo templare(2014), di Nick Powell, con Nicolas Cage nelle parti del protagonista, Ironclad (2011) di Jonathan English[5].
Fuori dai confini statunitensi certamente da citare Il Settimo sigillo(Det sjunde inseglet)di Ingmar Bergman (1957), celebre per la famosa partita a scacchi con la Morte, sfidata dal cavaliere e crociato Antonius Block, ambientato in un Medioevo nord-europeo, dove imperversano peste, povertà e ansie millenaristiche; di produzione inglese si ricordino Sword of the Valiant – The Legend of Sir Gawain and the Green Knight (1984) di Stephen Weeks, ispirato al celebre romance anonimo Galvano e il Cavaliere Verde, risalente al XIV secolo (nel film il ‘Green Knight’ è interpretato da Sean Connery); Enrico V (1989) di Kenneth Branagh, basato sull’omonima opera di William Shakespeare; il film di produzione francese Giovanna d’Arco(The Messenger: The Story of Joan of Arc, 1999), di Luc Besson, naturalmente ispirato alla figura dell’eroina francese (in un esaltazione dei suoi tratti devozionali, della sua fede, abnegazione e coraggio); infine il tedesco Codice Carlo Magno(Die Jagd nach dem Schatz der Nibelungen, 2008) del regista Ralf Huettner, tratto dall’epica germanica e dalla Cerca del mitico Tesoro dei Nibelunghi.
Il cinema italiano, tra gli anni Sessanta e Settanta, ha interpretato in maniera del tutto originale il Medioevo, rivestendolo di toni e aspetti pauperistici, popolari, irriverenti: impossibile non citare L’armata Brancaleone (1966) e il rispettivo sequel, Brancaleone alle crociate(1969), in cui Mario Monicelli mette in scena un Medioevo comico, ignorante e povero, ed in cui l’eloquente protagonista, pur animato da sane virtù, rappresenta una grottesca parodia del tipico cavaliere-eroe medievale (ancor di più, è una critica alla propaganda fascista ed a quella parte di Destra italiana che ad essa si richiamava nel Secondo Dopoguerra e negli anni Sessanta)[6]. Interessante è anche il punto di vista di Pier Paolo Pasolini che, qualche anno dopo, rappresenta, nella sua Trilogia della vita (1971-1974) – composta da Il Decameron, I racconti di Canterbury e Il fiore delle Mille e una notte– un Medioevo “senza veli”, che diviene un’accesa critica alla società ipocrita e bigotta in cui egli stesso vive ed opera [7].
In questo processo, senza dubbio, spetta al genere fantasy il merito di aver influenzato la nascita dell’immaginario medievale, che oggi permea la cultura occidentale, quello che Renato Bordone ha definito il «quarto Medioevo»[8], in riferimento ai tre “Medioevi” teorizzati precedentemente da Mariateresa Fumagalli (barbarico, della rinascita e dialettale) [9].
Proprio il genere fantasy, ha fatto di ambientazioni medievaleggianti, personaggi arturiani, eroi, creature fantastiche (come draghi, maghi, satiri, nani) e cicli narrativi tratti da romance bassomedievali, dalle Chanson de Geste, dall’epica del Nord Europa, il proprio tratto distintivo, nelle sue diverse declinazioni, sin dagli esordi ottocenteschi, con i romance e i poemi di William Morris, ispirati allo stile e ai temi del Ciclo Bretone e dell’epica nordica, o LaPrincipessa e i goblin di George McDonald (1872), oppure nella sua forma alta ed epica, si pensi all’opera magna di John Ronald Reuel Tolkien, Il Signore degli Anelli(The Lord of the Rings, 1954-1955) o alla Saga di Terramare (The Earthsea Cicle,1968-2001) di Ursula Le Guin, o, infine, nella sua veste più violenta e cruda, quella delle Cronache del Ghiaccio e del Fuoco (A Song of Ice and Fire, 1996 – in corso) di George R. R. Martin, erede, per certi versi, del barbaro e brutale universo medievaleggiante di Conan The Barbarian ideato da Robert Ervin Howard, padre dei racconti sword and sorcery [10].
Il Medioevo, dunque, sia quello rielaborato nel corso dell’Ottocento romantico, ma anche quello delle fonti letterarie, è diventato la patente di legittimità dei romanzi fantasy e delle produzioni cinematografiche e televisive che a tali racconti di genere si sono ispirate: come non citare la fortunata trilogia de Il Signore degli Anelli (The Lord of the Rings), di Peter Jackson (2001,2002,2003), che ha contribuito ad alimentare il famoso “caso Tolkien”, ma anche a stimolare la diffusione di società di amatori e appassionati dell’opera filmica e del romanzo, specie presso le nuove generazioni [11]; o ancora le Cronache di Narnia – Il leone, la strega e l’armadiodi Admson (2005), ispirato all’omonima opera magna di C. S. Lewis, amico e collega di Tolkien, intrisa di allegoria e simbolismo cristiani [12]; o, infine, la stessa serie de Il Trono di Spade (Game of thrones, 2011-2019), conclusa qualche anno fa, ispirata alle già citate Cronache di Martin [13].
Il fantasy, concludendo, specie quello alto-epico, si presenta come una rielaborazione di temi, cicli e modelli letterari che hanno origine in età medievale: si pensi alle creature fantastiche, che popolano l’immaginario fantasy, come elfi, draghi, troll, negromanti, rielaborati (anche nella funzione, nel ruolo più complesso che svolgono) proprio da poemi e romance del Medioevo (il poema epico del Nord Europa, il Beowulf e il SirGawain and the Green Knight, ad esempio, sono fra i modelli ispiratori dell’opera tolkieniana); ma si pensi anche alla presenza di castelli neogotici e agli assedi distruttivi, mortali, che compaiono in queste opere, che reinventano i grandi assedi del passato, a loro volta resi iconici dalle pellicole cinematografiche e consegnati alla cultura popolare (in modo diverso, ad esempio, l’assedio di Approdo del Re e l’assedio Minas Tirith ricordano i tentativi di conquista ottomana di Costantinopoli, e la sua finale caduta nel 1453); infine, alcuni cicli narrativi, come il viaggio circolare dell’eroe protagonista (spesso un vero e proprio antieroe, come nel caso di Frodo), che diviene il Viaggio di espiazione non soltanto del singolo individuo, ma dell’intero genere umano, e la comparsa di luoghi mistici come la foresta o boschi incantati, luoghi di passaggio narrativo ma anche di transizione e maturazione per l’eroe che li percorre – è così nel caso della Foresta di Fangorn del Signore degli Anelli,dalla quale Merry e Pipino emergono cambiati, interiormente ed esteriormente, mentre nella stessa “i tre cacciatori”, Legolas, Gimli e Aragorn, dopo l’incontro soprannaturale con lo stregone Gandalf, acquistano un ruolo più alto ed importante all’interno della storia, ma la foresta è anche quella del Trono di Spade, dimora dei giovani e longevi Figli, custodi della Natura e della magia primordiale, nonché sede di arcani segreti e magie oscure, “deviate”, rappresentate dai terribili Estranei [14].
Fig. 3. Locandina del film horror – fantasy L’armata delle tenebre (Army of Darkness, 1992). Ash (Bruce Campbell), paradossale e comico antieroe armato di fucile a canne mozze e di una motosega utilizzata come protesi, si trova catapultato nel XIV secolo, in lotta contro forze demoniache e in cerca del Necronomicon ex mortis (testo che è un richiamo agli scritti di H.P. Lovecraft), un millenario libro maledetto in grado di trasportarlo nel presente. Per riuscire nella sua impresa Ash dovrà muoversi tra contadini superstiziosi, maghi, dame, cavalieri arroganti in pesanti armature.
2. Da una celebre scena de Il Signore degli Anelli. Il Ritorno del Re (2003).
La cavalcata dei Rohirrim: l’ultima grande vittoria della Cavalleria “neomedievale” sul Male e la decadenza della Modernità
La Cavalcata di Rohan contro le orde di Mordor ai campi del Pelennor, messa in scena magistralmente nel terzo film della saga di Jackson, (The Lord of the Rings: The Return of the King, 2003) accompagnata dalle insuperabili colonne sonore di Howard Shore, rappresenta l’Ultima grande vittoria della Cavalleria, intesa sia come corpo militare, che come sistema (neomedievale) di valori cortesi, etici, spirituali, impersonati al loro massimo grado dal valoroso Re Theoden, Re-Cortese e Re-rinato.
L’Ultima grande vittoria prima del crollo del mondo antico e, di conseguenza, dei Valori umani e virtù militari, di fronte al trionfo, moderno, della Guerra tecnologica e macchinizzata, che schiaccia l’onore e la lealtà di fronte alla corsa per la vittoria, una nuova Guerra che rende un numero, un mero dato, il singolo individuo, cancella l’eroismo con lo scoppio di granate e colpi d’artiglieria.
Resta, il discorso del Re, riprodotto dalla pellicola di Jackson, la più alta manifestazione delle Virtù e dei Valori sempre validi, la fides, lo spirito di sacrificio, la lotta senza quartiere per una causa giusta, il coraggio e l’onore, che ci rendono uniti, pienamente Uomini, anche di fronte alla decadenza, al crollo, alla Fine del Mondo (in Tolkien la cavalcata di Theoden preannuncia una morte gloriosa in battaglia per la salvezza del Mondo, un’eredità dello stile narrativo dell’epica germanica, in linea con i temi e le imprese eroiche, pur nella caduta, degli eroi norreni.
L’episodio, nella sua forma letteraria, a mio avviso, è anche eco di un’altra celebre cavalcata, quella del tema musicale delle Valchirie della wagneriana Tetralogia L’Anello del Nibelungo, nella quale Brunilde si sacrificherà in un’ultima cavalcata verso le fiamme del Valhalla per porre fine alla Maledizione dell’Anello; nonostante lo stesso scrittore sudafricano si sia sempre opposto a qualsiasi tentativo di individuare relazioni e connessioni fra la sua e l’opera di Wagner, esistono, naturalmente, anche altre connessioni fra le due opere, come, del resto, profonde differenze: per Tolkien la “redenzione” e lo “spirito di sacrificio” salvifico dell’eroe non coincidono con la distruzione del mondo, come in Wagner, ma anzi in un suo risanamento, in una rinascita positiva che per essere tale non deve per forza comportare l’Apocalisse / Ragnarok o il “Crepuscolo degli Dei”.
Esclama Re Theoden, impavido, prima della sua epica ed ultima cavalcata (nella ricostruzione di Peter Jackson):
«Desti, desti cavalieri di Theoden!
Lance saranno scosse, scudi saranno frantumati!
Un giorno di spade, un giorno rosso prima che sorga il Sole!
Parole potenti, evocative e luminose, qui nella versione in lingua originale: «Arise, arise, Riders of Théoden!
Spear shall be shaken, shield shall be splintered,
A sword-day, a red day, ere the sun rises!
Ride now, ride now, ride!
Ride for ruin and the world’s ending!».
La Battaglia dei Campi del Pelennor (15 marzo del 3019 della Terza Era), arride, infine, agli uomini di Gondor e Rohan: tuttavia, la sconfitta delle orribili orde di orchi, troll, uomini del Sud al servizio del Male, di Sauron, seppur positiva, segna l’inizio luminoso di una Nuova Era, quella degli Uomini, destinata a decadere lentamente (da un punto di vista insieme spirituale che di “lignaggio”, concetti che in Tolkien coincidono) e, conseguenzialmente, inaugura la graduale scomparsa delle altre razze delle genti libere della Terra di Mezzo (Elfi, Nani, Hobbit, Ent) di fronte al successo e al rapido avanzare degli Uomini; scompariranno dalla Terra l’insieme di valori, usi, tradizioni di interi popoli, scompaiono l’Arte e la Bellezza delle Prime Ere. Progressivamente, al seguito della sconfitta dell’Oscuro Sire, verranno meno, nel mondo degli Uomini, coraggio, valori, lealtà, cameratismo cavalleresco, spirito di sacrificio per un Bene Superiore – Aragorn sa che questo tempo prima o poi verrà ed è esemplare, a tal proposito, il discorso con il quale, all’interno dell’ultimo capitolo di Jackson, esorta i suoi ultimi soldati e i membri della Compagnia riuniti, a lottare per la difesa della libertà, una chiamata all’ultima resistenza, espressa in un discorso che è frutto dell’inventiva del regista neozelandese ma anche della Speranza di un Re che, prima di tutto, è un Uomo:
«Figli di Gondor, di Rohan, fratelli miei! Vedo nei vostri occhi la stessa paura che potrebbe afferrare il mio cuore! Ci sarà un giorno, in cui il coraggio degli uomini cederà, e abbandoneremo ogni legame di fratellanza, ma non è questo il giorno!
Ci sarà l’ora dei lupi, e degli scudi frantumati, quando l’era degli uomini arriverà al crollo, ma non è questo il giorno! Quest’oggi combattiamo, per tutto ciò che ritenete caro in questa bella terra, io vi invito a resistere uomini dell’Ovest!» [16].
La sconfitta del Male genera, seguendo il corso degli eventi, la perdita di funzione rivestita da Minas Tirith e Rohan di “Sentinelle luminose” d’Occidente, a difesa degli uomini e delle genti libere della Terra di Mezzo, da difendere contro i poteri oscuri – poteri troppo grandi per essere affrontati individualmente o con le sole forze umane / fisiche. Sconfitto il nemico “esterno”, Sauron, questa funzione di sorveglianza, di guardia e vigilanza, cessa definitivamente, e il nuovo nemico diventa “interno”, dal momento che gli Uomini divengono i protagonisti incontrastati della Quarta Era (non a caso Tolkien, nel suo incompiuto The New Shadow – La Nuova Ombra –, che sarebbe dovuto essere il seguito della sua opera magna, Il Signore degli Anelli, incentrato sulla Quarta Era e il regno di Eldarion, figlio di Aragorn, attribuisce proprio all’Uomo la responsabilità diretta di un nuovo Male portato sulla Terra di Mezzo – il testo è incompiuto perché Tolkien considerava “noioso”, “poco interessante”, un mondo senza elfi o dove la loro magia si fosse estinta).
E’ il principio dell’Eucatastrofe, da Tolkien portato all’estreme conseguenze con esiti profondi e originali: la sconfitta del Nemico comporta una grave perdita. In questo caso al risanamento del mondo prima sotto il regno di Aragorn, poi di Eldarion, figlio suo e dell’Elfa Arwen, segue lo svilimento e il progressivo consumarsi della pura linea di sangue reale di Numenor, destinata a mischiarsi con linee di sangue minori e infine a scomparire, restando un ricordo nostalgico, retaggio glorioso del passato.
In questo senso è possibile associare la Cavalcata dei Rohirrim con le ultime azioni militari dei reparti di cavalleria degli eserciti europei e americani del Novecento: esempi celebri di eroismo antico, corpi militari che godevano di prestigio e rispetto, con un loro codice di valori e ritualità, che, però, è stato, nella maggior parte dei casi, destinato a infrangersi contro la durissima realtà dei fatti, quella delle trincee, dei carri armati, delle mitragliatrici, che contraddistinguono i nuovi campi, senza onore, della I e II Guerra Mondiale.
Si ricordino, a titolo esemplificativo, le cariche eroiche quanto spesso disastrose, del “British Cavalry Corps” ad Amiens, nel 1918, contro i tedeschi, oppure le azioni del reggimento “Fort Garry Horse” canadese, vincitore sui tedeschi a Gattigny, nell’ottobre dello stesso anno, o ancora le ultime due cariche della Cavalleria italiana sul fronte orientale durante la II Grande Guerra, quella del Reggimento “Savoia Cavalleria” del 24 agosto del 1942, condotta contro reparti regolari dell’esercito russo a IsburcenskiJ (Russia) presso il fiume Don, celebre per la vittoria italiana di 700 cavalieri armati di sciabola su circa 2500 fanti siberiani, alla quale segue, due mesi dopo, quella meno fortunata combattuta a Poloj, Croazia, dal reggimento “cavalleggeri di Alessandria” contro un gruppo di partigiani jugoslavi (17 ottobre del 1942), un’eroica carica che consentì al Regio esercito di rompere l’accerchiamento nemico a costo, tuttavia, di numerosissime perdite.
Fig. 4. e fig. 5. Scene tratte dalla pellicola Il Signore degli Anelli. Il ritorno del Re (The Lord of the Rings. The Return of the King, 2003).
BIBLIOGRAFIA
Sul tema del presente articolo e il cinema di ispirazione medievale, si veda in particolare il recente volume: Cinema e Medioevo, n. 600 della rivista «Bianco e Nero», a cura di Franco Cardini – Riccardo Facchini – Davide Iacono, Centro Sperimentale di Cinematografia, Sabinae, Roma, 2021. Si vedano, poi, in particolare i seguenti contributi all’interno del detto volume: Riccardo Facchini – Davide Iacono, Medievalismo, il nome della cosa. Il contributo del cinema alla rappresentazione, la ricezione e l’uso postmedievale del medioevo, in Cinema e Medioevo, a cura di Franco Cardini – Riccardo Facchini – Davide Iacono, 2021, pp. 10-26; Tommaso Di Carpegna Falconieri, Medioevo andata e ritorno. Viaggi nel tempo, da Mark Twain a Les Visiteurs, in Cinema e Medioevo, 2021, pp. 17-23; Francesca Roversi Monaco, Medioevo prossimo venturo. Distopie apocalittiche nella produzione audiovisiva contemporanea, in Cinema e Medioevo, 2021, pp. 24-29; Davide Iacono, Quelle bande così nere. Condottieri di celluloide: nazionalismo e medievalismo nel cinema di regime, in Cinema e Medioevo, pp. 43-50; Marina Montesano, Tremate, tremate… La stregoneria sullo schermo: fra medioevi immaginari e modernità atemporali, in Cinema e Medioevo, 2021, pp. 58-65; Nicolò Maggio, Conan: la spada e lo stregone. Middle Ages e fantasy: la rielaborazione del medioevo attraverso le saghe filmiche sword and sorcery, in Cinema e Medioevo, pp. 94-101; Roberta Capelli, Le colpe di Lancillotto e Ginevra. Trasposizioni cinematografiche della materia di Bretagna: tecniche di narrazione medievale e strategie di riscrittura contemporanea in Robert Bresson, pp. 110-115; Franco Cardini, Nota finale su cinema e medioevo. I film macchine del tempo, in Cinema e Medioevo, pp. 169-175. Si segnala, inoltre, la pagina web Cinema e Medioevo, link: https://www.cinemedioevo.net/, splendida iniziativa culturale del noto medievista Raffaele Licinio (scomparso nel 2018), catalogo ragionato (cronologico e alfabetico) di tutti i film sul Medioevo (ultimo aggiornamento: dicembre 2017). Il presente articolo inaugura la nuova sezione “Cinema e Medioeva” del rinato sito del professore Licinio.
[1] Per approfondire il rapporto tra Medioevo e cinema si veda: Vito Attolini, Immagini del Medioevo nel cinema, Bari, Edizioni Dedalo, 1993. Inoltre: Marco Brando, Medi@evo, Salerno Editrice, Roma, 2024.
[2]. Renato Bordone, Medioevo americano. Modelli scenografici e modelli mentali, «Quaderni medievali», 13 (1982), pp. 130-150.
[3]Calder Loth – Julius Sadler, The only proper style. Gothic architecture in America, New York-Boston, New York Graphic Society, 1975; Renato Bordone, Da Walpole a Steinbeck: l’influenza letteraria, in Lo specchio di Shalott, cit., pp. 163-171; Matteo Sanfilippo, Il Medioevo secondo Walt Disney. Come l’America ha reinventato l’Età di Mezzo, Roma, Castelvecchi, 1993, pp. 85-90; Renato Bordone, Editoria tra Ottocento e Novecento. Fumetto, in Arti e storia nel Medioevo, 2004, pp. 711-736; Pompeo Vagliani, L’immagine del Medioevo nell’editoria perl’infanzia tra Ottocento e Novecento, in Arti e storia nel Medioevo, 2004, pp. 673-692; Nicolò Maggio, Conan, la spada e lo stregone. Middle Ages e fantasy: la rielaborazione del medioevo attraverso le saghe filmiche sword and sorcery, in Cinema e Medioevo, 2021, pp. 94-101.
[4]. Ilaria Porciani, L’invenzione del Medioevo, in Arti e storia nel Medioevo, 2004, pp. 253-280; Antonio Musarra, Robin Hood, Brancaleone e il feroce Saladino. I film sulle Crociate: le “guerre sante” del passato e del presente, in Cinema e Medioevo, 2021, pp. 78-54.
[5]. Marina Montesano, Medioevo e medievalismo tra Europa e America. L’attualità di un dibattito antico, «Materialismo Storico», 1-2 (2016), pp. 280-296.
[6]Vito Attolini, Immagini del Medioevo nel cinema, cit., p. 47.
[7]. Nico Naldini, Pasolini, una vita, Einaudi, Torino, 1989.
[9]Mariateresa Fumagalli Beonio-Brocchieri, Il romanzo italiano «medievale» nell’ultimo decennio, «Quaderni Medievali», 21 (1981), pp. 59-54; Gianfranco De Turris, L’immaginario medievale nel fantastico contemporaneo, «Quaderni Medievali», 21 (1981), pp. 93-110.
[11]. Gianfranco De Turris, La compagnia, l’anello, il potere. J. R. R. Tolkien creatore di mondi, Rimini, Il Cerchio, 2002.
[12]. Clive Staples Lewis, L’immagine scartata. Il modello della cultura medievale, trad. it., Genova, Marietti, 1990.
[13]. Gianfranco De Turris, L’immaginario medievale, «Quaderni medievali», 21 (1986), pp. 93–98.
[14]. Enrico Giaccherini, Il Cerchio magico. Il romance nella tradizione letteraria inglese, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1984; Tommaso Carpegna Falconieri, «Anche se nei sogni è tutta illusion e nulla più». Una parola sul medievalismo, «PARADOXA», XIV (2020), 4, pp. 11-16.
[15]. Questa la versione letteraria, nella traduzione dell’Alliata (J.R.R. Tolkien, Il Signore degli Anelli, trad. it., Bompiani, Milano, pp. 2615-2616):
Testo di Stefania Mola – Ricerca iconografica di Alberto Gentile
Quello formato dalla chiesa di S. Pietro e dal battistero di S. Giovanni (insieme alla chiesa di S. Maria Maggiore) costituisce il secondo polo (dopo il santuario micaelico), legato al culto e alla devozione nella cittadina garganica consacrata all’arcangelo Michele.
La chiesa
Della chiesa di S. Pietro restano oggi in piedi solo la zona absidale e alcune tracce della struttura. Dell’edificio altomedievale, eretto probabilmente nell’VIII secolo, si parla per la prima volta nel testo del Liber de apparitione. In esso si dice che il vescovo di Siponto, tradizionalmente identificato con Lorenzo, fece costruire una chiesa intitolata al beato Pietro, principe degli Apostoli, in cui trovarono posto due altari dedicati rispettivamente alla Vergine e a S. Giovanni Battista.
Nell’area di S. Pietro (ristrutturata nell’XI secolo forse a seguito dei danni riportati nel saccheggio saraceno che interessò il santuario micaelico nell’869) si raccolse, tra la fine dell’XI e gli inizi del XII secolo, un complesso monumentale in cui trovarono posto altri due edifici, il battistero di S. Giovanni in Tumba e la chiesa di S. Maria Maggiore, collegati tra loro da un corridoio. Lo sappiamo dalla Vita di Lorenzo, altro documento della massima importanza per le vicende del santuario micaelico, scritto per la Vita minor agli inizi dell’XI secolo e per la maior entro la fine dello stesso secolo. In quest’ultima redazione emerge la presenza di tre edifici e non più della sola S. Pietro.
Tradizionalmente si è sempre ritenuto che l’area su cui sorgeva il S. Pietro più antico fosse da identificare con quella antistante l’abside oggi ancora visibile. Studi recentissimi basati sulla rilettura delle fonti, sull’analisi orografica dell’area nonché sull’individuazione di particolarità costruttive incongruenti relative al S. Giovanni in Tumba, hanno portato all’ipotesi che l’edificio altomedievale dedicato a S. Pietro, quello ricordato nel Liber de apparitione, potesse sorgere sull’area oggi occupata dal S. Giovanni. In seguito la dedicazione a S. Pietro sarebbe stata trasferita all’edificio costruito ex novo verso ovest; la vecchia chiesa – di dimensioni assai contenute – sarebbe stata dedicata a S. Giovanni Battista, diventando edificio battesimale in funzione del nuovo polo religioso che a sud avrebbe visto la costruzione della chiesa dedicata alla Vergine.
Il battistero
Il battistero di S. Giovanni – conosciuto come Tomba di Rotari a causa della scorretta interpretazione del termine tumba, che compare nell’epigrafe all’interno dell’edificio – fu fondato da un certo Pagano, originario di Parma ma residente a Monte Sant’Angelo, e da un Rodelgrimo, nativo del Gargano, entrambi rintracciati in un documento del 1109 che li identifica come cognati. Addossato in parte alla roccia, ed in parte incastrato nel volume absidale della chiesa a cielo aperto intitolata a S. Pietro, era probabilmente un edificio pertinente a quest’ultima; si tratta di un ambiente cubico absidato ad oriente, con le pareti incorniciate da robuste arcate concentriche a sesto acuto, su cui furono innestate – una sull’altra – una serie di forme geometriche irregolari rastremate verso l’alto: un prisma ottagonale, due cilindri a sezione ellissoidale ed infine una cupola intessuta ad anelli concentrici. Due ordini di finestre e tre cornici ne scandirono i piani ascendenti, fino a conferirgli l’aspetto di una massiccia torre campanaria d’Oltralpe.
Complessivamente le suggestioni culturali relative a questo tipo di edificio si rivelano assai eterogenee, tanto da aver suggerito – di volta in volta – rimandi alla tipologia dei mausolei fatimidi, delle cube siciliane e dei minareti islamici, nonché ricordi dei battisteri pertinenti alle chiese crociate di Terra Santa, delle costruzioni cupolate pugliesi e di esperienze borgognoni ed alverniati. La singolarità d’impianto e di mole suggerirono già al Bertaux di riconoscervi una sorta di torre campanaria edificata alla maniera pugliese ma secondo indicazioni filtrate proprio dalle esperienze borgognone.
Le continue oscillazioni della critica sulla destinazione d’uso del S. Giovanni coinvolgono un aspetto assai complesso che riguarda la tipologia dei battisteri e dei mausolei e le innegabili interrelazioni simboliche tra vita/rinascita e morte. Tipologicamente tra battisteri e mausolei sono sempre esistiti stretti legami, tanto dal punto di vista strutturale quanto da quello simbolico. Uno dei dogmi fondamentali della mistica del battesimo, basilare per il pensiero cristiano, è riferito nella Lettera di San Paolo ai Romani (6, 3-4), da cui si evince che il battesimo come rituale, oltre a comportare la cancellazione del peccato, porti insita l’idea di sepoltura e morte. Un’equazione mistica sembra realizzarsi tra battesimo, morte e risurrezione, intendendo per morte la morte del vecchio Adamo e una imitazione simbolica della morte di Cristo. Lo schema ottagonale, simbolo di risurrezione e rigenerazione, è l’elemento che lega il mausoleo dal punto di vista tipologico al battistero come luogo simbolico di risurrezione. La stessa motivazione fa degli edifici dedicati al Battista edifici ottagonali, a prescindere dalla presenza o meno di fonti battesimali. Non di rado questi sono edificati in aree cimiteriali, rafforzando l’equazione mistica che associa battesimo, morte e risurrezione. Si vedano, a questo proposito, le considerazioni di R. Krautheimer contenute in Introduction to «an iconography of mediaeval architecture», in Warburg Journal (1942) + Postkript (1969) + Postkript (1987), in Ausgewählte Aufsätze zur europäischen Kunstgeschichte (1988), il tutto tradotto in francese con il titolo Introduction à une iconographie de l’architecture médiévale, Paris 1993.
Un programma iconografico assai ricco ed articolato si dispiega sul portale, sui capitelli, sulle cornici, coinvolgendo angeli, scene dell’Antico e del Nuovo Testamento, nonché misteriosi personaggi con ruolo e presenza “esemplari” (e tuttavia non sempre espliciti), probabili allegorie dei Vizi e delle Virtù.
Il portale
L’ingresso al battistero avviene attraverso una piccola porta aperta a sinistra dell’abside di S. Pietro, di semplice forma architravata, ricavata nello spessore della muratura e sormontata da due blocchi scolpiti di materiale diverso sistemati in funzione di lunetta e di architrave.
Sul listello piatto che li divide appare un’iscrizione mutila, genericamente ripresa dalla Bibbia, e interpretata come allusione alla redenzione insita nel battesimo:
q petis h (sempre letto da tutta la critica come quod petis habebis, “ciò che chiedi avrai”)
La lastra superiore, in pietra calcarea, presenta due episodi della passione di Cristo (foto sopra): la deposizione dalla croce e la risurrezione (quest’ultima attraverso la doppia iconografia delle Marie al sepolcro e del Cristo risorto accanto alla tomba).
Al primo impatto la scena appare priva di qualsiasi rapporto armonico di simmetria ed equilibrio compositivo; gli episodi si susseguono senza cesure, al ritmo ondeggiante di una danza – nella quale è coinvolto anche il precario equilibrio della croce – evocando un sentore “primordiale” che rende le figure senza sguardo e senz’anima. Per quest’aria vagamente arcaica più volte sono state indicate le assonanze con le sculture rinvenute in S. Pietro ed ora nel museo del Santuario (un’Orante e una Madonna con Bambino acefala), ricollegando tutte queste espressioni plastiche al medesimo giro di cultura e di maestranze.
Dal punto di vista iconografico, la scena dominata da Cristo in croce fa riferimento ad un preciso momento nel contesto della deposizione, cioè la schiodatura di Gesù da parte di Nicodemo, momento su cui nessuno dei quattro vangeli “ufficiali” indulge in particolari superflui, nominando solo Giuseppe d’Arimatea ed identificandolo con colui che, richiesta l’autorizzazione a Pilato, portò via il corpo di Cristo per seppellirlo. Allo stesso modo, nessuno dei quattro testi specifica l’identità degli spettatori della scena, mentre solo nel vangelo apocrifo di Nicodemo si ricorda della presenza della Madonna. La tipologia della Deposizione fu fissata per la prima volta dall’arte bizantina, cui si ricollegò gran parte della produzione di età romanica. I protagonisti, riconoscibili anche nella rappresentazione di S. Giovanni in Tumba, sono Giuseppe d’Arimatea (colto nell’atto di sorreggere il corpo che di lì a poco verrà staccato dalla croce), Nicodemo (che con l’aiuto di una grossa pinza si appresta ad estrarre il chiodo dal palmo destro del Cristo), il discepolo prediletto Giovanni e la Madonna, che nella rappresentazione della Tumba appare relegata all’estremo margine sinistro. Sulla destra di questa scena possono essere agevolmente identificati il servo con l’aceto ed il centurione.
La scena riprodotta sulla parte destra della lastra (foto sopra) appare ancora più interessante: vi sono giustapposti Giuseppe d’Arimatea mentre conduce Gesù al sepolcro, un angelo recante nella mano sinistra una croce, rivolto verso le pie donne che avanzano reggendo ognuna un vasetto; sul registro di fondo vi è il sepolcro, affiancato da due colonne e sormontato da tre lampade in sospensione, accanto al quale appare il Cristo trionfante che lo indica con un ampio gesto del braccio destro. Qui il messaggio, evocato dalle pie donne in visita al sepolcro (la classica iconografia della Risurrezione), si avvale anche dell’inconsueta – ma ben evidente – presenza di Gesù stesso, concepito come scena autonoma e complementare al tema di fondo. Quasi una novità, se pensiamo che in Occidente, fino al sec. XI, la Risurrezione è stata rappresentata solo indirettamente, attraverso l’arrivo delle Pie Donne al sepolcro vuoto, in tutto e per tutto fedele alla lettura evangelica; solo più tardi – tra Due e Trecento – la figura del Cristo risorto rimanderà direttamente ad essa, secondo un’evoluzione ritenuta frutto di una contaminazione iconografica con scene analoghe (risurrezione di Lazzaro, risurrezione dei morti nel Giudizio Universale) che, pur essendo prefigurazioni del destino di Cristo, forniscono l’immagine al Cristo stesso. L’accentuata mimica gestuale dei personaggi, più volte sottolineata, trova qui una convincente giustificazione: la rappresentazione di Cristo stesso nella scena della Risurrezione, tipica del Romanico maturo, potrebbe avere un preciso punto di riferimento nelle sacre rappresentazioni del tempo. Ai topoi del dramma liturgico si rifanno con evidenza anche le caratteristiche stesse del sepolcro, che appare fiancheggiato da due colonne e poteva essere in origine sistemato sotto un baldacchino – che ne simboleggia la santità – come nella finzione scenica.
Diversamente dalla precedente, la lastra utilizzata in funzione di architrave è in marmo, come si evince anche dall’evidenza cromatica. Vi sono rappresentate sette figure di dimensioni tozze, condizionate dall’altezza limitata a disposizione dello scultore, avvolte in pesanti vestimenti solcati da pieghe cordonate. Al centro vi è Gesù, riconoscibile dal nimbo crociato, in posizione frontale, verosimilmente di statura maggiore resa attraverso l’artificio delle gambe divaricate che suggeriscono quasi un atteggiamento assiso “in maestà”; ai lati tre figure per parte, due delle quali – armate di bastoni – lo afferrano per la spalla e per il polso; sulla sinistra le altre due si muovono incedendo verso il centro (una di esse recando un libro) e una sulla destra reca la croce, l’ultima i chiodi destinati alla crocifissione. Dal punto di vista iconografico la scena viene tradizionalmente identificata con la cattura di Gesù nell’orto degli ulivi; di recente, però, è stata avanzata l’ipotesi che esista un doppio livello di lettura, nel quale si sovrappongono le allusioni alla doppia natura di Cristo, umana e divina, attraverso una serie di raffronti con la coeva liturgia eucaristica. Le tematiche della lunetta, dell’architrave e dei capitelli dell’interno svilupperebbero infatti una sorta di messaggio salvifico più adatto ad un mausoleo che ad un battistero, come si è voluto sottolineare confrontando certe caratteristiche del S. Giovanni in Tumba con quelle di alcune torri sepolcrali della Persia settentrionale. L’ipotesi di una ricostruzione e/o trasformazione in chiesa o battistero della primitiva fabbrica – avente una presumibile destinazione funeraria – sarebbe d’altro canto confortata da alcune evidenti incongruenze strutturali, quali l’incoerenza con il resto dell’edificio – nei modi costruttivi – della nicchia absidale.
I capitelli istoriati e le sculture erratiche Un’insolita fascia continua istoriata caratterizza l’interno della Tumba, in controtendenza rispetto alla consuetudine pugliese di privilegiare un’ornamentazione di tipo vegetale e comunque aniconico, soprattutto quando si tratti di capitelli.
Sono storie bibliche legate dalla comune presenza angelica (angeli nelle vesti di messaggeri e portatori delle volontà divine), come il sacrificio di Isacco (foto sopra) o l’annuncio ai pastori, tutte caratterizzate da un ritmo aspro ed angoloso e da una sorta di moto danzante, che la critica riconosce come tipico dell’esperienza delle forme plastiche aquitaniche (sud-ovest della Francia). In ogni caso è palpabile la partecipazione a nuovi orizzonti mentali, anche per la recuperata attitudine a proporre la scultura come strumento di racconto. Un racconto che sembra esprimersi compiutamente nelle scene della storia di Abramo, fissata nei due episodi fondamentali della filoxenia (Abramo saluta ed ospita i tre angeli, circostanza nella quale viene annunciata la futura nascita di Isacco) e del sacrificio di Isacco, perfetta prefigurazione della vicenda di Cristo secondo i nessi tipologici tanto cari al Medioevo.
Della parabola di salvezza e della vicenda terrena di Gesù, all’interno della quale Incarnazione e Crocifissione costituiscono i due pilastri, fa parte anche la scena riconoscibile nel capitello della parete sud-est, sulla quale si osservano una figura di profilo che muove verso sinistra con un cane al guinzaglio, levando una mano verso l’alto, seguita da una seconda figura che muove nella stessa direzione stringendo in una mano un bastone poggiato sul terreno. Entrambe le figure hanno lunghe capigliature, indossano ampie vesti pieghettate. Di prospetto appare un angelo riccamente abbigliato, recante nella sinistra una croce astile e benedicente con la destra. Completa la scena un gruppo di animali disposti su piani sovrapposti: un cane e alcune pecore. È chiara la raffigurazione dell’episodio dell’annuncio ai pastori, confortato dalla presenza sulla cornice dell’iscrizione annu(ntio) vobis gaudium magnum, secondo una formula che già compare in una formella della porta bronzea del santuario micaelico. Gli annunci ai pastori di età romanica molto spesso si rifanno ad antichi modelli di origine bizantina, come nel caso della Tumba che – fedele agli originali greci – riprende il numero di due pastori (e non tre, come in altri casi), di cui uno giovane e l’altro più anziano ad indicare – simbolicamente – che è l’umanità intera ad accogliere la buona novella. Interessante appare, nel modo di rappresentare gli animali per piani sovrapposti (quasi fossero oggetti inanimati), il riflesso di quella “paralisi” della natura che, secondo alcuni testi apocrifi, accompagnò il momento della nascita di Gesù. Nella tematica angelica e negli stringenti legami stilistici con la Francia è ravvisabile, in linea generale, l’intima connessione con le ragioni del pellegrinaggio che collegarono, sin dalle origini, i Normanni in veste di pellegrini e la montagna sacra garganica. A questo proposito è significativo che – secondo una tradizione – la dominazione normanna in Italia meridionale abbia preso le mosse da un pellegrinaggio al santuario di Monte S. Angelo; un episodio che, tramandatoci da Guglielmo Appulo, avrebbe fornito ai Normanni la legittimazione sufficiente ad inserirsi, di lì a pochi anni, nel conflitto tra Oriente e Occidente, impadronendosi del Sud nel ruolo di difensori della Chiesa. Nel percorso di salvazione non mancano gli ostacoli e i pericoli, ravvisati in alcune emblematiche raffigurazioni identificate, per le loro connotazioni negative, come vizi capitali.
Così accade per l’adiacente capitello occupato da una figura femminile ignuda, deforme, con gli occhi atterriti e lunga chioma sulle spalle; legata ad un nastro pende dal suo collo una borsa traboccante di monete. Quattro grossi serpenti la fiancheggiano, due all’altezza delle orecchie e due che le addentano le gambe; altre due creature mostruose si avviluppano ai serpenti, mordendole le braccia. Stilisticamente erede di una cultura più padana che francese, la si è voluta identificare con l’allegoria dell’Avarizia, anche se la sua presenza isolata in un contesto così lacunoso non permette di assegnarle coerentemente un ruolo preciso.
Cronologicamente più tarde rispetto alle figurazioni cristologiche presenti sui capitelli appaiono quelle presenti in corrispondenza della seconda cornice della cupola, a circa 16 metri di altezza dal suolo. Si tratta di tre rilievi ad essa sovrammessi raffiguranti altrettante figure muliebri accomunate – dal punto di vista iconografico – da una sorta di caratterizzazione “demoniaca”.
Da sinistra a destra: – una figura femminile in posizione eretta, avvolta in un ampio panneggio, con capelli lunghi fino alle spalle, sorregge all’altezza del petto un bambino disteso. Tra le tante interpretazioni, quella più suggestiva la identifica con la donna dell’Apocalisse, la donna «vestita di sole e di luna» che secondo la tradizione si trova a fronteggiare il drago a sette teste e dieci corna pronto a divorare il suo bambino appena nato. L’ipotesi non è da scartare a priori, sia per il collegamento con la presenza dell’arcangelo Michele (che nel testo apocalittico affronta il drago salvando la donna), sia per il suo valore simbolico (grazie al quale costituirebbe una sorta di pendant con la Natività di Cristo annunciata ai pastori su uno dei capitelli del piano terra) all’interno delle tematiche della caduta e del riscatto, fili conduttori di tutte le raffigurazioni della Tumba. Inoltre, il combattimento di san Michele con il dragone cela simbolicamente l’immagine del Battesimo e della rigenerazione;
– una figura femminile con lunghi capelli, in posizione sdraiata, alle prese con un serpente avviluppato a lei, raffigurato con la bocca spalancata nell’atto di addentarla al petto. Gli studiosi concordano nell’identificarla con l’allegoria della Lussuria, vizio capitale tematicamente ed iconograficamente affine all’Avarizia rappresentata su uno dei capitelli del piano terra.
– un rilievo parzialmente lacunoso con una figura femminile dalle lunghe chiome scarmigliate, in posizione distesa come avvolta nel torpore del sonno, addentata agli arti da una figura mostruosa. Per queste caratteristiche, nel tentativo di accomunarla a tematiche già presenti nella Tumba e più esplicite, alcuni studiosi l’hanno identificata con l’allegoria dell’Accidia.
DA LEGGERE: Liber de apparitione sancti Michaelis in Monte Gargano, MGH, Scriptores rerum Langobardicarum et Italicarum saec. VI-IX, Hannoverae 1878.
Per la chiesa di S. Pietro: M. Rotili, La diocesi di Benevento, in Corpus della scultura altomedievale, V, Spoleto 1966, pp. 103-106; L. Lotti, Problemi storici e artistici relativi al complesso monumentale di S. Pietro, della Tomba di Rotari e di S. Maria Maggiore in Monte Sant’Angelo, Bari 1978 (con bibl. precedente); M. Salvatore, Le sculture del museo del santuario, in Il Santuario di S. Michele sul Gargano cit., pp. 431-502; G. Otranto, Il “Liber de Apparitione” e il culto di S. Michele sul Gargano nella documentazione liturgica altomedievale, in «Vetera Christianorum», 18 (1981), pp. 423-442; Id., Il “liber de Apparitione”, il Santuario di S. Michele sul Gargano e i Longobardi del Ducato di Benevento, in Santuari e politica nel mondo antico, a cura di M. Sordi, Milano 1983, pp. 210-245; B. Apollonj Ghetti, La cosiddetta Tomba di Rotari sul Gargano ed i suoi rapporti con le chiese di S. Pietro e S. Maria Maggiore, in Storia e Arte nella Daunia medievale, Atti della I Settimana sui Beni Storico-Artistici della Chiesa in Italia. Area culturale della Capitanata (Foggia 26-31 ott. 1981), a cura di G. Fallani, Foggia 1985, pp. 161-177; P. Belli D’Elia, La Puglia [Italia romanica, 8], Milano 1987, pp. 393-404; G. Bertelli, Linee e tendenze artistiche della scultura paleocristiana e altomedievale della capitanata, in Contributi per la storia dell’arte in Capitanata tra medioevo ed età moderna. 1. La scultura, a cura di M.S. Calò Mariani, Galatina 1989, pp. 27-30; A. Campione, Storia e santità nelle due Vitae di Lorenzo vescovo di Siponto, in «Vetera Christianorum», 29 (1992), pp. 169-213; G. Bertelli Buquicchio, voce Monte Sant’Angelo, in Enciclopedia dell’Arte Medievale, vol. VIII, 1997, pp. 532-533; M. Trotta – A. Renzulli, I luoghi del Liber de apparitione di S. Michele al Gargano: l’ecclesia beati Petri, in Vetera Christianorum, 35 (1998), pp. 335-359; G. Bertelli, Monte Sant’Angelo. La chiesa di San Pietro, in L’Angelo la Montagna il Pellegrino. Monte Sant’Angelo e il santuario di San Michele del Gargano, catalogo della mostra documentaria a cura di P. Belli D’Elia, Grenzi, Foggia 1999, pp. 84-86. G. Bertelli, L’area di S. Pietro, in Fragmenta. Il Museo Lapidario del Santuario micaelico del Gargano, a cura di S. Mola e G. Bertelli, Grenzi, Foggia 2001, pp. 43-57.
Per S. Giovanni in Tumba: E. Bertaux, L’art dans l’Italie méridionale, Paris 1904, 2ª ed., pp. 679-682; E. Bernich, Il battistero di Montesantangelo (Ad Emilio Bertaux), in Napoli Nobilissima, XV (1906), pp. 86-87; G. Tancredi, La Tomba di Rotari, Manfredonia 1941; A. Petrucci, Un monumento misterioso: la tomba di Rotari in Monte S. Angelo, Manfredonia 1941; C. Angelillis, La Tomba di Rotari, Foggia 1969; F.P. Fischetti, Il santuario garganico dell’Apocalisse e la tribuna di S. Giovanni in Tomba (detta di Rotari), Monte Sant’Angelo 1972; Id., S. Giovanni in Borgo a Pavia e la Tomba di Rotari a Monte Sant’Angelo, Torino 1974; G. Mongiello, Il battistero di S. Giovanni a Monte Sant’Angelo, in «Arte Cristiana», 63 (1975), pp. 151-180; M.S. Calò Mariani, Aggiornamento all’opera di Emile Bertaux, L’Art dans l’Italie Méridionale, V, Rome 1978, pp. 811-901 (pp. 866-872); L. Lotti, Problemi storici e artistici relativi al complesso monumentale di S. Pietro, della Tomba di Rotari e di S. Maria Maggiore in Monte Sant’Angelo, Bari 1978 (con bibl. precedente); B. Apollonj Ghetti, La cosiddetta Tomba di Rotari sul Gargano ed i suoi rapporti con le chiese di S. Pietro e S. Maria Maggiore, in Storia e Arte nella Daunia medievale, Atti della I Settimana sui Beni Storico-Artistici della Chiesa in Italia. Area culturale della Capitanata (Foggia 26-31 ott. 1981), a cura di G. Fallani, Foggia 1985, pp. 161-177; P. Belli D’Elia, La Puglia [Italia romanica, 8], Milano 1987; M.S. Calò Mariani, L’arte medievale e il Gargano, in La Montagna Sacra. San Michele, Monte Sant’Angelo. Il Gargano, a cura di G.B. Bronzini, Galatina 1991, pp. 9-96; S. Mola, Monte Sant’Angelo. Il battistero di San Giovanni in Tumba, in L’Angelo la Montagna il Pellegrino. Monte Sant’Angelo e il santuario di San Michele del Gargano, catalogo della mostra documentaria a cura di P. Belli D’Elia, Grenzi, Foggia 1999, pp. 92-105; S. Mola, Monte Sant’Angelo, in In cacumine beati Archangeli, Atti del Convegno Internazionale di Studi (Foggia-Manfredonia-Monte Sant’Angelo 11-13 novembre 1999), a cura di C.D. Fonseca (relazione in corso di pubblicazione); A. Trivellone, L’iconographie de deux bas-reliefs de Saint-Jean-in-Tumba à Monte Sant’Angelo (Pouilles). Narration de la Passion et liturgie de l’Eucharistie, in «Cahiers de civilisation médiévale», 45 (2002), p. 141-164; S. Mola, L’iconografia della salvezza sulle strade dei pellegrini, in Tra Roma e Gerusalemme nel Medioevo, Atti del Convegno Internazionale di Studi (Salerno-Cava dei Tirreni-Ravello 25-29 ottobre 2000), a cura di M. Oldoni, Laveglia Editore, Salerno 2003, pp. 389-408 (in corso di stampa).
Testo di Stefania Mola – Ricerca iconografica di Alberto Gentile
Stefania Mola Nata a Napoli, si è laureata in Lettere Moderne a Bari e successivamente specializzata in Storia dell’Arte Medievale presso la Scuola di Storia dell’Arte e delle Arti Minori dell’Università «Federico II» di Napoli. Attualmente è caporedattore della Mario Adda Editore di Bari. In precedenza ha collaborato per diversi anni con la Soprintendenza ai Beni AAAS della Puglia, con quella ai Beni AS della Basilicata, con l’Università di Bari, nonché con enti pubblici e privati operanti nel settore dei beni culturali.
Testo a cura di Stefania Mola – ricerca iconografica di Alberto Gentile.
La fondazione La chiesa di Santa Maria Maggiore è una stretta aula a tre navate, sviluppata su tre campate poggianti su pilastri cruciformi che sostengono archi a sesto rialzato. L’edificio attuale è coperto da volte a botte lunettata e a crociera, probabile frutto dei rifacimenti settecenteschi, mentre originale è la cupola emisferica sulla terza campata della navata centrale. Ritenuto da alcuni cattedrale di Monte Sant’Angelo, l’edificio viene tradizionalmente attribuito alla committenza del vescovo Leone, ed alla sua volontà di trasferire sulla montagna dell’Arcangelo la lontana eco della cattedrale sipontina (almeno per quel che si pensa dell’originaria tessitura della facciata, che si vuole riecheggiata in quella attuale). La fondazione originaria occupò un terreno roccioso in forte pendenza, interessato precedentemente dall’area cimiteriale di pertinenza della chiesa di S. Pietro. Le tracce concrete della redazione dell’XI secolo potrebbero essere rintracciabili nell’abside, nel soccorpo e nelle lesene all’interno della facciata.
La riedificazione Al tempo della reggenza di Costanza d’Altavilla, madre di Federico II di Svevia, si intraprese la ristrutturazione globale della chiesa innestando le prime esperienze sveve sul robusto ceppo del romanico di Capitanata. Il piano di calpestio dell’antica chiesa venne ribassato, per accentuare lo slancio dei pilastri di sostegno e, contestualmente, l’aula venne prolungata verso valle, sino al limite consentito dall’abside della chiesa di S. Pietro. A conclusione dei lavori, che iniziarono nel 1198, fu realizzato il nuovo prospetto che presumibilmente conservò il ricordo dell’impaginazione originaria (a cinque arcate cieche su lesene, tra le quali furono sistemate preziose losanghe con il fondo ornato da motivi floreali) arricchendosi però di un esuberante portale dotato di un protiro pensile poggiato su grifi ed esaltato da una particolare dovizia di pregevoli ornati. Ancora una volta, nelle forme plastiche e nel repertorio figurativo (tanto del portale, quanto delle mensole del cornicione e degli spioventi), emersero gli stretti rapporti culturali intercorrenti tra la Capitanata e l’Abruzzo (filtrati probabilmente dalla presenza del vicino monastero di Pulsano) ma anche le connessioni con esperienze dell’area occidentale della Francia e con la produzione gerosolimitana. L’altare fu solennemente commissionato dal canonico Luca nel 1225, mentre il cantiere procedeva presumibilmente alla realizzazione degli arredi interni. Agli esiti della cripta della collegiata di Foggia, ed in generale ad opere di età ormai pienamente federiciana, dovettero invece guardare gli esecutori dei capitelli.
Più tenacemente ancorata al repertorio figurativo bizantino (perdurante grazie alla fedeltà ai tradizionali modi pittorici, poco aperti alle novità che investivano invece l’architettura e le espressioni plastiche) fu invece la prima stesura degli affreschi di S. Maria, fedeli (nelle effigi dell’Arcangelo Michele, di San Francesco e dei Santi vescovi, e nella scena dell’Annunciazione) a consuetudini largamente diffuse in Capitanata nel corso del Duecento (se non oltre).
L’immagine di san Francesco affrescata in Santa Maria Maggiore fu una tra le più antiche conosciute nella regione, in omaggio a quella tradizione secondo la quale il Santo visitò il santuario nel 1216, imprimendo in un sasso la croce a tau prima di entrare nella grotta, a ricordo della sua umile preghiera.
Il portale Un’iscrizione sovrastante il timpano del sontuoso portale ci informa che nel 1198, regnando Costanza imperatrice con suo figlio Federico, un sacerdote di nome Benedetto diede inizio alla costruzione della fabbrica in onore della Vergine. Non necessariamente dunque tale data si riferisce al portale, che verosimilmente poté essere posto in opera solo a conclusione dei lavori della facciata, o almeno a prospetto impostato. Stilisticamente infatti ci troviamo di fronte ad un contesto tardoromanico, tipico del Duecento maturo, siglato dalle caratteristiche esuberanti dell’ornato, contraddistinto da una certa durezza di intaglio e dall’iterazione meccanica di un repertorio decorativo diffuso. Nella lunetta, insieme alla Madonna in trono ed a due angeli, furono effigiate anche due figure adoranti, nelle quali si sono voluti riconoscere l’imperatrice Costanza ed il sacerdote Benedetto II, probabile committente della ricostruzione dell’edificio citato nell’iscrizione.
Le sculture del portale, al pari di quelle delle mensole del cornicione e degli spioventi della chiesa, documentano gli stretti rapporti intercorsi tra Capitanata e Abruzzo tra XII e XIII secolo, mediati forse da Pulsano.
DA LEGGERE: Ar. Petrucci, Cattedrali di Puglia, Bestetti, Roma 1964, pp. 41-44; F. Jacobs, Die Kathedrale S. Maria Icona Vetere in Foggia. Studien zur Architektur und Plastik des 11.-13. Jh. in Süditalien, Hamburg 1968, pp. 42-48; H. u H. Buschhausen, Die Marienkirche von Apollonia in Albanien. Byzantiner, Normannen und Serben im Kampf um die Via Egnatia, Wien 1976, pp. 324-329; M.S. Calò Mariani, in Aggiornamento all’opera di Emile Bertaux, L’Art dans l’Italie Méridionale, V, Rome 1978, pp. 821-824; L.L. Lotti, Problemi storici e artistici relativi al complesso di S. Pietro, della Tomba di Rotari e di S. Maria Maggiore in Monte S. Angelo, Bari 1978; M.S. Calò Mariani, L’arte del Duecento in Puglia, Istituto Bancario San Paolo, Torino 1984, pp. 32-34; P. Belli D’Elia, La Puglia [Italia Romanica, 8], Jaca Book, Milano 1987, pp. 452-453; M.S. Calò Mariani, L’arte medievale e il Gargano, in La montagna sacra. San Michele Monte Sant’Angelo il Gargano, a cura di G.B. Bronzini, Congedo, Galatina 1991, pp. 44 ss.; S. Mola, Monte Sant’Angelo. La chiesa di Santa Maria Maggiore, in L’Angelo la Montagna il Pellegrino. Monte Sant’Angelo e il santuario di San Michele del Gargano, catalogo della mostra documentaria a cura di P. Belli D’Elia, Grenzi, Foggia 1999, pp. 106-111.
Testo a cura di Stefania Mola – ricerca iconografica di Alberto Gentile.
Stefania Mola Nata a Napoli, si è laureata in Lettere Moderne a Bari e successivamente specializzata in Storia dell’Arte Medievale presso la Scuola di Storia dell’Arte e delle Arti Minori dell’Università «Federico II» di Napoli. Attualmente è caporedattore della Mario Adda Editore di Bari. In precedenza ha collaborato per diversi anni con la Soprintendenza ai Beni AAAS della Puglia, con quella ai Beni AS della Basilicata, con l’Università di Bari, nonché con enti pubblici e privati operanti nel settore dei beni culturali.
Uomo di carattere forte e determinato nacque a Parigi il 21 marzo del 1226, ultimo dei sette figli di re Luigi VIII di Francia detto il Leone e Bianca di Castiglia. La morte del padre otto mesi dopo la sua nascita e poi, nel 1232, quella di due fratelli (Giovanni e Filippo Dagoberto) lo lasciarono erede di vasti possedimenti nella Francia centrale, fra cui l’Angiò e il Maine. Si sa poco della sua prima infanzia, eccetto che fino a dieci anni restò con la madre Bianca, donna di grande rigore morale e religioso, che con l’aiuto dei figli governò la Francia fino alla maggiore età del primogenito Luigi IX e anche oltre per scelta dello stesso sovrano. Carlo, a differenza del fratello maggiore Luigi, fu poco influenzato dall’educazione religiosa ricevuta dalla madre. Tra gli undici ed i quindici anni frequentò le corti dei fratelli maggiori, fu spesso vicino a loro in varie imprese militari. Nel novembre del 1245 a Cluny, con la mediazione del fratello Luigi IX e della madre Bianca, ebbe l’approvazione di papa Innocenzo IV a sposare Beatrice di Provenza, che aveva ereditato dal padre, il conte Raimondo Berengario IV, il titolo di contessa di Provenza e Forcalquier. Il 31 gennaio1246, ad Aix, Carlo sposò Beatrice gettando così le basi della sua futura potenza. Tale unione fu appoggiata da papa Innocenzo IV perché temeva un possibile matrimonio tra Beatrice e Corrado, figlio di Federico II. Carlo resse il governo della contea di Provenza e Forcalquier in maniera totalitaria ed dispotica.
Nel 1248 partì al seguito del fratello Luigi IX per settima crociata, in Egitto. Dopo una sosta di circa sei mesi a Cipro, Carlo raggiunse l’Egitto nel 1249, dopo aver conquistato Damietta, fu sconfitto nella battaglia di Mansura nel febbraio 1250. Lui e gli altri membri della famiglia reale subirono un breve prigionia, poi nella primavera del 1251 decise di rientrare in Francia, dove erano scoppiate alcune rivolte ad Arles ed Avignone. Nel luglio del 1251, fece così ritorno in Provenza insieme al fratello, Alfonso.
Alla morte dell’imperatore Federico II, il pontefice Innocenzo IV cominciò a cercare un nuovo sovrano per il Regno di Sicilia e, quando nel 1252 Corrado IV pretese sia la dignità imperiale sia la corona di Sicilia, egli si rivolse a Riccardo di Cornovaglia e al conte Carlo d’Angiò. Le trattative però fallirono con entrambi. Dopo la morte di Corrado IV, avvenuta nel 1254, Manfredi diventò capo della Casa Sveva ed entrò subito in contrasto con Innocenzo IV che il 12 settembre dello stesso anno lo scomunica. Ma il pontefice per evitare uno scontro diretto revoca l’anatema e nomina Manfredi vicario per la maggior parte dei territori continentali del Meridione, in cambio del riconoscimento dell’autorità papale sul Regno di Sicilia. Il 7 dicembre del 1254 Innocenzo IV rese l’anima a Dio e al soglio pontificio salì Alessandro IV, che si mostrò debole ed indeciso. Manfredi ne approfittò per riconquistare il Regno che spettava per diritto al nipote Corradino. Il 10 agosto del 1258 Manfredi si fa incoronare a Palermo sovrano del Regno di Sicilia. Alessandro IV dichiara nulla l’incoronazione. Nel nuovo ruolo, Manfredi rafforza la compagine interna del Regno, distruggendovi ogni residuo di ribellione e dissenso. Contemporaneamente, cerca in Italia ed in Germania alleanze contro il Papato ed i nemici che questi gli avrebbe inevitabilmente procurato.
Nel 1261 fu eletto papa il francese Jacques Pantaléon di Troyes, col nome di Urbano IV, questi era molto vicino ai reali di Francia. Il nuovo pontefice, temeva che Manfredi volesse estendere i suoi domini su tutta la Penisola, allora si rivolse Luigi IX per liberarsi di Manfredi. Urbano IV in un primo tempo fece anche un tentativo di accordo con lo svevo senza risultati soddisfacenti, così il 29 marzo 1263 scomunicò Manfredi e lo dichiarò decaduto dal trono. Ci furono ancora negoziati con la corona francese che durarono a lungo, proseguendo anche sotto il pontificato di Clemente IV (Guy Fouquois altro amico della casa reale di Francia), per concludersi il 30 aprile 1265. La Chiesa voleva mantenere la sovranità feudale sul regno. Inoltre chiedeva che la città di Benevento restasse sotto il controllo pontificio. Il papa ottenne che il sovrano non avrebbe dovuto influenzare le elezioni ecclesiastiche né esercitare sui religiosi i propri diritti giurisdizionali e fiscali. Fu vietata l’unione dell’Impero romano col Regno di Sicilia; inoltre il nuovo sovrano non avrebbe potuto accettare l’elezione a re di Germania né avrebbe potuto avere pretese nei territori dell’Italia settentrionale e della Toscana. L’anno successivo Carlo avrebbe dovuto lasciare la Provenza con almeno 1.000 cavalieri e 300 lancieri e tre mesi più tardi entrare nel Regno. Nel frattempo il cardinale Riccardo Annibaldi, aveva fatto eleggere Carlo d’Angiò senatore di Roma. Il 6 gennaio 1266 Carlo fu incoronato nella basilica del Laterano re di Sicilia da Clemente IV alla presenza di cinque cardinali.
Il 20 dello stesso mese partì con l’esercito verso il Sud, subito raggiunse e conquistò San Germano. Manfredi, nel frattempo, aveva abbandonato Capua per rientrare in Puglia. Carlo cercò di anticiparlo e avanzò lungo le valli del Volturno e del Calore in direzione di Benevento, dove si portava anche l’armata di Manfredi. Il 26 febbraio si scontrarono e fu battaglia nei pressi del monte San Vitale, a nord-ovest di Benevento. Dopo un primo attacco degli arcieri saraceni e dei cavalieri tedeschi parve che lo scontro volgesse a favore degli Svevi. Ma poco dopo ci fu la defezione, dei romani, dei campani, dei lombardi e dei toscani dell’esercito di Manfredi. Nello scontro campale Manfredi morì. La strada verso la conquista del Regno era ormai aperta per l’Angioino.
Carlo, non si fidò della nobiltà e dei funzionari del Regno, così, dopo aver affidato la gestione del regno a nuovi funzionari, per lo più stranieri, impose ai nuovi sudditi un governo dispotico e totalitario. Impose nuovi prelievi fiscali per mantenere il grande apparato militare ed amministrativo angioino. La nobiltà ed il popolo del Regno presto si esasperarono e subito cercarono un uomo che potesse liberali dal dispotico Carlo. I ghibellini, videro un potenziale liberatore nel giovane Corradino di Svevia, figlio di Corrado IV, nipote di Manfredi e ultimo discendente della dinastia degli Hohenstaufen.
Mentre nell’Italia meridionale erano accesi fuochi di resistenza nei confronti di Carlo d’Angiò, che fu costretto a precipitarsi verso il sud per cercare di reprimere almeno le principali opposizioni, il giovane Hohenstaufen varcò i confini dell’Italia recandosi verso il regno di Sicilia. Corradino fu ben accolto dalle città imperiali dell’Italia settentrionale, ricevette una calorosa accoglienza nella ghibellina Pisa che lo incoraggiò a continuare la marcia verso il Sud. Giunto a Roma vi entrò trionfalmente, ponendo le premesse per una facile vittoria. Fu allora che Carlo d’Angiò, abbandonato l’assedio della colonia musulmana di Lucera che aveva intrapreso per onorare una promessa formulata al Pontefice, si mise in marcia per intercettare al più presto l’esercito di tedesco. L’incontro avvenne sul confine del Regno di Sicilia presso Tagliacozzo, era il 23 agosto 1268. Dopo le prime mosse di assaggio, i comandanti dei due eserciti iniziarono lo scontro campale. L’esito della battaglia si mantenne a lungo incerto, la carneficina fu enorme finché gli Angioini più numerosi, freschi, e forse meglio organizzati, ebbero la meglio. In un primo momento il giovane Corradino riuscì a sottrarsi alla cattura, iniziando una rocambolesca quanto umiliante fuga. Riuscì ad arrivare a Roma dove non fu protetto. Mentre tentava di fuggire in Sicilia via mare, l’8 settembre Corradino venne catturato insieme ai suoi fedeli compagni Federico di Baden, Galvano e Galeotto Lancia, Napoleone Orsini e Riccardo Annibaldi fu catturato nei pressi di Anzio dal signore locale Giovanni Frangipane che poi consegnò i prigionieri alle milizie Angioine dietro pagamento di denaro.
Portato in catene a Napoli, Corradino fu sottoposto ad un processo, assieme ad alcuni suoi fedelissimi: quali delitti potevano essergli contestati, tranne quello di voler onorare il nome della dinastia e di affermare i propri diritti? Condannato a morte, fu decapitato a soli sedici anni il 29 ottobre 1268 sul patibolo eretto in Campo Miricino, l’odierna Piazza del Mercato della città partenopea. Con questa morte che all’epoca destò grande scalpore, finivano gli Hohenstaufen.
Degno di menzione è il fatto che nel 1267 era morta Beatrice di Provenza e nel 1268, Carlo sposò in seconde nozze, Margherita di Borgogna (1248 – 1308), contessa di Tonnerre.
Dopo essersi liberato della dinastia sveva Carlo tornò a governare il Regno in maniera ancor più rigida e dispotica, sostituì i nobili ribelli con nobili francesi, confiscò tutti i beni agli avversari e arrivò a trasferire la capitale del regno da Palermo a Napoli. In breve tempo riuscì ad avere la meglio su molte città dell’Italia settentrionale, ottenne giuramento di fedeltà dalle città guelfe, così si trovò a capo della fazione guelfa in tutta la Penisola.
Seguì quindi, ancora una volta, il fratello Luigi IX nell’ottava crociate contro Tunisi, nel corso di questa crociata il sovrano francese rese l’anima a Dio.
Successivamente Carlo acquisì nuovi territori e i titoli di re d’Albania (1272), re di Gerusalemme (1277) e principe di Acaia (1267-1277).
Ma nel 1273, grazie all’impegno dei ghibellini di Genova, nel giro di breve tempo Carlo perse il controllo dell’Italia settentrionale; in poco tempo la sua posizione si indebolì notevolmente anche in Toscana.
La continua attività espansiva del re angioino, la gestione politica affidata ai francesi e l’eccessiva imposizione fiscale causarono grande malcontento particolarmente in Sicilia. Questa politica autoritaria ed vessatoria e la perdita del ruolo di capitale di Palermo portò i siciliani alla ribellione che esplose il 30 marzo del 1282 a Palermo prima della funzione dei vespri. In breve tempo quasi tutti gli Angioini furono mandati via dall’Isola. Il 25 luglio, Carlo, sbarcò in Sicilia con le truppe destinate alla guerra greca e assediò Messina, che resistette per ben due mesi. I Siciliani si rivolsero al re di Aragona, Pietro III il Grande, che aveva sposato Costanza di Hohenstaufen, figlia di Manfredi. Il sovrano aragonese sbarcò a Trapani il 30 agosto con circa 9000 soldati e riuscì, in meno di un mese, a liberare l’Isola da Carlo.
Carlo, nel luglio del 1283, tentò un’invasione della Sicilia concentrando una flotta a Malta, ma l’ammiraglio Ruggero di Lauria sventò il tentativo sorprendendo la flotta e distruggendone una parte. Il 5 giugno del 1284 ci fu un nuovo scontro tra la flotta Aragonese e quella Angioina guidata dal figlio di Carlo, Carlo lo Zoppo. Ebbe la meglio la flotta Aragonese, così Carlo, che aveva in animo di riconquistare l’isola dovette momentaneamente rinunciarvi e si recò in Puglia per riorganizzarsi. Durante questo viaggio si ammalò gravemente Il 6 gennaio 1285 fece redigere il suo testamento in cui si stabiliva che, nel caso che il suo zoppo e da lui disprezzato figlio ed erede non fosse stato liberato dalla prigionia, la successione sarebbe toccata a suo nipote Carlo Martello, nominò suo fratello Roberto II d’Artois regente. Il 7 gennaio 1285 morì a Foggia. Le viscere furono custodite nella cattedrale di Foggia, le spoglie a Napoli e il cuore a Parigi in un monumento funebre nella Basilica di Saint Denis. (Alessandro De Troia)
Gli successe il figlio Carlo lo Zoppo, che al momento della morte di Carlo I era tenuto prigioniero in Aragona.
• Jacques Le Goff, San Luigi, Torino, Einaudi, 1996. • Steven Runciman, I Vespri siciliani: storia del mondo mediterraneo alla fine del tredicesimo secolo, Milano, Rizzoli, 1976. • Paolo Golinelli, Breve storia dell’Europa medievale: uomini, istituzioni, civiltà, 2ª ed., Pàtron. 2004. • Massimo Montanari, Storia medievale, Laterza, 2006. • Guido Iorio, Carlo I d’Angiò. Biografia politicamente scorretta di un “parigino” a Napoli, Roma, GEDI, 2018.
La fortezza di Lucera occupa la spianata alla sommità del Monte Albano, dove si suppone fosse in origine un’arx romana. La cinta muraria ha un impianto poligonale irregolare e si sviluppa per la lunghezza di quasi un chilometro, con una cortina muraria rafforzata da quindici torri quadrangolari lungo i lati settentrionale, occidentale e meridionale, mentre il lato orientale è delimitato da due torri circolari (della Leonessa merlata, alta 25 metri e larga 14 e del Leone alta 15 metri e larga 8) ed è intervallato da sette torri pentagonali. Sempre il lato orientale ha due cortine sfalsate che accolgono l’ingresso principale alla fortezza, al cui interno venne racchiuso il già esistente palazzo di Federico II probabilmente eretto nel 1233.
Nel 1269 Carlo I d’Angiò diede ordine ai magistri giurati di Capitanata di procedere all’acquisto di calce e pietre, nonché alla fornitura di buoi per la costruzione di una fortezza. La costruzione di questa fortificazione militare si deve al contributo di alcuni tra i migliori architetti dell’epoca, quali Pierre d’Angicourt, Riccardo da Foggia, Pierre de Chaulnes, Jean de Toul e Nicola di Bartolomeo da Foggia. Tra il 1270 ed 1273 l’architetto Pierre d’Agincourt costruisce il fronte orientale con le torri pentagonali. Tra il 1276 ed il 1282 venne ultimata la torre della Leonessa, che Pierre d’Agincourt aveva lasciato al rustico, e si dà avvio alla costruzione dell’ala residenziale. Agli architetti Carlo d’Angiò diede anche l’incarico di ristrutturare il palatium federiciano, quindi ciò che ci è pervenuto con il passare dei secoli è la sintesi tra l’edificio originario e la ristrutturazione avvenuta per mano degli angioini, l’immagine del palatium svevo che ci è stata tramandata dai disegni del francese Jean-Louis Desprez ne è la testimonianza grafica.
In epoca angioma la fortezza racchiudeva una vera e propria cittadella che contenente gli alloggi, una cappella, una cisterna per la raccolta delle acque piovane ed un ponte sul fossato. La cisterna di forma circolare era posta nell’area che va dalla Torre del Leone a Porta Lucera; profonda 14 metri, garantiva la riserva idrica del fortilizio. Oggi della fortezza si conserva solo la cinta muraria esterna mentre del palazzo federiciano resta solo uno spoglio basamento, come anche delle strutture sorte all’interno del grandioso recinto in epoca angioina.
Molte delle informazioni giunte fino ai nostri giorni, relative alla fortezza di Lucera, si devono alle ricerche compiute da Eduard Sthamer che ha analizzato molti documenti presso gli Archivi napoletani, egli ha trascritto i documenti della cancelleria angioina, andati poi distrutti nel 1943. Molto di quello che sappiamo sulle fortificazioni del 13° secolo si deve anche agli studi compiuti da Arthur Haseloff, per lui sono stati fondamentali le ricerche dello Sthamer. L’Haseloff ha ripreso il tema dell’architettura sveva in Puglia su incarico dell’Istituto Storico Prussiano di Roma con la sua pubblicazione: «Architettura Sveva nell’Italia Meridionale» (1920).
Tra le immagini ci sono alcune foto scattate dallo studioso tedesco Haseloff, lo stesso è anche ritratto in una foto.
Eduard Sthamer, L’amministrazione dei castelli nel Regno di Sicilia sotto l’imperatore Federico II e Carlo I d’Angiò. Le costruzioni degli Hohenstaufen nell’Italia Meridionale, Vol. integrativo I, Lipsia 1914.
Haseloff 1920: Arthur Haseloff, Die Bauten der Hohenstaufen in Unteritalien, Leipzig 1920 (Textband; Tafelband). (trad. it. Architettura sveva nell’Italia meridionale, a cura di M.S. Calò Mariani, Bari 1992);
Willelmsen 1979: Carl Arnold Willelsem, I castelli di Federico II nell’Italia meridionale, Napoli 1979
R. Licinio, Castelli medievali. Dai Normanni a Federico II e Carlo I d’Angiò, presentazione di G. Musca, ivi 1994
Houben 1998: Hubert Houben, “Zur Geschichte der Festung Lucera unter Karl von Anjou”, in Forschungen zur Reichs-, Papst- und Landesgeschichte. Festschrift für Peter Herdezum 65. Geburtstag, a cura di K. Borchhardte e E. Buenz, Stuttgart 1998, I, 403-409.
Calò Mariani 2001: Maria Stella Calò Mariani, Archeologia, storia e storia dell’arte medievale in Capitanata (Bari 1992), Bari 2001.
Raffaele Licinio, Lucera, in Enciclopedia Federiciana, Istituto dell’Enciclopedia Italiana Treccani;
L’Abbazia di San Leonardo in Lama Volara detta di Siponto dedicata a San Leonardo di Noblac, è uno splendido esempio di romanico pugliese, si trova a pochi chilometri da Manfredonia, lungo la strada s.s. 89 che da Foggia porta alla montagna sacra, il Gargano, poco distante dal luogo ove sorgeva l’antico vescovado di Siponto, insediamento romano prima e poi bizantino. È un antico complesso risalente al XII sec. costituito dalla Chiesa, dal Monastero e dall’Ospedale.
Cronologia
Il complesso monastico fu fondato tra gli ultimi anni del secolo XI e i primi del sec. XII dai Canonici Regolari di Sant’Agostino come ricovero, ospizio per i pellegrini che si recavano al Santuario dell’Arcangelo Michele e per i cavalieri crociati che, dopo aver pregato, presso il Santuario, s’imbarcavano per la terra Santa. Nel 1261 fu affidato da Papa Alessandro IV ai Cavalieri Teutonici, i quali ne fecero il centro delle loro attività in Puglia e rimasero sino agli anni Ottanta del 1400. Gli scudi crociati di questi frati guerrieri sono ancora visibili all’interno della chiesa.
A partire da quella data, la Chiesa di San Leonardo, considerata Abbazia, venne data in commenda a vari cardinali, tra i quali Bonifacio Caetani, Carlo Barberini e Pasquale Acquaviva d’Aragona, che fu l’ultimo degli abati commendatari. Dal XVII secolo nella chiesa vi officiavano i frati minori. Nel 1810 l’Abbazia fu soppressa da Gioacchino Murat ed il convento con le rendite fu trasferito all’Ordine Costantiniano. La Chiesa di San Leonardo, dopo un lungo periodo di totale abbandono durato quasi due secoli, è stata riaperta al culto nel 1950 ed è sotto la tutela dell’Arcidiocesi di Manfredonia – Vieste – San Giovanni Rotondo.
Attualmente il complesso Chiesa, il Monastero e l’Ospedale sono stati affidati alla comunità dei Ricostruttori della preghiera.
Aspetto architettonico
La Chiesa è a tre navate (la laterale destra ha in parte cambiato il suo aspetto) con arcate ricadenti su semipilastri e pilastri cruciformi al centro, nella navata centrale, è coperta da due cupole disuguali. All’esterno la facciata occidentale presenta un portale che ha una semplice sagoma architravata, sormontata da una lunetta non decorata conclusa da un archivolto.
Nell’abside, sulla volta che copre l’attuale altare è visibile ciò che rimane di un affresco, si percepisce bene il volto di Cristo (pantocratore affrescato – 1200/1300). Parte di questo affresco è andato perso dopo il restauro dell’anno 2000.
Il crocifisso ligneo di San Leonardo di Siponto All’interno della chiesa è conservata una copia del Crocifisso ligneo di San Leonardo (XII-XIII sec.), il cui originale è custodito nella Cattedrale di Manfredonia. Si tratta di un vero capolavoro d’arte medievale delle dimensioni di m. 2,44 d’altezza per 2,20 di larghezza scolpito e decorato. Molto probabilmente la parte scultorea è stata realizzata in Puglia da intagliatori locali, la parte decorativa presenta pittura e tecnica di tipo orientale. La decorazione presenta elementi tipici dello stile e della tecnica delle icone e sugerisce l’appartenenza di questo Crocifisso al mondo bizantino, invece la parte scultorea lo avvicina a quello d’Oltralpe. Il Crocifisso di S. Leonardo nel 1957 è stato restaurato presso l’Istituto Centrale del Restauro di Roma, prima di tale restauro era collocato nel primo altare a destra dell’ingresso principale. Secondo Alfredo Petrucci il Crocifisso è databile tra il 1220-1230. Nel 1958, dopo il restauro, è stato esposto all’Expo di Bruxelles. Poi per molti anni è stato esposto presso la Pinacoteca Provinciale di Bari. Finalmente il 24 aprile del 1985 è stato riportato a Manfredonia.
Il Portale
Sulla facciata laterale rivolta a nord c’è uno splendido portale (tra i più belli del romanico-pugliese) che molto probabilmente è stato costruito in un secondo momento, forse in epoca sveva.
Le decorazioni di questo portale richiamano quelle di Santa Maria di Pulsano, altro antico monastero garganico.
Nella parte più esterna due colonne poggiano sul dorso di due leoni stilofori che reggono, a loro volta, due animali alati che sostengono l’archivolto. Il leone di destra addenta una figura umana (il peccatore) che gli afferra una zampa in atteggiamento supplichevole; il leone di sinistra, mutilato, da quanto s’intuisce dai resti sembra addentare un serpente. Gli stipiti e le cornici del portale, dell’arco e della lunetta sono scolpiti con ornamenti vegetali, zoomorfi e antropomorfi. I due capitelli interni sono costituiti da due blocchi trapezoidali con sculture aneddotiche. Quello di sinistra rappresenta, dall’interno verso l’esterno, un Arcangelo Michele che con una lancia trafigge un drago, un pellegrino a cavalcioni su di un’asina la quale, alla vista dell’angelo con una spada, china il capo (Petrucci). Per altri autori sull’asina c’è Bàlaam al quale appare l’Angelo. Bàlaam era un mago babilonese, noto per un fatto descritto nella Bibbia (Deuteronomio 23,4-5) ed era stato inviato a sgominare con la sua magia gli Israeliti, ma venne fermato da un angelo.
Il capitello di destra raffigura i tre Re Magi che vanno verso la Vergine con il Bambin Gesù e San Giuseppe.
Nella lunetta è raffigurato Gesù benedicente in mandorla tenuto da due angeli. Nel frontone, tra il portale ed il baldacchino, a mò di protiro, si trovano due figure maschili con aureola, scolpite a mezzo rilievo. Quella di sinistra, secondo il Petrucci, rappresenta Sant’Agostino; per altri autori è San Giacomo, ma potrebbe trattarsi di un personaggio laico: un sovrano o un pellegrino, perché intorno alla testa non vi è aureola. Quella di destra, con cappuccio sulla testa, un libro in mano ed una catena, raffigura San Leonardo. Tra i due santi molto probabilmente stava una Vergine con Bambino.
Il solstizio d’estate Sin d’agli albori della civiltà c’è stata la consuetudine d’inserire nelle costruzioni a carattere religioso elementi architettonici ispirati da modelli astronomici e matematici per arricchire di elementi simbolici il fabbricato. Il simbolismo cosmico si ritrova nelle costruzioni assiro-babilonesi, in quelle dell’antico Egitto e nelle opere sacre degli Ebrei. Alcuni elementi architettonici, che avevano sfruttato l’osservazione di fenomeni quali il solstizio d’estate e d’inverno, erano stati inseriti nel tempio che Re Salomone aveva innalzato su suggerimento divino.. Essendo il tempio o il monastero al centro del microcosmo locale, l’inserimento in essi di elementi costanti nel tempo (perenni), come i fenomeni astronomici, li rendeva più vicini a Dio. Anche a San Leonardo di Siponto ritroviamo un preziosismo architettonico del genere. Ad ogni solstizio d’estate, il 21 giugno, al mezzogiorno astronomico, il sole è perfettamente sulla direttrice, penetra con un solo raggio all’interno della Chiesa attraverso un piccolo rosone posto in una cupola e va a cadere sul pavimento al centro di due pilastri che sorreggono la navata centrale in prossimità del portale laterale. Il fenomeno è stato concepito con molta precisione, abbinando calcoli astronomici a quelli architettonici al momento della costruzione dell’Abbazia. Simili artifizi si possono osservare in altre Chiese, come ad esempio nella Cattedrale di Chartres in Francia, dove la luce passa attraverso un foro praticato in una vetrata.
Bibliografia
San Leonardo di Siponto. Storia di un antico Monastero della Puglia – S. Mastrobuoni Foggia, 1960.
Cattedrali di Puglia – Alfredo Petrucci, Bestetti, Roma, 1976.
I Simboli Del Medio Evo – Gérard de Champeaux e Sébastien Sterckx, Editrice Jaca Book, Milano, 1981.
Puglia: Turismo, Storia, Arte, Folklore – Mario Adda Editore Bari, 1985.
La Puglia – Italia Romanica – Pina Belli D’Elia, Editrice Jaca Book, Milano, 1987. •Chiese di Puglia, il fenomeno delle chiese a cupola – Luigi Mongiello – Mario Adda Editore Bari, 1988.
Itinerari Federiciani in Puglia – Stefania Mola, Mario Adda Editore Bari, 1994.
San Leonardo di Siponto tra storia e arte, di Alberto Gentile
Cattedrali di Puglia, a cura di Cosimo Damiano Fonseca – Mario Adda Editore 2001 ISBN 88-8082-433-3
Hubert Houben, a cura di: San Leonardo di Siponto. Cella monastica, canonica, domus Theutonicorum. Atti del Convegno Internazionale (Manfredonia, 18-19 marzo 2005. Galatina: Mario Congedo editore 2006 ISBN 88-8086-674-5
A 18 chilometri da Foggia, andando verso il preappennino Dauno, troviamo la cittadina di Lucera che è un affascinante scrigno di memorie storiche ove potremo visitare monumenti di epoca medievale come la fortezza Svevo – Angioino, la Cattedrale gotica, la chiesa di San Francesco e poi vale la pena di visitare anche l’anfiteatro romano (I secolo a.C.).
Il Palatium Svevo
Il Palatium di Federico II costruito dall’imperatore Svevo fu successivamente, con l’avvento degli Angioini, inglobato nella cinta muraria della fortezza Svevo-Angioina di Lucera.
Questo splendido palazzo fu eretto dall’imperatore Svevo, secondo alcuni studiosi nel 1233 (questa datazione non è certa), a Lucera su di un colle ove i Romani avevano costruito la loro acropoli in una posizione tale da assicurare una buona difesa. Il palazzo sorse sulle fondamenta di una diroccata di una struttura preesistente forse di epoca normanna e dal punto di vista architettonico si presentava come un maestoso torrione con una base quadrangolare (ancora visibile), a tre piani, con la parte esterna al cortile e la parte interna del terzo piano dalla forma ottagonale (vedi disegno dell’elevazione del castello eseguito da C. A. Willemsen): queste caratteristiche fanno intravedere analogie con quelle di Castel del Monte. I tre piani contenevano 32 vani che ospitavano la corte e gli appartamenti imperiali. Nei sotterranei erano site le camerate per le guarnigioni.
Una loggia ad archetti ciechi circondava il cortile a metà altezza, aperture romboidali e circolari si alternavano alle finestre a sesto acuto, una cisterna profonda 14 metri garantiva la riserva idrica, uno zoccolo quadrato, lungo 43 metri e doppio tre e mezzo, sopraelevava la galleria, nove feritoie per lato davano al palazzo l’aspetto di un bunker.
Poiché il palazzo originariamente non presentava accessi dall’esterno, vale a dire un portone d’ingresso a livello della strada, si pone il problema di come si potesse accedere all’interno. Si può ipotizzare che per accedere nel Palatium, si adoperasse un sistema di scale che erano calate dall’alto. Un’ipotesi più suggestiva potrebbe essere quella dell’utilizzazione di passaggi sotterranei, avvalorata dal ritrovamento, ad opera d’archeologi inglesi nel corso di questo secolo, di condotti sotterranei lateralmente alla costruzione. Questa soluzione del tutto originale ci fa pensare che essa sia stata adottata per renderla meno agredibile dall’esterno: è quindi una conferma indiretta dell’importanza strategica di questo castello.
Era una sede molto fastosa, che ospitava parte del tesoro imperiale. Di esso rimane ben poco all’interno della fortezza che Carlo I d’Angiò fece erigere tra il 1269 ed il 1283.
In quel periodo un nutrito numero di Saraceni che si erano ribellati in Sicilia fu trasferito a Lucera. Divennero guerrieri affidabili e abili artigiani, ebbero la possibilità di conservare le loro usanze e la loro religione. Lucera in arabo divenne “Lugerash”, in essa fu edificata una vera e propria moschea e ciò irritò notevolmente il clero. I Saraceni, negli anni successivi alla morte di Federico II, furono sterminati e la moschea fu distrutta dagli Angioini, che nello stesso posto eressero una nuova Cattedrale dedicata a Santa Maria.
▪ Arthur Haseloff, Architettura Sveva nell’Italia Meridionale, Mario Adda Editore, Bari, 1992. ▪ S. Mola, Itinerari Federiciani in Puglia, Mario Adda Editore, Bari, 1994. ▪ J. M. Martin, Errico Cuozzo, Federico II Le tre capitali del regno Palermo – Foggia – Napoli, Procaccini Editore, Napoli, 1995. ▪ Maria Stella Calò Mariani, Archeologia, storia e storia dell’arte medievale in Capitanata (Bari 1992), Bari 2001. ▪ Nunzio Tomaioli, Lucera il Palazzo Imperiale e la fortezza del Re – Leone Editrice 2005
La Basilica Cattedrale di Foggia Santa Maria Assunta in Cielo.
Nel centro di Foggia è collocata la Basilica Cattedrale, in quella stessa zona dove in pieno medioevo fu costruito anche il palazzo imperiale voluto da Federico II del quale restano solo poche vestigia. Il primo impianto si deve a Roberto il Guiscardo che volle la costruzione, nel 1081, di quello che oggi è la cripta del Succorpo, che doveva custodire l’Iconavetere. Nel 1172 sulla cripta fu eretta una nuova Chiesa più grande, per volere di Guglielmo II il Buono re di Sicilia. Una serie di studi recenti hanno fatto pensare che la cattedrale sia stata usata come cappella palatina dell’imperatore Federico II e che lo stesso abbia contribuito al suo completamento o rimaneggiamento. La Cattedrale conserva all’esterno buona parte dei raffinati prospetti romanici in pietra squadrata e scolpita, col prezioso cornicione marcapiano decorato con motivi classicheggianti e figure zoomorfe ricco di sculture, molto probabilmente, opera dell’architetto-scultore Bartolomeo da Foggia, lo stesso che avrebbe eseguito alcune opere per il palazzo imperiale di Federico II del quale resta solo parte del portale. Questo testimonierebbe che in epoca sveva la cattedrale potrebbe essere stata rimaneggiata. M. S. Calò Mariani (1980, pp. 254-256).
Molto di quell’epoca è andato perso a causa del forte terremoto del 20 marzo del 1731. L’attuale edificio all’interno è costituito da un’unica navata a croce latina ed è prevalentemente in stile barocco. Da non perdere un bellissimo crocifisso ligneo realizzato da Pietro Frasa e l’icona Vetere (è un’antica immagine raffigurante la Vergine Kyriotissa o Nicopeia. Secondo la tradizione, le origini della città di Foggia risalgono intorno all’anno Mille con il rinvenimento della tavola raffigurante la Madonna Iconavetere, affiorata sulle acque di un pantano nei pressi del quale era stata occultata, avvolta in drappi o veli, forse per sottrarla alla furia iconoclasta), ad essa è dedicata la basilica cattedrale. In questa chiesa furono conservate le viscere di Federico II, di Carlo D’Angiò e di altri illustri personaggi i cui resti andarono persi a seguito dell’evento sismico del 1731. Sul lato sinistro, esternamente alla basilica è possibile ammirare il portale di San Martino di epoca medievale.
Il 7 gennaio 1285 moriva a Foggia il sovrano Carlo I d’Angiò. Le viscere furono custodite nella cattedrale di Foggia, il cuore a Parigi e le spoglie a Napoli. Lapide commemorativa della morte di Carlo I conservata in una cappella laterale della Cattedrale di Foggia – foto di Alberto Gentile.
La Facciata anteriore
La parte inferiore della facciata è composta da cinque archi, quello centrale è più ampio e contiene il portale più volte modificato. Al di sopra del portale vi era in passato, molto probabilmente un rosone (vedi la ricostruzione del rosone Fig. 13). L’arcatura prosegue anche sui fianchi esterni della chiesa, sul lato Nord sono presenti due semicapitelli con testine dai caratteri regali (fig. 4 e 5).
parte inferiore della facciata della Cattedrale di Foggia fig. 2 Parte inferiore della facciata della cattedrale.
Il cornicione della Cattedrale
Di notevole pregio è il cornicione marcapiano decorato con motivi classicheggianti e figure zoomorfe. Secondo la professoressa M. S. Calò Mariani questo cornicione sarebbe da attribuire al maestro Bartolomeo da Foggia. Calò Mariani (1980, pp. 254-256).
Cornicone cattedrale Foggia Il cornicione anteriore della cattedrale nel suo insieme
Il cornicione anteriore della cattedrale metà sinistra.
Il cornicione anteriore della cattedrale metà destra.
Dettagli del cornicione marcapiano; sono visibili due uccelli lateralmente, un felino ed un bambino e due grossi fioroni.
Di grande valore artistico sono le due figure poste sulle mensole angolari destra e sinistra della facciata, un giovane ed un vecchio, ritratti nudi mentre sono aggrediti da serpenti e coccodrilli.
Fig. 3 Particolare del cornicione: mensola angolare di destra – un giovane imberbe azzannato da due serpenti.
Fig. 4 Cattedrale di Foggia, particolare del cornicione: mensola angolare di sinistra – un uomo barbato aggredito da coccodrilli alati.
Fig. 5 Un capitello delle lesene degli archi laterale della Cattedrale di Foggia presenta un volto di donna. Lato destro della Cattedrale.
Fig. 6 Un capitello delle lesene degli archi laterale della Cattedrale di Foggia presenta un volto di uomo con corona che potrebbe verosimilmente rappresentare un sovrano. Potrebbe trattarsi di Federico II. Lato destro della Cattedrale.
I capitelli delle lesene e delle paraste angolari sono finemente scolpiti e riprendono i capitelli corinzi. Sulle paraste angolari di sinistra sono visibili coppie di semicapitelli che costituiscono la decorazione dei lati e presentano teste umane barbute in corrispondenza degli abachi.
Il portale di San Martino
Sul lato sinistro della cattedrale subito dopo la chiesa dell’Annunziata si trova il portale di San Martino. Questo portale con l’interessante cornicione e le pregevoli sculture sono stati aggiunti o modificati presumibilmente in epoca sveva sempre ad opera di Bartolomeo da Foggia, Calò Mariani (1980, pp. 254-256).
Nel portale si distinguono, nella lunetta superiore un Cristo tra due angeli in volo e sull’arco sono presenti anche due leoni alati, al di sotto si distingue un rilievo raffigurante presumibilmente San Martino a cavallo, secondo alcuni potrebbe trattarsi di Federico II, a sinistra del personaggio a cavallo si trova Sansone in lotta con un leone e a destra un profeta o un alto prelato o San Martino. Nella lunetta collocata nella parte inferiore del portale si distinguono una Madonna con bambino tra due angeli.
Accesso al portale di San Martino. fianco sinistro della cattedrale.
Fig. 7 Il Portale di San Martino collocato sul lato sinistro della Cattedrale di Foggia esternamente, parte superiore.
Fig 8 Portale di San Martino, particolare centrale, cavaliere con mantello (secondo alcuni San Martino, per altri Federico II). Foggia.
Fig. 9 Parte intermedia del portale di San Matino, particolare che vede raffigurati la Madonna con Bambino con angeli laterali. Foggia.
Fig. 10 Portale di San Martino, personaggio posto a destra per chi guarda, con molta probabilità si tratta di San Martino. Foggia.
Fig. 11 Veduta d’insieme del portale di San Martino.
Secondo Jean-Marie Martin (uno dei più grandi specialisti di storia dell’Italia meridionale nel Medioevo) Federico II ha fatto di Foggia (che non era una vera città) non soltanto la sua residenza, ma anche un centro artistico di spicco.
Reperti provenienti dalla cattedrale conservati presso il museo civico di Foggia
Nel museo civico di Foggia sono conservati alcuni reperti provenienti dalla cattedrale e ritrovati dopo l’evento tellurico del 1731. Si tratta di una colonnina del rosone appartenuto alla cattedrale e di due piccole statue a figura intera di San Paolo e san Matteo.
Fig. 12 due sculture conservate nel museo civico di Foggia risalenti alla seconda metà del XIII secolo provenienti dalla cattedrale, rapprsentano da sinistra l’apostolo San Paolo e a destra l’evangelista San Matteo.
Ricostruzione dell’antico rosone cattedrale di Foggia
Fig. 13 Nel museo civico di Foggia è conservata questa colonnina che proviene dalla cattedrale, la colonnina è esposta in questo modo simulando la ricostruzione del rosone cattedrale.
La Cripta del Succorpo
La cripta è a tre navate su basse colonne ed è ricoperta da volte a crociera gotiche. Di grande pregio artistico sono quattro capitelli che sormontano le colonne centrali attribuiti da alcuni studiosi a Bartolomeo da Foggia, e potrebbero risalire al XIII secolo, questo testimonierebbe che nella primitiva cripta non ci fossero queste colonne e che, secondo lo studioso Giuseppe De Troia, sarebbero state inserite nella chiesa del Succorpo per volere di Federico II con l’intento di farla a somigliare al “Cenacolo di Gerusalemme” dopo il ritorno dello Svevo dalla Terra Santa. In effetti traspare una certa somiglianza tra la cripta della Cattedrale di Foggia ed il Cenacolo di Gerusalemme.
Vi sono vari affreschi, il più interessante è quello che raffigura Gesù in maestà da poco restaurato del XIV-XV.
Antica foto dell’interno della cripta della cattedrale di Foggia, ben visibili le quattro colonne centrali ed i capitelli.
Una foto recente delle colonne con i capitelli.
L’antico altare è stato eliminato per far posto al nuovo collocato al centro del piccolo presbiterio.
Sono visibili gli antichi ingressi che consentivano, con delle scalinate, il passaggio dalla chiesa superiore alla cripta, prima che fosse demolito l’antico impianto a tre navate ed elevato il piano della navata della chiesa superiore. A reggere quest’ultima fu creato il nuovo Succorpo, a tre navate dove si conservano l’urna in legno dorato del Cristo morto e le statue della Passione. Inoltre vi sono delle tombe di vescovi.
Fig. 14 Affresco raffigurante un Cristo in maestà su una parete della chiesa della cripta della cattedrale.
Passaggio tra via Duomo e via Campanile che si trova alle spalle della cattedrale, gli archi tipici dell’epoca medievale sono la testimonianza della struttura architettonica di stile romanico posta nella parte inferiore della cattedrale.
Bibliografia:
CATTEDRALI DI PUGLIA, Alfredo Petrucci – Editore: Carlo Bestetti Edizioni d Arte – Roma, 1960
La Cattedrale di Foggia. Le sue forme nel tempo a cura di Nunzio Tomaiuoli – Claudio Grenzi Editore
Cattedrali di Puglia. A cura di Cosimo Damiano Fonseca. Adda Editore
M.S. Calò Mariani, La scultura in Puglia durante l’età sveva e protoangioina, in La Puglia fra Bisanzio e l’Occidente (Civiltà e culture in Puglia, 2), Milano 1980, pp. 254-316;
Maria Rosaria Rinaldi e Francesco Gangemi – FEDERICO II E LA RIEDIZIONE DELL’ICONAVETERE A FOGGIA. Presentazione di Jean-Marie Martin. Edizioni ZiP – 2014.