"Se non sai dove stai andando, girati per vedere da dove vieni." Moni Ovadia
Autore:Alberto Gentile
Alberto GENTILE
È nato a Casalvecchio di Puglia (FG) - a pochi chilometri da Castel Fiorentino - il 16 gennaio 1958. Dopo aver frequentato il liceo classico si è laureato in Medicina e Chirurgia; ha sempre nutrito una grande passione per la storia e l’archeologia.
Il periodo storico che maggiormente gli interessa è quello normanno-svevo, la sua grande passione è il romanico pugliese. Nel 1997 ha portato sulla grande rete la storia di Federico II con il sito www.stupormundi.it del quale è attualmente il coordinatore. E' socio ordinario della Società di Storia Patria per la Puglia.
Vive e lavora a Foggia. Suona il sax ed il flauto traverso; la musica che più ama è il jazz. È felicemente sposato e ha due figli.
Capitello delle quattro razze - museo diocesano di Troia.
Fra i reperti archeologici conservati presso il Museo Ecclesiastico Diocesano di Troia (FG), nella sala dei capitelli spicca un interessante capitello databile all’epoca sveva opera, quasi certamente, di maestranze pugliesi che lavoravano per la corte di Federico II Hohenstaufen. Questo capitello denominato delle “Quattro Razze” è stato ritrovato nella cattedrale di Troia, il capitello presenta quattro teste scolpite ai quattro angoli della lastra di copertura, queste rappresentano le quattro razze umane conosciute prima del 1492 (la razza nera, l’asiatica, l’araba e quella europea).
Capitello delle quattro razze – museo diocesano di Troia. Foto di Alberto Gentile
Collage dei quattro volti che rappresentavano le quattro razze conosciute prima del 1492. foto di Alberto Gentile.
Un capitello molto simile è conservato ed esposto al Metropolitan Museum of Art di New York (The MET), per molto tempo gli storici dell’arte hanno creduto che i due capitelli fossero gemelli ma recenti studi hanno messo in evidenza delle reali differenze. Il capitello esposto a Troia mostra una maggiore abilità dello scultore nell’inserire armonicamente le quattro teste fra gli elementi vegetali; al contrario nel capitello esposto al Metropolitan Museum le teste sono molto caratterizzate ed il fogliame manca di vivacità naturalistica. Inoltre, quello esposto a NY è di dimensioni più piccole e forse anche leggermente più recente seppur di epoca sveva. Da una analisi effettuata sulle pietre dei due capitelli si è stabilito che ambedue provengono dalla cava di Roseto Valfortore. Nella didascalia sottostante al capitello esposto a NY si evidenzia la multietnicità di Palermo descritta da un tale monaco Teodosio sin dal 863. In effetti questa multietnicità era ben conosciuta anche in epoca sveva quando la capitale del regno era un crogiolo di culture e razze.
Il capitello delle quattro razze esposto al Metropolitan Museum of Art di New York – per gentile concessione di Piero Guadagno.
Il capitello delle quattro razze esposto al Metropolitan Museum of Art di New York – per gentile concessione di Piero Guadagno.
Carta della Capitanata Francescana redatta nel 1712.
Localizzazione. L’arcipelago delle isole Tremiti è composto da tre isole (San Domino, San Nicola, Capraia), un isolotto (Cretaccio) ed alcuni scogli. È collocato a 12 miglia marine al largo della costa settentrionale del Gargano, a livello del lago di Lesina. È un concentrato di bellezze naturali e di storia, sospeso sul mare azzurro e limpido dell’Adriatico. Le isole Tremiti sono raggiungibili; via mare da Rodi Garganico, Peschici, Vieste e Manfredonia (FG) e da Termoli (CB), con l’elicottero da Foggia.
Una recente foto dell’arcipelago delle Tremiti fotografato dal porto di San Domino. Cretaccio a sinistra e San Nicola a destra.
La storia. Furono abitate sin dal neolitico. Il loro antico nome era “Insulae Diomedeae”, dall’eroe greco Diomede, che qui approdò di ritorno da Troia e vi trovò sepoltura. La leggenda vuole che Afrodite trasformò i suoi compagni in “diomedee”, rari uccelli di mare della famiglia delle procellarie che nidificano sui calcari di S. Domino. Qui morì esule Giulia, nipote di Cesare Augusto, Carlo Magno vi mandò in esilio Paolo Diacono. Il nome “Tremitis” compare per la prima volta nella cartografia medievale.
Le isole Tremiti fotografate dal Subappennino Dauno. Foto di Luigi Fernando Celozzi.
Nel 1045 alcuni monaci Benedettini di Montecassino eressero un monastero intorno alla chiesa dedicata a Santa Maria del Mare. In breve tempo l’abbazia estese i suoi possedimenti, con dipendenze che andavano dall’Abruzzo alla terra di Bari. Artefice di questa veloce crescita fu l’abate Alberico, il cui nome di origine germanica è forse in rapporto con la particolare protezione accordata al monastero dagli imperatori tedeschi. Durante il periodo in cui Alberico fu alla guida della comunità il monastero ospitò Federico di Lorena, cancelliere papale e futuro papa; nel 1058 vi sostò per breve tempo anche Desiderio di Montecassino, che ben presto considerò l’abbazia delle Tremiti una potenziale rivale della più antica e potente abbazia dell’Italia meridionale e cercò di impossessarsene col consenso dei Normanni. Nella lunga e accanita contesa tra i due monasteri Desiderio non riuscì però ad avere la meglio e l’abbazia delle Tremiti mantenne la propria indipendenza, limitandosi ad accettare, alla fine, una formale protezione da parte della casa madre di Montecassino. In epoca federiciana conobbe un periodo di decadenza. Nel XIII sec., dopo un’inchiesta per irregolarità disposta dal Papa e condotta dal Vescovo di Dragonara, l’abbazia fu ceduta ai monaci Cistercensi di San Bernardo provenienti dal monastero di Casanova nella diocesi abruzzese di Penne, che l’ampliarono e la fortificarono con l’aiuto del Re Carlo I D’Angiò.
Dopo la conquista e spoliazione ad opera dei pirati essa rimase abbandonata per lungo tempo. All’inizio del sec. XV Papa Gregorio XII la diede ai Canonici Regolari Lateranensi, che la restaurarono in ricco stile rinascimentale, trasformando l’esterno in una possente fortezza e riportandola all’antico splendore. Nel XVIII sec. l’abbazia fu soppressa e l’isola divenne una colonia penale.
Gli abitanti, circa 100 tra pescatori e contadini nel periodo invernale, invece in estate le isole si popolano di tremitesi che vivono a Termoli e di molti turisti, la gente del posto parla un dialetto che deriva da quello partenopeo come discendenti dei napoletani, che furono deportati, nel 1843, da Re Ferdinando II.
Riserva Marina. Dal 1989 l’arcipelago, d’acque limpide e frastagliata costa ricca di grotte, è riserva naturale marina.
Gli ambienti.
San Nicola. L’isola di San Nicola con i resti dell’abbazia fortificata è sicuramente la più interessante dal punto di vista storico e artistico, a tale proposito mi piace ricordare che lo storico dell’arte francese Émile Bertaux, visitando l’Italia del Sud tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, la battezzò con il nome di «Montecassino in mezzo al mare», infatti il primo insediamento monastico è stato quello dei monaci Benedettini di Cassino (Chartularium Tremitense).
L’isola è lunga km 1.6 e larga m 450, con massima elevazione di m 75. San Nicola di Tremiti è il centro storico ed amministrativo dell’arcipelago. Cinta di mura e con un Castello trasformato nel sec. XV, ha in alto, la chiesa di Santa Maria al Mare, consacrata nel 1045 dal vescovo di Dragonara, con l’annessa abbazia. L’intero complesso è stato diverse volte rimaneggiato ed ampliato dai religiosi che l’abitarono, fino a raggiungere dimensioni sproporzionate, in rapporto all’esiguità dell’isola.
La chiesa, nella facciata principale, presenta un portale rinascimentale i cui rilievi sono opera di scultori dalmati.
La Chiesa è ben conservata, ha un impianto a pianta rettangolare a 3 navate con un doppio deambulatorio. L’edificio ha, inoltre, una loggia al piano superiore. La particolare originalità dell’impianto planimetrico è data dalla presenza al centro di una vasta aula quadrata che presenta su ciascun lato tre monumentali arcate cieche che inquadrano altrettanti archi passanti di minore altezza sormontati da monofore. I pilastri che li sostengono hanno forma polilobata con due semicerchi ai lati di un nucleo quadrato. Sul lato aperto verso il coro lo schema doveva essere ripetuto. Attualmente un grande arco trionfale a sesto acuto segna il passaggio al coro, in cui ancora visibile è l’antica abside centrale. L’intero edificio venne ricoperto da un tappeto musivo di cui rimangono significativi resti.
I frammenti musivi rimasti sono dislocati in vari punti dell’edificio. Quasi intatto il tappeto che riveste lo spazio quadrangolare al centro (sec. XI-XII). I mosaici sono costituiti da piccole tessere di circa un cm di lato di marmo bianco pentelico, giallo di Siena, palombino di Subiaco, nero di Mattinata disposte ad opus tessellatum, alternati a piccoli inserti di opus sectile.
Sull’altare maggiore è collocato un polittico ligneo intagliato e dorato, opera goticizzante di fattura veneta della metà del 1400 di particolare pregio.
Di notevole pregio è anche il Crocifisso su tavola, è una grande tavola con una croce lignea dipinta che misura 3,44 m di altezza e 2,58 m di larghezza. Sulla tavola, oltre al Cristo crocifisso, vi sono raffigurati anche la Vergine e l’Apostolo Giovanni. Secondo gli storici dell’arte la tavola è attribuibile alla scuola pisano-lucchese di autore ignoto dell’XI-XII sec. Il pregiato Crocefisso è in stile bizantino ed è molto simile a quello che si venera nel Duomo di Spoleto.
Sul lato sinistro del presbiterio c’è la statua lignea “S. Maria a Mare”, che rappresenta la Vergine Maria con il bambino, i volti sono abbronzati e ciò rivelerebbe ancora influssi di tipo bizantino.
Dietro la chiesa, si trovano i resti di due chiostri; uno gotico e l’altro rinascimentale, ancora dopo si trovano la biblioteca del monastero ed alcune sale. Al centro del primo chiostro c’è un pozzo decorato che attingeva acqua da una cisterna di raccolta sotterranea.
San Domino. La maggiore isola dell’arcipelago con lunghezza km 2.8 e larghezza 1.7, massima elevazione m 116, è ricoperta da una pineta che in molti punti giunge fino alle rocce, che vanno a strapiombo sul mare. Lungo la costa si possono visitare in barca numerose grotte: in particolare, nel tratto sudorientale, la grotta del Sale e la grotta delle Viole, che nelle prime ore del mattino presenta riflessi violacei; nel tratto occidentale, la grotta del Bue Marino, profonda circa 70 metri, dove un tempo si segnalava la presenza della foca monaca.
Casa di pescatori isola di San Domino foto di Charly L. Smoke.
Tra San Nicola e San Domino si alza dal mare il Cretaccio, isolotto di creta giallastra.
Capraia. Lunga. km 1.6 e larga m 600, sta a nord dell’isola di S. Nicola ed è disabitata; le rocce sono coperte da una vegetazione a cespugli di cardi, capperi, artemisia.
Bibliografia:
Émile Bertaux, L’art dans l’Italie méridionale: De la fin de l’empire romain à la conquête de Charles d’Anjou. Tome premier. Tome premier, Volumi 1-2. – A. Fontemoing, 1904
Mac Clendon, The Church of S. Maria di Tremiti and its Significance for the History of Romanesque Architecture, in «Journal of the Society of Architectural Historians», 43 (1984), 1, pp. 5-19.
Radicchio, L’isola di San Nicola di Tremiti, Bari 1993.
P. Belli D’elia, Espressioni figurative protoromaniche nella Puglia centrale: il ‘mosaico del grifo’ della cattedrale di Bitonto, in Bitonto e la Puglia tra Tardoantico e Regno normanno, Atti del Convegno (Bitonto 15-17 ottobre 1998), a cura di C.S. Fioriello, Bari 1999, pp. 171-192.
Erica Morlacchetti, L’abbazia benedettina delle isole Tremiti e i suoi documenti dall’XI al XIII secolo, Volturnia Edizioni, 2015.
Donatella Langiano, Isole Tremiti, Polaris, 2020.
Isole Tremiti – Storia arte cultura e ambiente nella Riserva Marina dell’arcipelago, Claudio Grenzi Editore 2023.
Il Luogo Troia è considerata l’erede della città di Aecae, di cui conserva la posizione strategicamente ubicata sull’antica rete viaria. Non fu tuttavia un’eredità “automatica”, bensì una vicenda fatta di decadenze, abbandoni, sopravvivenze silenziose; fino alle soglie del Mille quando, nel luogo della città attuale, si sa di due nuclei abitati, raccolti intorno ad altrettanti conventi, uno basiliano e l’altro benedettino, congiunti da una strada che a buona ragione era denominata “via tra due terre”. Su questa strada, oggi via Umberto I, si articolò in seguito la roccaforte voluta dal catapano Basilio Boiohannes, che nel 1019 rifondò Troia insieme a Fiorentino, Civitate, Dragonara, Tertiveri e Montecorvino, “città di frontiera” poste a difesa del confine settentrionale della regione. Troia divenne sede vescovile dal 1031, e precocemente mise da parte riti e liturgia greca per diventare uno dei più importanti centri religiosi del Mezzogiorno, legato culturalmente e politicamente alla Chiesa di Roma, fedele ai pontefici ed ostile a sovrani e imperatori. A lungo la città si difese dalla penetrazione normanna che si andava espandendo in tutta la regione, costringendo il Guiscardo a scendere a patti con essa, e a farne uno dei cardini della propria politica nella Puglia settentrionale. Nella posizione più elevata della città Roberto il Guiscardo costruì un castello in concomitanza con la cinta muraria che, insieme alla strada, diede forma alla città, ed importanza alla cattedrale, fondata in quegli anni in posizione baricentrica, in uno spiazzo adiacente la via principale. Intitolata a Santa Maria, l’antica cattedrale doveva essere un edificio di modeste dimensioni, che nella sua muratura reimpiegò una notevole quantità di materiale di riporto.
Note storiche ed architettoniche Intorno al 1093 Santa Maria subì un ampliamento direttamente legato all’accresciuto peso della città nel quadro politico e militare del Mezzogiorno normanno; una vera e propria rifondazione che la trasformò, nel corso del XII secolo, in un’aula basilicale tripartita da dodici colonne antiche (più una abbinata alla prima di destra) disposte su due filari; le murature, percorse da arcatelle su paraste, si articolarono giocando sulla raffinata alternanza cromatica del calcare e di una pietra verde simile all’arenaria, evocando atmosfere orientali ed analogie con le coeve soluzioni pisane, rafforzate anche dalla presenza di medaglioni intarsiati di gusto islamico che arricchirono all’esterno il fianco orientale della navata. Questa prima campagna di lavori – impostata dal vescovo Girardo e, dopo il 1106, patrocinata e finanziata dal vescovo Guglielmo II – fu suggellata dalla porta di bronzo firmata da Oderisio da Benevento, collocata sul prospetto principale entro il 1119; forse già Guglielmo mise mano alla costruzione del capocroce (che avrebbe definitivamente inglobato, recuperandone parte dei materiali antichi, la precedente chiesa di S. Maria) così come lascia capire un’epigrafe incisa su un blocco marmoreo nella muratura dello stesso (riecheggiata nei toni encomiastici e nei contenuti dalle parole incise nel registro inferiore della porta) e coincidente con il possibile recupero di parte dell’antico paramento murario. L’importante presenza ecclesiastica a Troia ed il privilegio di dipendere direttamente dalla Santa Sede, determinò di fatto che il vescovo fosse anche l’indiscussa autorità civile e l’episcopio rappresentasse, per lunghi periodi, il fulcro reale e simbolico della città. La porta bronzea maggiore fu certo concepita e realizzata, oltre che come necessario complemento (da un punto di vista formale) al semplice portale architravato, soprattutto per celebrare il clima trionfale che in quegli anni circondava la nuova cattedrale ed il suo vescovo, importante mediatore tra il papato e i baroni normanni all’interno del quadro della lotta per le investiture. Nel 1127, a soli otto anni di distanza dall’esecuzione della porta maggiore, lo stesso vescovo gli commissionò la porta laterale, di minori dimensioni e più semplificata rispetto alla precedente, specchio di tempi tormentati e frutto – nella sua sobrietà – di una programmatica scelta di linguaggio che privilegiasse la rapidità di esecuzione e l’efficacia del messaggio da trasmettere: celebrare l’immagine della collettività troiana stretta attorno ai suoi vescovi ancor più nelle avversità e nella crisi. Nella seconda metà del XII secolo, sulla scia dell’impulso impresso in campo architettonico ed artistico dal vescovo Guglielmo (che resse la diocesi sino al 1141), si crearono le condizioni idoneee all’esecuzione e all’acquisizione di preziosi oggetti e di sontuose suppellettili sacre.
Exultet III| Archivio Capitolare di Troia (FG).
Uno dei risultati della rinnovata elaborazione artistica e culturale fu l’Exultet 3, rotulo liturgico legato alla veglia pasquale eseguito quasi certamente in città, ma senza un reale rapporto con il rituale, giacché le ricche scene miniate furono tutte disposte nello stesso senso della scrittura. Altri rotuli di Exultet coevi risultano (al contrario) progettati e realizzati perché al momento della cerimonia pasquale possa istituirsi quel particolare rapporto tra i fedeli e l’ambone, favorito dall’impostazione rovesciata delle immagini rispetto al testo. L’intento della committenza troiana fu certamente quello di confezionare una sontuosa suppellettile liturgica che (destinata piuttosto all’ostensione pubblica) andasse ad arricchire il Tesoro della cattedrale. Con Guglielmo III, nel 1169, venne realizzato il pulpito, testimonianza preziosa degli scambi culturali tra Capitanata ed Abruzzo, mentre con Gualtieri (a cavallo dei secoli XII e XIII) l’edificio venne ultimato, con la costruzione del capocroce, del braccio sinistro del transetto e l’esecuzione della decorazione esterna dell’abside. Intanto, la fiera opposizione a Federico II, che nella vicina Lucera stava trasferendo una folta comunità saracena, costò a Troia (più che mai guelfa ed autonomista) il feroce saccheggio del 1229, con la parziale distruzione delle sue mura e delle sue case. Dopo il 1266 la città, alquanto malridotta e sofferente, rifiorì grazie agli Angioini, che presumibilmente restaurarono l’intera facciata della cattedrale (aprendo il trionfale rosone centrale ad undici raggi) e realizzarono la copertura costolonata del coro.
Oderisio da Benevento tra tradizione e modernità. Poco si conosce della formazione culturale del fonditore Oderisio da Benevento, artefice mirabile delle porte bronzee della cattedrale troiana ed uno dei massimi protagonisti del primo romanico europeo. L’ampiezza e la modernità dei suoi referenti culturali sono affidate esclusivamente alle due porte troiane, giacché risultano ormai perdute le ante delle chiese di S. Giovanni Battista delle Monache a Capua e quelle di S. Bartolomeo a Benevento, che l’artista aveva firmato e datato nel 1122 e nel 1150-51. Oggi splendidamente restaurata, la porta maggiore della cattedrale di Troia, costituita da ventotto formelle quadrangolari e venti rettangolari fissate su un supporto ligneo, fu realizzata utilizzando tanto la tecnica dell’agemina, quanto la fusione di pezzi anche a tutto tondo, con un effetto finale (in bilico tra il plastico ed il pittorico) davvero sorprendente.
Le immagini occupano i vari registri seguendo una precisa gerarchia che, partendo dal Cristo giudice nella mandorla, si snoda attraverso i santi Pietro e Paolo, il vescovo Guglielmo, due personaggi identificati come Bernardo ed Oderisio ed i santi protettori della città (Secondino, Eleuterio, Ponziano ed Anastasio, rifatti nel Cinquecento), tutti caratterizzati dalla lieve vibrazione cromatica conferita dall’agemina. Il continuo crescendo del ritmo (all’altezza del registro centrale) si fa palpabile nelle croci fogliate a rilievo basso, che con il loro morbido chiaroscuro anticipano i violenti contrasti chiaroscurali delle maschere leonine reggi-maniglia, emergenti da dischi traforati a giorno e, ancor più, dei draghi alati avviluppati come molle pronte a scattare, espressione di massima tensione plastica e punto più alto dell’intera composizione. Nella porta minore, realizzata in un momento assai particolare per la vita della comunità troiana, Oderisio incise semplicemente ma con grande efficacia la superficie del bronzo, distribuendo sulle ventiquattro formelle le immagini dei vescovi della città, primo fra tutti Guglielmo, e i suoi otto predecessori, non mancando di conferire alle maschere leonine reggi-maniglia del registro centrale (più semplici e sintetiche rispetto a quelle della porta maggiore) il vigore sufficiente a farle emergere, spezzando l’uniformità della composizione.
Porta laterale o minore realizzata da Oderisio da Benevento.
In un’epoca e in un ambiente culturale e geografico da sempre legato a Costantinopoli, indubbiamente Oderisio dimostrò una grande indipendenza mentale, trasponendo con inusitato fervore nelle porte troiane i segni inequivocabili della grande arte dell’Occidente. Se le aperture in direzione di modelli genericamente definibili come occidentali possono essere ravvisate nella matura definizione plastica delle parti a rilievo (che rimanda senza dubbio alla coeva produzione in bronzo e scolpita dell’Europa romanza), la selvaggia energia emanata dai draghi attorcigliati e dalle maschere leonine rivela inequivocabilmente che la cultura del fonditore beneventano deve essersi nutrita del lato più visionario dell’arte romanica. E se le raffigurazioni antropomorfe ageminate della porta minore (in apparenza maggiormente convenzionali) dal punto di vista tecnico si ricollegano indiscutibilmente alla tradizione bizantina, se ne distaccano tuttavia da quello formale, negando alle figure l’immobilità solenne e ieratica tipicamente orientale. Nelle vitalissime sagome dei santi e dei vescovi troiani, fluttuanti nello spazio quasi a passo di danza, emerge una completa adesione a modi “moderni”, vicini in qualche modo alle coeve espressioni plastiche della Francia di sud-ovest, o alle miniature di area anglo-normanna. Sono proprio le miniature o i libri di disegni, preziosi e rapidi veicoli di diffusione di certi stilemi e cifre grafiche, che potrebbero spiegare la composita formazione culturale di Oderisio da Benevento, tanto più in una città come Troia, dove si ipotizza l’attività di uno scriptorium e dove si conservano tre preziosi Exultet (quasi certamente confezionati in loco) che potrebbero aver fornito i modelli iconografici all’artefice. Nella definizione di questi elementi la critica recente ha giustamente ricordato il ruolo fondamentale spettato al committente, il vescovo Guglielmo II, ritenuto l’elaboratore del messaggio destinato ad essere eternato dal fonditore. Purtuttavia ulteriori contributi non mancano di sottolineare come Oderisio possa essere considerato non solo un mero esecutore, bensì anche un artefice dotato di straordinarie qualità selettive, in grado di registrare autonomamente ed in “tempo reale” le novità culturali irradiate d’Oltralpe. A questo proposito, senza andare troppo lontano, sono state ricordate le stringenti analogie stilistiche e formali tra la sua opera e la potente espressività di certa miniatura (l’Exultet della Biblioteca Casanatense) e scultura lignea (il Crocifisso di Mirabella Eclano) coeva, ritenute frutti maturi dell’assimilazione degli innesti culturali transalpini nel Mezzogiorno.
DA LEGGERE: M. De Santis, L’anima eroica della Cattedrale di Troia, Foggia 1958; M. De Santis, La «Civitas Troiana» e la sua cattedrale, Foggia 1976; M. Pasculli Ferrara, Troia, in M. Pasculli Ferrara, Arte napoletana in Puglia dal XVI al XVIII secolo (dai Documenti dell’Archivio Storico del Banco di Napoli a cura di E. Nappi), Fasano 1983, 2a ediz. 1986, pp. 71-72; N. Tomaiuoli, in Restauri in Puglia 1971-1983, Fasano 1983, II, pp. 375-381; R. Mastrulli, Elementi di arte barocca nella cattedrale di Troia, Quaderni a cura dell’Istituto Cattolico di Studi universitari e Formazione Popolare della Daunia – Troia, N.S. III, Foggia 1985; P. Belli D’Elia, S. Maria Assunta a Troia, in La Puglia [Italia Romanica, 8], Milano 1987, pp. 405-430; P. Belli D’Elia, Per la storia di Troia: dalla chiesa di S. Maria alla cattedrale, in «Vetera Christianorum», 25 (1988), f. 2, pp. 605-620; A. Cadei, Porta Patet, in Ianua Maior, catalogo della mostra (Benevento 1988), Roma s.d., pp. 12-23; P. Belli D’Elia, Le porte della cattedrale di Troia, in Le porte di bronzo dall’antichità al secolo XIII, a cura di S. Salomi, Roma 1990, pp. 341-355; M. Pasculli Ferrara, Un S. Anastasio d’argento di Andrea De Blasio e Muzio Nauclerio nella cattedrale di Troia, in «Puglia Daunia» (1994), pp. 21-24; P. Belli D’Elia, s.v. Oderisio da Benevento, in Enciclopedia dell’Arte Medievale, vol. VIII, Roma 1997; N. Tomaiuoli, La cattedrale di Troia: i restauri, in Castelli e cattedrali di Puglia a cent’anni dall’Esposizione Nazionale di Torino, catalogo della mostra a cura di C. Gelao e G. Jacobitti, Bari 1999, pp. 405-407; R. Gnisci, La cattedrale di Troia: il restauro della porta bronzea, ivi, pp. 409-411; E. Marcovecchio, Troia, in Itinerari in Puglia fra arte e spiritualità, a cura di M. Pasculli, Roma 2000, pp. 90-91; V. Pace, Palinsesto troiano. Peccato giudizio e condanna sulla facciata di una cattedrale pugliese, in Opere e giorni. Studi su mille anni di arte europea dedicati a Max Seidel, a cura di K. Bergdolt e G. Bonsanti, Venezia 2001, pp. 67-72; S. Mola – M. Pasculli Ferrara, La cattedrale di Troia, in Cattedrali di Puglia. Una storia lunga duemila anni, a cura di C. D. Fonseca, Bari 2001, pp. 63-69.
In uno scenario di rocce grigie su strapiombi profondi oltre 200 metri, a circa nove chilometri a sud-ovest dal centro abitato di Monte Sant’Angelo, si trova l’abbazia di Santa Maria di Pulsano, che su questo massiccio roccioso sembra stia a guardia del golfo di Manfredonia. Secondo la tradizione, verso la fine del VI secolo, la comunità degli Equizi edificò nel medesimo luogo un monastero, passato poi ai Cluniacensi e distrutto dai Saraceni.
Storia Nel 1128 San Giovanni Scalcione da Matera (Matera, 1070 – monastero di San Giacomo a Foggia 1139), dopo molte esperienze spirituali ed un lungo peregrinare, finalmente trovò la sua sede nell’antico e abbandonato monastero di S. Gregorio a Pulsano ribattezzandolo “Santa Maria di Pulsano”, lo ricostruì fondando la Congregazione benedettina degli Eremiti Pulsanesi.
San Giovanni Scalcione da Matera.
Nel XII secolo l’abbazia conobbe il momento di massimo fulgore divenendo uno dei monasteri più potenti dell’Italia meridionale, grazie anche alle cospicue donazioni dei benefattori, tra questi anche sovrani quali Ruggero II d’Altavilla e Federico II, fu inoltre famoso centro miniaturistico. Il monastero di Pulsano nel 1177 entrò ufficialmente negli interessi della casa regnante con l’inclusione (insieme a quello di S. Giovanni in Lamis) nell’honor Montis Angelis concesso da Guglielmo II alla moglie Giovanna d’Inghilterra. Questo monastero nel medioevo ha svolto un ruolo di primaria importanza nella riorganizzazione del territorio e nella fondazione di nuovi centri del Gargano. La crescente fama dell’abbazia, divenuta meta ambìta di pellegrinaggio, condivise le sorti della congregazione pulsanese, che già nei primi decenni del XIII secolo manifestava i primi segni di decadenza.
Architettura La parte più significativa del complesso monastico è costituita dalla chiesa in stile romanico, la sua costruzione potrebbe collocarsi intorno al 1128, la tradizione ci tramanda la legenda seconda la quale la chiesa fu eretta in un luogo espressamente indicato dalla Vergine Maria, apparsa in sogno a Giovanni da Matera; fu utilizzata come abside una grotta, recuperando il sito di un probabile antico insediamento di monaci di sant’Equizio.
Foto dell’interno della chiesa, si noti l’abside ricavato da una grotta.
La chiesa ha una sola navata con volta a botte scandita da grandi archi trasversali su semipilastri vicini alle pareti, ha un bellissimo portale, a forma ovale, finemente decorato con rilievi zoomorfi ed antichi blasoni che presenta molte similitudini con il portale laterale dell’abbazia di San Leonardo di Siponto.
Portale d’ingresso della chiesa.
Particolare del portale d’ingresso.
Lateralmente, due piccoli settori della grotta ospitano la tomba dell’abate Giordano (morto nel 1145) e un altare inglobato in una piccola costruzione in muratura dal tetto a spioventi. Gli elementi più pregevoli dall’abbazia sono molto probabilmente attribuibili ai lavori d’ampliamento che effettuò l’abate Gioele (1145 – 1177), a lui si devono l’ampliamento e la ricostruzione di gran parte delle fabbriche del monastero e della chiesa. La facciata della chiesa, rifatta in un periodo imprecisabile (forse in relazione con il terremoto del 1646, che arrecò gravi danni a tutto il complesso monastico) accorciò l’originaria lunghezza della navata di una campata. Questa importante modifica è verificabile osservando proprio il prospetto, sul quale sono stati riposizionati il portale d’ingresso originario, due finestre ed un oculo decorati con motivi vegetali. All’esterno dell’edifico sacro sono visibili in alto una mensola ed un capitello per lato che, “attraversando” la muratura, testimoniano la loro appartenenza agli ultimi pilastri presenti all’interno della chiesa.
Frammenti Scultorei Alcuni frammenti scultorei pregevoli e resti dell’arredo del monastero di Pulsano, sono conservati nel museo lapidario della Basilica di San Michele a Monte sant’Angelo, sono considerati opera degli stessi artefici attivi a Siponto, maestri foggiani che hanno operato sia in Capitanata che in Abruzzo (S. Clemente a Casauria, S. Pelino a Corfinio) nella II metà del XII secolo. Tra i frammenti scultorei conservati nel museo lapidario del Santuario micaelico ricordiamo La fontana lustrale che fino al 1971 risultava posta all’esterno dell’abbazia, presso l’ingresso sud-orientale.
La fontana Lustrale.
La fontana si compone di un basamento, costituito da quattro figure zoomorfe accovacciate, intervallate da colonnine dotate di preziosi capitelli, e di una vasca, intorno alla quale si dispongono dieci protomi zoomorfe ed antropomorfe (lepre, montone, felini) e i fori per la fuoriuscita dell’acqua. Nella parte alta, costituita da una calotta che sovrasta la “coppa” e funge quasi da coperchio, quattro scene figurate ordinate su doppio registro, inserite in edicole con colonne angolari sostenute da protomi animali, i cui timpani sono affiancati dalle figure e dai simboli degli Evangelisti.
Una recente foto della fontana lustrale ora collocata nel museo lapidario della Basilica Micaela.
A parte le numerose lacune, maggiormente visibili in seguito alla ricomposizione, si riconoscono le raffigurazioni di Balaam sull’asina, accompagnato da un’iscrizione lacunosa [hic balaa(m) / hortante(m) / ter / …/…asellam] e sovrastato da una scena tradizionalmente indicata come la Natività (ma altrove come l’incontro tra Anna e Gioacchino, genitori di Maria, presso la Porta Aurea); poi la scena dell’Annuncio a Zaccaria della nascita del Battista (più probabilmente e semplicemente un’Annunciazione) sottostante alla raffigurazione di una mirrofora al sepolcro, sul quale campeggia la figura dell’angelo; ancora, San Pietro e San Paolo sovrastati dalla Crocifissione; e infine il miracolo di Mosè che fa scaturire l’acqua dalle rocce, accompagnato anch’esso da un’iscrizione assai lacunosa [p(er)cu…/hic moysis … fit unda] e sovrastato da una scena identificata come l’Ascensione. La fontana è probabile opera di maestranze operanti a Monte Sant’Angelo nel XII-XIII secolo.
L’icona mariana Fino al 1966 la chiesa di Pulsano ha custodito l’antica icona della Madonna con Bambino, tavola dipinta a tempera in seguito scomparsa e mai più recuperata. Essa raffigurava la Vergine Odegitria affiancata da angeli.
L’antica icona di epoca medievale della Madonna con Bambino trafugata nel secolo scorso e mai ritrovata.
La chiesa abbaziale fu dedicata alla Beate Vergine Maria Madre di Dio e l’altare consacrato dopo i lavori, promossi dall’abate Gioele, il 30 Gennaio del 1177, da Papa Alessandro III. Il Papa, per l’occasione, traslò da Roma le sante reliquie di alcuni martiri romani come Lorenzo, Ippolito, Nicandro e Valeriano, il reliquiario (un cofanetto in bronzo) ed il sigillo papale in cuoio sono custoditi nella chiesa abbaziale. Il complesso monastico presenta grosse mura di cinta. Alla fine del XIV secolo l’abbazia garganica venne abbandonata del tutto ed i suoi beni dati in commenda a non residenti. Al cardinale Ginnasi (1586-1603) va il merito di aver restaurato il complesso monastico, così come attesta la presenza del suo stemma sul portale di accesso al monastero. Nella chiesa era custodita l’immagine della Madonna (foto sopra), realizzata verosimilmente nel XIII secolo secondo un tipo iconografico largamente diffuso in Puglia, che attirava ancora un certo numero di fedeli e pellegrini. L’irreversibile distruzione giunse nel 1646, quando un violento terremoto provocò la rovina degli edifici del complesso, nonché la perdita del suo prezioso archivi. Il monastero di Santa Maria di Pulsano fu sospeso nel 1806 e dopo un lungo periodo d’abbandono il 20 dicembre 1997 si è insediata una comunità monastica che è incardinata nell’arcidiocesi di Manfredonia ed è birituale latina e bizantina nell’espressione liturgica e spirituale. In questo luogo pieno di fascino non è difficile poter osservare falchi e corvi reali.
Bibliografia: • Cattedrali di Puglia – Alfredo Petrucci, Bestetti, Roma, 1976. • M. S. Calò Mariani – A. Ventura – A. Muscio – A. Altobella – J. M. Martin – P. Corsi – L. Pellegrini – U. Kindermann – E. Ciancio – A. Pepe – G. Onofrio – E. Catello – C. Laganara Fabiano, Capitanata Medievale, Claudio Grenzi Editore, Foggia 1998. • Alberto Cavallini, Santa Maria di Pulsano – il santo deserto garganico, Claudio Grenzi Editore, 1999 • S. Mola, L’area dell’abbazia di Pulsano, in Fragmenta. Il museo lapidario del Santuario di S. Michele del Gargano, a cura di S. Mola e G. Bertelli, Claudio Grenzi Editore, Foggia 2001, pp. 59-69.
Info:
L’8 settembre ricorre la festività della Madonna di Pulsano: i fedeli partono da Monte Sant’Angelo e raggiungono l’abbazia sul dorso di muli. Dal 1991 si è costituito il Movimento “Cristiani Pro Pulsano” associazione di volontariato formata da cittadini di Manfredonia e Monte Sant’Angelo che si prefigge di mantenere viva la memoria storica dell’antica Abbazia di Pulsano. Nel mese di agosto presso il monastero si tiene un Corso pratico d’iconografia. Ora il monastero ha anche una foresteria per ospitare un numero limitato di pellegrini per brevi periodi di ritiro.
Abside della Chiese di San Pietro e facciata esterna con il portale del battistero di San Giovanni in Tumba.
Testo di Stefania Mola – Ricerca iconografica di Alberto Gentile
Quello formato dalla chiesa di S. Pietro e dal battistero di S. Giovanni (insieme alla chiesa di S. Maria Maggiore) costituisce il secondo polo (dopo il santuario micaelico), legato al culto e alla devozione nella cittadina garganica consacrata all’arcangelo Michele.
La chiesa
Della chiesa di S. Pietro restano oggi in piedi solo la zona absidale e alcune tracce della struttura. Dell’edificio altomedievale, eretto probabilmente nell’VIII secolo, si parla per la prima volta nel testo del Liber de apparitione. In esso si dice che il vescovo di Siponto, tradizionalmente identificato con Lorenzo, fece costruire una chiesa intitolata al beato Pietro, principe degli Apostoli, in cui trovarono posto due altari dedicati rispettivamente alla Vergine e a S. Giovanni Battista.
Resti della chiesa di San Pietro – l’abside ed i resti di alcune colonne.
Nell’area di S. Pietro (ristrutturata nell’XI secolo forse a seguito dei danni riportati nel saccheggio saraceno che interessò il santuario micaelico nell’869) si raccolse, tra la fine dell’XI e gli inizi del XII secolo, un complesso monumentale in cui trovarono posto altri due edifici, il battistero di S. Giovanni in Tumba e la chiesa di S. Maria Maggiore, collegati tra loro da un corridoio. Lo sappiamo dalla Vita di Lorenzo, altro documento della massima importanza per le vicende del santuario micaelico, scritto per la Vita minor agli inizi dell’XI secolo e per la maior entro la fine dello stesso secolo. In quest’ultima redazione emerge la presenza di tre edifici e non più della sola S. Pietro.
Tradizionalmente si è sempre ritenuto che l’area su cui sorgeva il S. Pietro più antico fosse da identificare con quella antistante l’abside oggi ancora visibile. Studi recentissimi basati sulla rilettura delle fonti, sull’analisi orografica dell’area nonché sull’individuazione di particolarità costruttive incongruenti relative al S. Giovanni in Tumba, hanno portato all’ipotesi che l’edificio altomedievale dedicato a S. Pietro, quello ricordato nel Liber de apparitione, potesse sorgere sull’area oggi occupata dal S. Giovanni. In seguito la dedicazione a S. Pietro sarebbe stata trasferita all’edificio costruito ex novo verso ovest; la vecchia chiesa – di dimensioni assai contenute – sarebbe stata dedicata a S. Giovanni Battista, diventando edificio battesimale in funzione del nuovo polo religioso che a sud avrebbe visto la costruzione della chiesa dedicata alla Vergine.
Il battistero
Il battistero di S. Giovanni – conosciuto come Tomba di Rotari a causa della scorretta interpretazione del termine tumba, che compare nell’epigrafe all’interno dell’edificio – fu fondato da un certo Pagano, originario di Parma ma residente a Monte Sant’Angelo, e da un Rodelgrimo, nativo del Gargano, entrambi rintracciati in un documento del 1109 che li identifica come cognati. Addossato in parte alla roccia, ed in parte incastrato nel volume absidale della chiesa a cielo aperto intitolata a S. Pietro, era probabilmente un edificio pertinente a quest’ultima; si tratta di un ambiente cubico absidato ad oriente, con le pareti incorniciate da robuste arcate concentriche a sesto acuto, su cui furono innestate – una sull’altra – una serie di forme geometriche irregolari rastremate verso l’alto: un prisma ottagonale, due cilindri a sezione ellissoidale ed infine una cupola intessuta ad anelli concentrici. Due ordini di finestre e tre cornici ne scandirono i piani ascendenti, fino a conferirgli l’aspetto di una massiccia torre campanaria d’Oltralpe.
San Giovanni in Tumba – Atlante illustrato di Heinrich Wilhelm Schulz.
Complessivamente le suggestioni culturali relative a questo tipo di edificio si rivelano assai eterogenee, tanto da aver suggerito – di volta in volta – rimandi alla tipologia dei mausolei fatimidi, delle cube siciliane e dei minareti islamici, nonché ricordi dei battisteri pertinenti alle chiese crociate di Terra Santa, delle costruzioni cupolate pugliesi e di esperienze borgognoni ed alverniati. La singolarità d’impianto e di mole suggerirono già al Bertaux di riconoscervi una sorta di torre campanaria edificata alla maniera pugliese ma secondo indicazioni filtrate proprio dalle esperienze borgognone.
La cupola vista dall’interno intessuta ad anelli concentrici.
Particolare della cupola intessuta ad anelli concentrici.
Le continue oscillazioni della critica sulla destinazione d’uso del S. Giovanni coinvolgono un aspetto assai complesso che riguarda la tipologia dei battisteri e dei mausolei e le innegabili interrelazioni simboliche tra vita/rinascita e morte. Tipologicamente tra battisteri e mausolei sono sempre esistiti stretti legami, tanto dal punto di vista strutturale quanto da quello simbolico. Uno dei dogmi fondamentali della mistica del battesimo, basilare per il pensiero cristiano, è riferito nella Lettera di San Paolo ai Romani (6, 3-4), da cui si evince che il battesimo come rituale, oltre a comportare la cancellazione del peccato, porti insita l’idea di sepoltura e morte. Un’equazione mistica sembra realizzarsi tra battesimo, morte e risurrezione, intendendo per morte la morte del vecchio Adamo e una imitazione simbolica della morte di Cristo. Lo schema ottagonale, simbolo di risurrezione e rigenerazione, è l’elemento che lega il mausoleo dal punto di vista tipologico al battistero come luogo simbolico di risurrezione. La stessa motivazione fa degli edifici dedicati al Battista edifici ottagonali, a prescindere dalla presenza o meno di fonti battesimali. Non di rado questi sono edificati in aree cimiteriali, rafforzando l’equazione mistica che associa battesimo, morte e risurrezione. Si vedano, a questo proposito, le considerazioni di R. Krautheimer contenute in Introduction to «an iconography of mediaeval architecture», in Warburg Journal (1942) + Postkript (1969) + Postkript (1987), in Ausgewählte Aufsätze zur europäischen Kunstgeschichte (1988), il tutto tradotto in francese con il titolo Introduction à une iconographie de l’architecture médiévale, Paris 1993.
Un programma iconografico assai ricco ed articolato si dispiega sul portale, sui capitelli, sulle cornici, coinvolgendo angeli, scene dell’Antico e del Nuovo Testamento, nonché misteriosi personaggi con ruolo e presenza “esemplari” (e tuttavia non sempre espliciti), probabili allegorie dei Vizi e delle Virtù.
Interno del battistero.
Il portale
L’ingresso al battistero avviene attraverso una piccola porta aperta a sinistra dell’abside di S. Pietro, di semplice forma architravata, ricavata nello spessore della muratura e sormontata da due blocchi scolpiti di materiale diverso sistemati in funzione di lunetta e di architrave.
Portale di ingresso di San Giovanni in Tumba.
Sul listello piatto che li divide appare un’iscrizione mutila, genericamente ripresa dalla Bibbia, e interpretata come allusione alla redenzione insita nel battesimo:
q petis h (sempre letto da tutta la critica come quod petis habebis, “ciò che chiedi avrai”)
Lastre figurate con scene cristologiche collocate sull’ingresso attuale.
La lastra superiore, in pietra calcarea, presenta due episodi della passione di Cristo (foto sopra): la deposizione dalla croce e la risurrezione (quest’ultima attraverso la doppia iconografia delle Marie al sepolcro e del Cristo risorto accanto alla tomba).
Al primo impatto la scena appare priva di qualsiasi rapporto armonico di simmetria ed equilibrio compositivo; gli episodi si susseguono senza cesure, al ritmo ondeggiante di una danza – nella quale è coinvolto anche il precario equilibrio della croce – evocando un sentore “primordiale” che rende le figure senza sguardo e senz’anima. Per quest’aria vagamente arcaica più volte sono state indicate le assonanze con le sculture rinvenute in S. Pietro ed ora nel museo del Santuario (un’Orante e una Madonna con Bambino acefala), ricollegando tutte queste espressioni plastiche al medesimo giro di cultura e di maestranze.
Dal punto di vista iconografico, la scena dominata da Cristo in croce fa riferimento ad un preciso momento nel contesto della deposizione, cioè la schiodatura di Gesù da parte di Nicodemo, momento su cui nessuno dei quattro vangeli “ufficiali” indulge in particolari superflui, nominando solo Giuseppe d’Arimatea ed identificandolo con colui che, richiesta l’autorizzazione a Pilato, portò via il corpo di Cristo per seppellirlo. Allo stesso modo, nessuno dei quattro testi specifica l’identità degli spettatori della scena, mentre solo nel vangelo apocrifo di Nicodemo si ricorda della presenza della Madonna. La tipologia della Deposizione fu fissata per la prima volta dall’arte bizantina, cui si ricollegò gran parte della produzione di età romanica. I protagonisti, riconoscibili anche nella rappresentazione di S. Giovanni in Tumba, sono Giuseppe d’Arimatea (colto nell’atto di sorreggere il corpo che di lì a poco verrà staccato dalla croce), Nicodemo (che con l’aiuto di una grossa pinza si appresta ad estrarre il chiodo dal palmo destro del Cristo), il discepolo prediletto Giovanni e la Madonna, che nella rappresentazione della Tumba appare relegata all’estremo margine sinistro. Sulla destra di questa scena possono essere agevolmente identificati il servo con l’aceto ed il centurione.
La scena riprodotta sulla parte destra della lastra (foto sopra) appare ancora più interessante: vi sono giustapposti Giuseppe d’Arimatea mentre conduce Gesù al sepolcro, un angelo recante nella mano sinistra una croce, rivolto verso le pie donne che avanzano reggendo ognuna un vasetto; sul registro di fondo vi è il sepolcro, affiancato da due colonne e sormontato da tre lampade in sospensione, accanto al quale appare il Cristo trionfante che lo indica con un ampio gesto del braccio destro. Qui il messaggio, evocato dalle pie donne in visita al sepolcro (la classica iconografia della Risurrezione), si avvale anche dell’inconsueta – ma ben evidente – presenza di Gesù stesso, concepito come scena autonoma e complementare al tema di fondo. Quasi una novità, se pensiamo che in Occidente, fino al sec. XI, la Risurrezione è stata rappresentata solo indirettamente, attraverso l’arrivo delle Pie Donne al sepolcro vuoto, in tutto e per tutto fedele alla lettura evangelica; solo più tardi – tra Due e Trecento – la figura del Cristo risorto rimanderà direttamente ad essa, secondo un’evoluzione ritenuta frutto di una contaminazione iconografica con scene analoghe (risurrezione di Lazzaro, risurrezione dei morti nel Giudizio Universale) che, pur essendo prefigurazioni del destino di Cristo, forniscono l’immagine al Cristo stesso. L’accentuata mimica gestuale dei personaggi, più volte sottolineata, trova qui una convincente giustificazione: la rappresentazione di Cristo stesso nella scena della Risurrezione, tipica del Romanico maturo, potrebbe avere un preciso punto di riferimento nelle sacre rappresentazioni del tempo. Ai topoi del dramma liturgico si rifanno con evidenza anche le caratteristiche stesse del sepolcro, che appare fiancheggiato da due colonne e poteva essere in origine sistemato sotto un baldacchino – che ne simboleggia la santità – come nella finzione scenica.
Dettaglio della Resurrezione.
Particolare della lastra utilizzata in funzione di architrave è in marmo. La scena viene tradizionalmente identificata con la cattura di Gesù nell’orto degli ulivi; di recente, però, è stata avanzata l’ipotesi che esista un doppio livello di lettura, nel quale si sovrappongono le allusioni alla doppia natura di Cristo, umana e divina.
Diversamente dalla precedente, la lastra utilizzata in funzione di architrave è in marmo, come si evince anche dall’evidenza cromatica. Vi sono rappresentate sette figure di dimensioni tozze, condizionate dall’altezza limitata a disposizione dello scultore, avvolte in pesanti vestimenti solcati da pieghe cordonate. Al centro vi è Gesù, riconoscibile dal nimbo crociato, in posizione frontale, verosimilmente di statura maggiore resa attraverso l’artificio delle gambe divaricate che suggeriscono quasi un atteggiamento assiso “in maestà”; ai lati tre figure per parte, due delle quali – armate di bastoni – lo afferrano per la spalla e per il polso; sulla sinistra le altre due si muovono incedendo verso il centro (una di esse recando un libro) e una sulla destra reca la croce, l’ultima i chiodi destinati alla crocifissione. Dal punto di vista iconografico la scena viene tradizionalmente identificata con la cattura di Gesù nell’orto degli ulivi; di recente, però, è stata avanzata l’ipotesi che esista un doppio livello di lettura, nel quale si sovrappongono le allusioni alla doppia natura di Cristo, umana e divina, attraverso una serie di raffronti con la coeva liturgia eucaristica. Le tematiche della lunetta, dell’architrave e dei capitelli dell’interno svilupperebbero infatti una sorta di messaggio salvifico più adatto ad un mausoleo che ad un battistero, come si è voluto sottolineare confrontando certe caratteristiche del S. Giovanni in Tumba con quelle di alcune torri sepolcrali della Persia settentrionale. L’ipotesi di una ricostruzione e/o trasformazione in chiesa o battistero della primitiva fabbrica – avente una presumibile destinazione funeraria – sarebbe d’altro canto confortata da alcune evidenti incongruenze strutturali, quali l’incoerenza con il resto dell’edificio – nei modi costruttivi – della nicchia absidale.
I capitelli istoriati e le sculture erratiche Un’insolita fascia continua istoriata caratterizza l’interno della Tumba, in controtendenza rispetto alla consuetudine pugliese di privilegiare un’ornamentazione di tipo vegetale e comunque aniconico, soprattutto quando si tratti di capitelli.
capitelli istoriati.
Capitelli: salita alla montagna, sacrificio di Isacco.
Capitelli: salita alla montagna, sacrificio di Isacco – altro punto di vista.
Sono storie bibliche legate dalla comune presenza angelica (angeli nelle vesti di messaggeri e portatori delle volontà divine), come il sacrificio di Isacco (foto sopra) o l’annuncio ai pastori, tutte caratterizzate da un ritmo aspro ed angoloso e da una sorta di moto danzante, che la critica riconosce come tipico dell’esperienza delle forme plastiche aquitaniche (sud-ovest della Francia). In ogni caso è palpabile la partecipazione a nuovi orizzonti mentali, anche per la recuperata attitudine a proporre la scultura come strumento di racconto. Un racconto che sembra esprimersi compiutamente nelle scene della storia di Abramo, fissata nei due episodi fondamentali della filoxenia (Abramo saluta ed ospita i tre angeli, circostanza nella quale viene annunciata la futura nascita di Isacco) e del sacrificio di Isacco, perfetta prefigurazione della vicenda di Cristo secondo i nessi tipologici tanto cari al Medioevo.
l’annuncio ai pastori
Della parabola di salvezza e della vicenda terrena di Gesù, all’interno della quale Incarnazione e Crocifissione costituiscono i due pilastri, fa parte anche la scena riconoscibile nel capitello della parete sud-est, sulla quale si osservano una figura di profilo che muove verso sinistra con un cane al guinzaglio, levando una mano verso l’alto, seguita da una seconda figura che muove nella stessa direzione stringendo in una mano un bastone poggiato sul terreno. Entrambe le figure hanno lunghe capigliature, indossano ampie vesti pieghettate. Di prospetto appare un angelo riccamente abbigliato, recante nella sinistra una croce astile e benedicente con la destra. Completa la scena un gruppo di animali disposti su piani sovrapposti: un cane e alcune pecore. È chiara la raffigurazione dell’episodio dell’annuncio ai pastori, confortato dalla presenza sulla cornice dell’iscrizione annu(ntio) vobis gaudium magnum, secondo una formula che già compare in una formella della porta bronzea del santuario micaelico. Gli annunci ai pastori di età romanica molto spesso si rifanno ad antichi modelli di origine bizantina, come nel caso della Tumba che – fedele agli originali greci – riprende il numero di due pastori (e non tre, come in altri casi), di cui uno giovane e l’altro più anziano ad indicare – simbolicamente – che è l’umanità intera ad accogliere la buona novella. Interessante appare, nel modo di rappresentare gli animali per piani sovrapposti (quasi fossero oggetti inanimati), il riflesso di quella “paralisi” della natura che, secondo alcuni testi apocrifi, accompagnò il momento della nascita di Gesù. Nella tematica angelica e negli stringenti legami stilistici con la Francia è ravvisabile, in linea generale, l’intima connessione con le ragioni del pellegrinaggio che collegarono, sin dalle origini, i Normanni in veste di pellegrini e la montagna sacra garganica. A questo proposito è significativo che – secondo una tradizione – la dominazione normanna in Italia meridionale abbia preso le mosse da un pellegrinaggio al santuario di Monte S. Angelo; un episodio che, tramandatoci da Guglielmo Appulo, avrebbe fornito ai Normanni la legittimazione sufficiente ad inserirsi, di lì a pochi anni, nel conflitto tra Oriente e Occidente, impadronendosi del Sud nel ruolo di difensori della Chiesa. Nel percorso di salvazione non mancano gli ostacoli e i pericoli, ravvisati in alcune emblematiche raffigurazioni identificate, per le loro connotazioni negative, come vizi capitali.
Allegoria dell’avarizia.
Così accade per l’adiacente capitello occupato da una figura femminile ignuda, deforme, con gli occhi atterriti e lunga chioma sulle spalle; legata ad un nastro pende dal suo collo una borsa traboccante di monete. Quattro grossi serpenti la fiancheggiano, due all’altezza delle orecchie e due che le addentano le gambe; altre due creature mostruose si avviluppano ai serpenti, mordendole le braccia. Stilisticamente erede di una cultura più padana che francese, la si è voluta identificare con l’allegoria dell’Avarizia, anche se la sua presenza isolata in un contesto così lacunoso non permette di assegnarle coerentemente un ruolo preciso.
Cronologicamente più tarde rispetto alle figurazioni cristologiche presenti sui capitelli appaiono quelle presenti in corrispondenza della seconda cornice della cupola, a circa 16 metri di altezza dal suolo. Si tratta di tre rilievi ad essa sovrammessi raffiguranti altrettante figure muliebri accomunate – dal punto di vista iconografico – da una sorta di caratterizzazione “demoniaca”.
Da sinistra a destra: – una figura femminile in posizione eretta, avvolta in un ampio panneggio, con capelli lunghi fino alle spalle, sorregge all’altezza del petto un bambino disteso. Tra le tante interpretazioni, quella più suggestiva la identifica con la donna dell’Apocalisse, la donna «vestita di sole e di luna» che secondo la tradizione si trova a fronteggiare il drago a sette teste e dieci corna pronto a divorare il suo bambino appena nato. L’ipotesi non è da scartare a priori, sia per il collegamento con la presenza dell’arcangelo Michele (che nel testo apocalittico affronta il drago salvando la donna), sia per il suo valore simbolico (grazie al quale costituirebbe una sorta di pendant con la Natività di Cristo annunciata ai pastori su uno dei capitelli del piano terra) all’interno delle tematiche della caduta e del riscatto, fili conduttori di tutte le raffigurazioni della Tumba. Inoltre, il combattimento di san Michele con il dragone cela simbolicamente l’immagine del Battesimo e della rigenerazione;
– una figura femminile con lunghi capelli, in posizione sdraiata, alle prese con un serpente avviluppato a lei, raffigurato con la bocca spalancata nell’atto di addentarla al petto. Gli studiosi concordano nell’identificarla con l’allegoria della Lussuria, vizio capitale tematicamente ed iconograficamente affine all’Avarizia rappresentata su uno dei capitelli del piano terra.
– un rilievo parzialmente lacunoso con una figura femminile dalle lunghe chiome scarmigliate, in posizione distesa come avvolta nel torpore del sonno, addentata agli arti da una figura mostruosa. Per queste caratteristiche, nel tentativo di accomunarla a tematiche già presenti nella Tumba e più esplicite, alcuni studiosi l’hanno identificata con l’allegoria dell’Accidia.
Figure femminili di controversa interpretazione.
DA LEGGERE: Liber de apparitione sancti Michaelis in Monte Gargano, MGH, Scriptores rerum Langobardicarum et Italicarum saec. VI-IX, Hannoverae 1878.
Per la chiesa di S. Pietro: M. Rotili, La diocesi di Benevento, in Corpus della scultura altomedievale, V, Spoleto 1966, pp. 103-106; L. Lotti, Problemi storici e artistici relativi al complesso monumentale di S. Pietro, della Tomba di Rotari e di S. Maria Maggiore in Monte Sant’Angelo, Bari 1978 (con bibl. precedente); M. Salvatore, Le sculture del museo del santuario, in Il Santuario di S. Michele sul Gargano cit., pp. 431-502; G. Otranto, Il “Liber de Apparitione” e il culto di S. Michele sul Gargano nella documentazione liturgica altomedievale, in «Vetera Christianorum», 18 (1981), pp. 423-442; Id., Il “liber de Apparitione”, il Santuario di S. Michele sul Gargano e i Longobardi del Ducato di Benevento, in Santuari e politica nel mondo antico, a cura di M. Sordi, Milano 1983, pp. 210-245; B. Apollonj Ghetti, La cosiddetta Tomba di Rotari sul Gargano ed i suoi rapporti con le chiese di S. Pietro e S. Maria Maggiore, in Storia e Arte nella Daunia medievale, Atti della I Settimana sui Beni Storico-Artistici della Chiesa in Italia. Area culturale della Capitanata (Foggia 26-31 ott. 1981), a cura di G. Fallani, Foggia 1985, pp. 161-177; P. Belli D’Elia, La Puglia [Italia romanica, 8], Milano 1987, pp. 393-404; G. Bertelli, Linee e tendenze artistiche della scultura paleocristiana e altomedievale della capitanata, in Contributi per la storia dell’arte in Capitanata tra medioevo ed età moderna. 1. La scultura, a cura di M.S. Calò Mariani, Galatina 1989, pp. 27-30; A. Campione, Storia e santità nelle due Vitae di Lorenzo vescovo di Siponto, in «Vetera Christianorum», 29 (1992), pp. 169-213; G. Bertelli Buquicchio, voce Monte Sant’Angelo, in Enciclopedia dell’Arte Medievale, vol. VIII, 1997, pp. 532-533; M. Trotta – A. Renzulli, I luoghi del Liber de apparitione di S. Michele al Gargano: l’ecclesia beati Petri, in Vetera Christianorum, 35 (1998), pp. 335-359; G. Bertelli, Monte Sant’Angelo. La chiesa di San Pietro, in L’Angelo la Montagna il Pellegrino. Monte Sant’Angelo e il santuario di San Michele del Gargano, catalogo della mostra documentaria a cura di P. Belli D’Elia, Grenzi, Foggia 1999, pp. 84-86. G. Bertelli, L’area di S. Pietro, in Fragmenta. Il Museo Lapidario del Santuario micaelico del Gargano, a cura di S. Mola e G. Bertelli, Grenzi, Foggia 2001, pp. 43-57.
Per S. Giovanni in Tumba: E. Bertaux, L’art dans l’Italie méridionale, Paris 1904, 2ª ed., pp. 679-682; E. Bernich, Il battistero di Montesantangelo (Ad Emilio Bertaux), in Napoli Nobilissima, XV (1906), pp. 86-87; G. Tancredi, La Tomba di Rotari, Manfredonia 1941; A. Petrucci, Un monumento misterioso: la tomba di Rotari in Monte S. Angelo, Manfredonia 1941; C. Angelillis, La Tomba di Rotari, Foggia 1969; F.P. Fischetti, Il santuario garganico dell’Apocalisse e la tribuna di S. Giovanni in Tomba (detta di Rotari), Monte Sant’Angelo 1972; Id., S. Giovanni in Borgo a Pavia e la Tomba di Rotari a Monte Sant’Angelo, Torino 1974; G. Mongiello, Il battistero di S. Giovanni a Monte Sant’Angelo, in «Arte Cristiana», 63 (1975), pp. 151-180; M.S. Calò Mariani, Aggiornamento all’opera di Emile Bertaux, L’Art dans l’Italie Méridionale, V, Rome 1978, pp. 811-901 (pp. 866-872); L. Lotti, Problemi storici e artistici relativi al complesso monumentale di S. Pietro, della Tomba di Rotari e di S. Maria Maggiore in Monte Sant’Angelo, Bari 1978 (con bibl. precedente); B. Apollonj Ghetti, La cosiddetta Tomba di Rotari sul Gargano ed i suoi rapporti con le chiese di S. Pietro e S. Maria Maggiore, in Storia e Arte nella Daunia medievale, Atti della I Settimana sui Beni Storico-Artistici della Chiesa in Italia. Area culturale della Capitanata (Foggia 26-31 ott. 1981), a cura di G. Fallani, Foggia 1985, pp. 161-177; P. Belli D’Elia, La Puglia [Italia romanica, 8], Milano 1987; M.S. Calò Mariani, L’arte medievale e il Gargano, in La Montagna Sacra. San Michele, Monte Sant’Angelo. Il Gargano, a cura di G.B. Bronzini, Galatina 1991, pp. 9-96; S. Mola, Monte Sant’Angelo. Il battistero di San Giovanni in Tumba, in L’Angelo la Montagna il Pellegrino. Monte Sant’Angelo e il santuario di San Michele del Gargano, catalogo della mostra documentaria a cura di P. Belli D’Elia, Grenzi, Foggia 1999, pp. 92-105; S. Mola, Monte Sant’Angelo, in In cacumine beati Archangeli, Atti del Convegno Internazionale di Studi (Foggia-Manfredonia-Monte Sant’Angelo 11-13 novembre 1999), a cura di C.D. Fonseca (relazione in corso di pubblicazione); A. Trivellone, L’iconographie de deux bas-reliefs de Saint-Jean-in-Tumba à Monte Sant’Angelo (Pouilles). Narration de la Passion et liturgie de l’Eucharistie, in «Cahiers de civilisation médiévale», 45 (2002), p. 141-164; S. Mola, L’iconografia della salvezza sulle strade dei pellegrini, in Tra Roma e Gerusalemme nel Medioevo, Atti del Convegno Internazionale di Studi (Salerno-Cava dei Tirreni-Ravello 25-29 ottobre 2000), a cura di M. Oldoni, Laveglia Editore, Salerno 2003, pp. 389-408 (in corso di stampa).
Testo di Stefania Mola – Ricerca iconografica di Alberto Gentile
Stefania Mola Nata a Napoli, si è laureata in Lettere Moderne a Bari e successivamente specializzata in Storia dell’Arte Medievale presso la Scuola di Storia dell’Arte e delle Arti Minori dell’Università «Federico II» di Napoli. Attualmente è caporedattore della Mario Adda Editore di Bari. In precedenza ha collaborato per diversi anni con la Soprintendenza ai Beni AAAS della Puglia, con quella ai Beni AS della Basilicata, con l’Università di Bari, nonché con enti pubblici e privati operanti nel settore dei beni culturali.
Testo a cura di Stefania Mola – ricerca iconografica di Alberto Gentile.
La fondazione La chiesa di Santa Maria Maggiore è una stretta aula a tre navate, sviluppata su tre campate poggianti su pilastri cruciformi che sostengono archi a sesto rialzato. L’edificio attuale è coperto da volte a botte lunettata e a crociera, probabile frutto dei rifacimenti settecenteschi, mentre originale è la cupola emisferica sulla terza campata della navata centrale. Ritenuto da alcuni cattedrale di Monte Sant’Angelo, l’edificio viene tradizionalmente attribuito alla committenza del vescovo Leone, ed alla sua volontà di trasferire sulla montagna dell’Arcangelo la lontana eco della cattedrale sipontina (almeno per quel che si pensa dell’originaria tessitura della facciata, che si vuole riecheggiata in quella attuale). La fondazione originaria occupò un terreno roccioso in forte pendenza, interessato precedentemente dall’area cimiteriale di pertinenza della chiesa di S. Pietro. Le tracce concrete della redazione dell’XI secolo potrebbero essere rintracciabili nell’abside, nel soccorpo e nelle lesene all’interno della facciata.
Interno della chiesa – affresco su una colonne – San Vito.
Interno della chiesa – affresco su una colonna – San Bartolomeo.
Interno della chiesa – affresco su una colonna – Santa Margherita, martire in Pisidia.
La riedificazione Al tempo della reggenza di Costanza d’Altavilla, madre di Federico II di Svevia, si intraprese la ristrutturazione globale della chiesa innestando le prime esperienze sveve sul robusto ceppo del romanico di Capitanata. Il piano di calpestio dell’antica chiesa venne ribassato, per accentuare lo slancio dei pilastri di sostegno e, contestualmente, l’aula venne prolungata verso valle, sino al limite consentito dall’abside della chiesa di S. Pietro. A conclusione dei lavori, che iniziarono nel 1198, fu realizzato il nuovo prospetto che presumibilmente conservò il ricordo dell’impaginazione originaria (a cinque arcate cieche su lesene, tra le quali furono sistemate preziose losanghe con il fondo ornato da motivi floreali) arricchendosi però di un esuberante portale dotato di un protiro pensile poggiato su grifi ed esaltato da una particolare dovizia di pregevoli ornati. Ancora una volta, nelle forme plastiche e nel repertorio figurativo (tanto del portale, quanto delle mensole del cornicione e degli spioventi), emersero gli stretti rapporti culturali intercorrenti tra la Capitanata e l’Abruzzo (filtrati probabilmente dalla presenza del vicino monastero di Pulsano) ma anche le connessioni con esperienze dell’area occidentale della Francia e con la produzione gerosolimitana. L’altare fu solennemente commissionato dal canonico Luca nel 1225, mentre il cantiere procedeva presumibilmente alla realizzazione degli arredi interni. Agli esiti della cripta della collegiata di Foggia, ed in generale ad opere di età ormai pienamente federiciana, dovettero invece guardare gli esecutori dei capitelli.
Affresco di San Michele Bizantino – chiesa di Santa Maria Maggiore – Monte Sant’Angelo. XII Sec.
Più tenacemente ancorata al repertorio figurativo bizantino (perdurante grazie alla fedeltà ai tradizionali modi pittorici, poco aperti alle novità che investivano invece l’architettura e le espressioni plastiche) fu invece la prima stesura degli affreschi di S. Maria, fedeli (nelle effigi dell’Arcangelo Michele, di San Francesco e dei Santi vescovi, e nella scena dell’Annunciazione) a consuetudini largamente diffuse in Capitanata nel corso del Duecento (se non oltre).
Affresco dell’Annunciazione, purtroppo deturpato negli anni a causa della apposizione di lapidi commemorative e stemmi – Monte Sant’Angelo, chiesa di Santa Maria Maggiore.
Chiesa di Santa Maria Maggiore a Monte Sant’Angelo. Affresco della Madonna con Bambino, sulla destra una donna con testa coronata che è stata identificata con Santa Lucia perchè con la mano sinistra tiene un calice con due occhi.
L’immagine di san Francesco affrescata in Santa Maria Maggiore fu una tra le più antiche conosciute nella regione, in omaggio a quella tradizione secondo la quale il Santo visitò il santuario nel 1216, imprimendo in un sasso la croce a tau prima di entrare nella grotta, a ricordo della sua umile preghiera.
Chiesa di Santa Maria Maggiore – Monte Sant’Angelo. San Francesco ancora senza stimate ma con l’aureola (è probabile che l’aureola sia stata aggiunta successivamente). Quello di Monte Sant’Angelo è considerato il più antico affresco di San Francesco in Puglia.
Sant’Ippolito Cavaliere sulla parete sinistra.
San Giorgio che trafigge il Drago sulla parete destra.
Il portale Un’iscrizione sovrastante il timpano del sontuoso portale ci informa che nel 1198, regnando Costanza imperatrice con suo figlio Federico, un sacerdote di nome Benedetto diede inizio alla costruzione della fabbrica in onore della Vergine. Non necessariamente dunque tale data si riferisce al portale, che verosimilmente poté essere posto in opera solo a conclusione dei lavori della facciata, o almeno a prospetto impostato. Stilisticamente infatti ci troviamo di fronte ad un contesto tardoromanico, tipico del Duecento maturo, siglato dalle caratteristiche esuberanti dell’ornato, contraddistinto da una certa durezza di intaglio e dall’iterazione meccanica di un repertorio decorativo diffuso. Nella lunetta, insieme alla Madonna in trono ed a due angeli, furono effigiate anche due figure adoranti, nelle quali si sono voluti riconoscere l’imperatrice Costanza ed il sacerdote Benedetto II, probabile committente della ricostruzione dell’edificio citato nell’iscrizione.
Portale della chiesa di Santa Maria Maggiore.
Particolari del portale – Nella lunetta, insieme alla Madonna in trono ed a due angeli, anche due figure adoranti, probabilmente l’imperatrice Costanza ed il sacerdote Benedetto II.
Le sculture del portale, al pari di quelle delle mensole del cornicione e degli spioventi della chiesa, documentano gli stretti rapporti intercorsi tra Capitanata e Abruzzo tra XII e XIII secolo, mediati forse da Pulsano.
DA LEGGERE: Ar. Petrucci, Cattedrali di Puglia, Bestetti, Roma 1964, pp. 41-44; F. Jacobs, Die Kathedrale S. Maria Icona Vetere in Foggia. Studien zur Architektur und Plastik des 11.-13. Jh. in Süditalien, Hamburg 1968, pp. 42-48; H. u H. Buschhausen, Die Marienkirche von Apollonia in Albanien. Byzantiner, Normannen und Serben im Kampf um die Via Egnatia, Wien 1976, pp. 324-329; M.S. Calò Mariani, in Aggiornamento all’opera di Emile Bertaux, L’Art dans l’Italie Méridionale, V, Rome 1978, pp. 821-824; L.L. Lotti, Problemi storici e artistici relativi al complesso di S. Pietro, della Tomba di Rotari e di S. Maria Maggiore in Monte S. Angelo, Bari 1978; M.S. Calò Mariani, L’arte del Duecento in Puglia, Istituto Bancario San Paolo, Torino 1984, pp. 32-34; P. Belli D’Elia, La Puglia [Italia Romanica, 8], Jaca Book, Milano 1987, pp. 452-453; M.S. Calò Mariani, L’arte medievale e il Gargano, in La montagna sacra. San Michele Monte Sant’Angelo il Gargano, a cura di G.B. Bronzini, Congedo, Galatina 1991, pp. 44 ss.; S. Mola, Monte Sant’Angelo. La chiesa di Santa Maria Maggiore, in L’Angelo la Montagna il Pellegrino. Monte Sant’Angelo e il santuario di San Michele del Gargano, catalogo della mostra documentaria a cura di P. Belli D’Elia, Grenzi, Foggia 1999, pp. 106-111.
Testo a cura di Stefania Mola – ricerca iconografica di Alberto Gentile.
Stefania Mola Nata a Napoli, si è laureata in Lettere Moderne a Bari e successivamente specializzata in Storia dell’Arte Medievale presso la Scuola di Storia dell’Arte e delle Arti Minori dell’Università «Federico II» di Napoli. Attualmente è caporedattore della Mario Adda Editore di Bari. In precedenza ha collaborato per diversi anni con la Soprintendenza ai Beni AAAS della Puglia, con quella ai Beni AS della Basilicata, con l’Università di Bari, nonché con enti pubblici e privati operanti nel settore dei beni culturali.
Ritratto di Carlo I d'Angiò, statua in marmo di Arnolfo di Cambio (Roma, Musei Capitolini).
Uomo di carattere forte e determinato nacque a Parigi il 21 marzo del 1226, ultimo dei sette figli di re Luigi VIII di Francia detto il Leone e Bianca di Castiglia. La morte del padre otto mesi dopo la sua nascita e poi, nel 1232, quella di due fratelli (Giovanni e Filippo Dagoberto) lo lasciarono erede di vasti possedimenti nella Francia centrale, fra cui l’Angiò e il Maine. Si sa poco della sua prima infanzia, eccetto che fino a dieci anni restò con la madre Bianca, donna di grande rigore morale e religioso, che con l’aiuto dei figli governò la Francia fino alla maggiore età del primogenito Luigi IX e anche oltre per scelta dello stesso sovrano. Carlo, a differenza del fratello maggiore Luigi, fu poco influenzato dall’educazione religiosa ricevuta dalla madre. Tra gli undici ed i quindici anni frequentò le corti dei fratelli maggiori, fu spesso vicino a loro in varie imprese militari. Nel novembre del 1245 a Cluny, con la mediazione del fratello Luigi IX e della madre Bianca, ebbe l’approvazione di papa Innocenzo IV a sposare Beatrice di Provenza, che aveva ereditato dal padre, il conte Raimondo Berengario IV, il titolo di contessa di Provenza e Forcalquier. Il 31 gennaio1246, ad Aix, Carlo sposò Beatrice gettando così le basi della sua futura potenza. Tale unione fu appoggiata da papa Innocenzo IV perché temeva un possibile matrimonio tra Beatrice e Corrado, figlio di Federico II. Carlo resse il governo della contea di Provenza e Forcalquier in maniera totalitaria ed dispotica.
Ritratto di Carlo I d’Angiò (autore- Henry Decaisne, 1845 – Pinacoteca della Reggia di Versailles).
Nel 1248 partì al seguito del fratello Luigi IX per settima crociata, in Egitto. Dopo una sosta di circa sei mesi a Cipro, Carlo raggiunse l’Egitto nel 1249, dopo aver conquistato Damietta, fu sconfitto nella battaglia di Mansura nel febbraio 1250. Lui e gli altri membri della famiglia reale subirono un breve prigionia, poi nella primavera del 1251 decise di rientrare in Francia, dove erano scoppiate alcune rivolte ad Arles ed Avignone. Nel luglio del 1251, fece così ritorno in Provenza insieme al fratello, Alfonso.
Alla morte dell’imperatore Federico II, il pontefice Innocenzo IV cominciò a cercare un nuovo sovrano per il Regno di Sicilia e, quando nel 1252 Corrado IV pretese sia la dignità imperiale sia la corona di Sicilia, egli si rivolse a Riccardo di Cornovaglia e al conte Carlo d’Angiò. Le trattative però fallirono con entrambi. Dopo la morte di Corrado IV, avvenuta nel 1254, Manfredi diventò capo della Casa Sveva ed entrò subito in contrasto con Innocenzo IV che il 12 settembre dello stesso anno lo scomunica. Ma il pontefice per evitare uno scontro diretto revoca l’anatema e nomina Manfredi vicario per la maggior parte dei territori continentali del Meridione, in cambio del riconoscimento dell’autorità papale sul Regno di Sicilia. Il 7 dicembre del 1254 Innocenzo IV rese l’anima a Dio e al soglio pontificio salì Alessandro IV, che si mostrò debole ed indeciso. Manfredi ne approfittò per riconquistare il Regno che spettava per diritto al nipote Corradino. Il 10 agosto del 1258 Manfredi si fa incoronare a Palermo sovrano del Regno di Sicilia. Alessandro IV dichiara nulla l’incoronazione. Nel nuovo ruolo, Manfredi rafforza la compagine interna del Regno, distruggendovi ogni residuo di ribellione e dissenso. Contemporaneamente, cerca in Italia ed in Germania alleanze contro il Papato ed i nemici che questi gli avrebbe inevitabilmente procurato.
Nel 1261 fu eletto papa il francese Jacques Pantaléon di Troyes, col nome di Urbano IV, questi era molto vicino ai reali di Francia. Il nuovo pontefice, temeva che Manfredi volesse estendere i suoi domini su tutta la Penisola, allora si rivolse Luigi IX per liberarsi di Manfredi. Urbano IV in un primo tempo fece anche un tentativo di accordo con lo svevo senza risultati soddisfacenti, così il 29 marzo 1263 scomunicò Manfredi e lo dichiarò decaduto dal trono. Ci furono ancora negoziati con la corona francese che durarono a lungo, proseguendo anche sotto il pontificato di Clemente IV (Guy Fouquois altro amico della casa reale di Francia), per concludersi il 30 aprile 1265. La Chiesa voleva mantenere la sovranità feudale sul regno. Inoltre chiedeva che la città di Benevento restasse sotto il controllo pontificio. Il papa ottenne che il sovrano non avrebbe dovuto influenzare le elezioni ecclesiastiche né esercitare sui religiosi i propri diritti giurisdizionali e fiscali. Fu vietata l’unione dell’Impero romano col Regno di Sicilia; inoltre il nuovo sovrano non avrebbe potuto accettare l’elezione a re di Germania né avrebbe potuto avere pretese nei territori dell’Italia settentrionale e della Toscana. L’anno successivo Carlo avrebbe dovuto lasciare la Provenza con almeno 1.000 cavalieri e 300 lancieri e tre mesi più tardi entrare nel Regno. Nel frattempo il cardinale Riccardo Annibaldi, aveva fatto eleggere Carlo d’Angiò senatore di Roma. Il 6 gennaio 1266 Carlo fu incoronato nella basilica del Laterano re di Sicilia da Clemente IV alla presenza di cinque cardinali.
Carlo I viene incoronato da papa Clemente IV e cinque cardinali.
Il 20 dello stesso mese partì con l’esercito verso il Sud, subito raggiunse e conquistò San Germano. Manfredi, nel frattempo, aveva abbandonato Capua per rientrare in Puglia. Carlo cercò di anticiparlo e avanzò lungo le valli del Volturno e del Calore in direzione di Benevento, dove si portava anche l’armata di Manfredi. Il 26 febbraio si scontrarono e fu battaglia nei pressi del monte San Vitale, a nord-ovest di Benevento. Dopo un primo attacco degli arcieri saraceni e dei cavalieri tedeschi parve che lo scontro volgesse a favore degli Svevi. Ma poco dopo ci fu la defezione, dei romani, dei campani, dei lombardi e dei toscani dell’esercito di Manfredi. Nello scontro campale Manfredi morì. La strada verso la conquista del Regno era ormai aperta per l’Angioino.
Battaglia di Benevento – Codice Chigi
Carlo, non si fidò della nobiltà e dei funzionari del Regno, così, dopo aver affidato la gestione del regno a nuovi funzionari, per lo più stranieri, impose ai nuovi sudditi un governo dispotico e totalitario. Impose nuovi prelievi fiscali per mantenere il grande apparato militare ed amministrativo angioino. La nobiltà ed il popolo del Regno presto si esasperarono e subito cercarono un uomo che potesse liberali dal dispotico Carlo. I ghibellini, videro un potenziale liberatore nel giovane Corradino di Svevia, figlio di Corrado IV, nipote di Manfredi e ultimo discendente della dinastia degli Hohenstaufen.
Mentre nell’Italia meridionale erano accesi fuochi di resistenza nei confronti di Carlo d’Angiò, che fu costretto a precipitarsi verso il sud per cercare di reprimere almeno le principali opposizioni, il giovane Hohenstaufen varcò i confini dell’Italia recandosi verso il regno di Sicilia. Corradino fu ben accolto dalle città imperiali dell’Italia settentrionale, ricevette una calorosa accoglienza nella ghibellina Pisa che lo incoraggiò a continuare la marcia verso il Sud. Giunto a Roma vi entrò trionfalmente, ponendo le premesse per una facile vittoria. Fu allora che Carlo d’Angiò, abbandonato l’assedio della colonia musulmana di Lucera che aveva intrapreso per onorare una promessa formulata al Pontefice, si mise in marcia per intercettare al più presto l’esercito di tedesco. L’incontro avvenne sul confine del Regno di Sicilia presso Tagliacozzo, era il 23 agosto 1268. Dopo le prime mosse di assaggio, i comandanti dei due eserciti iniziarono lo scontro campale. L’esito della battaglia si mantenne a lungo incerto, la carneficina fu enorme finché gli Angioini più numerosi, freschi, e forse meglio organizzati, ebbero la meglio. In un primo momento il giovane Corradino riuscì a sottrarsi alla cattura, iniziando una rocambolesca quanto umiliante fuga. Riuscì ad arrivare a Roma dove non fu protetto. Mentre tentava di fuggire in Sicilia via mare, l’8 settembre Corradino venne catturato insieme ai suoi fedeli compagni Federico di Baden, Galvano e Galeotto Lancia, Napoleone Orsini e Riccardo Annibaldi fu catturato nei pressi di Anzio dal signore locale Giovanni Frangipane che poi consegnò i prigionieri alle milizie Angioine dietro pagamento di denaro.
Portato in catene a Napoli, Corradino fu sottoposto ad un processo, assieme ad alcuni suoi fedelissimi: quali delitti potevano essergli contestati, tranne quello di voler onorare il nome della dinastia e di affermare i propri diritti? Condannato a morte, fu decapitato a soli sedici anni il 29 ottobre 1268 sul patibolo eretto in Campo Miricino, l’odierna Piazza del Mercato della città partenopea. Con questa morte che all’epoca destò grande scalpore, finivano gli Hohenstaufen.
Decapitazione di Corradino.
Degno di menzione è il fatto che nel 1267 era morta Beatrice di Provenza e nel 1268, Carlo sposò in seconde nozze, Margherita di Borgogna (1248 – 1308), contessa di Tonnerre.
Dopo essersi liberato della dinastia sveva Carlo tornò a governare il Regno in maniera ancor più rigida e dispotica, sostituì i nobili ribelli con nobili francesi, confiscò tutti i beni agli avversari e arrivò a trasferire la capitale del regno da Palermo a Napoli. In breve tempo riuscì ad avere la meglio su molte città dell’Italia settentrionale, ottenne giuramento di fedeltà dalle città guelfe, così si trovò a capo della fazione guelfa in tutta la Penisola.
Seguì quindi, ancora una volta, il fratello Luigi IX nell’ottava crociate contro Tunisi, nel corso di questa crociata il sovrano francese rese l’anima a Dio.
Morte di re Luigi IX il Santo a Tunisi, Carlo d’Angiò è in ginocchio in preghiera.
Successivamente Carlo acquisì nuovi territori e i titoli di re d’Albania (1272), re di Gerusalemme (1277) e principe di Acaia (1267-1277).
Ma nel 1273, grazie all’impegno dei ghibellini di Genova, nel giro di breve tempo Carlo perse il controllo dell’Italia settentrionale; in poco tempo la sua posizione si indebolì notevolmente anche in Toscana.
La continua attività espansiva del re angioino, la gestione politica affidata ai francesi e l’eccessiva imposizione fiscale causarono grande malcontento particolarmente in Sicilia. Questa politica autoritaria ed vessatoria e la perdita del ruolo di capitale di Palermo portò i siciliani alla ribellione che esplose il 30 marzo del 1282 a Palermo prima della funzione dei vespri. In breve tempo quasi tutti gli Angioini furono mandati via dall’Isola. Il 25 luglio, Carlo, sbarcò in Sicilia con le truppe destinate alla guerra greca e assediò Messina, che resistette per ben due mesi. I Siciliani si rivolsero al re di Aragona, Pietro III il Grande, che aveva sposato Costanza di Hohenstaufen, figlia di Manfredi. Il sovrano aragonese sbarcò a Trapani il 30 agosto con circa 9000 soldati e riuscì, in meno di un mese, a liberare l’Isola da Carlo.
Carlo, nel luglio del 1283, tentò un’invasione della Sicilia concentrando una flotta a Malta, ma l’ammiraglio Ruggero di Lauria sventò il tentativo sorprendendo la flotta e distruggendone una parte. Il 5 giugno del 1284 ci fu un nuovo scontro tra la flotta Aragonese e quella Angioina guidata dal figlio di Carlo, Carlo lo Zoppo. Ebbe la meglio la flotta Aragonese, così Carlo, che aveva in animo di riconquistare l’isola dovette momentaneamente rinunciarvi e si recò in Puglia per riorganizzarsi. Durante questo viaggio si ammalò gravemente Il 6 gennaio 1285 fece redigere il suo testamento in cui si stabiliva che, nel caso che il suo zoppo e da lui disprezzato figlio ed erede non fosse stato liberato dalla prigionia, la successione sarebbe toccata a suo nipote Carlo Martello, nominò suo fratello Roberto II d’Artois regente. Il 7 gennaio 1285 morì a Foggia. Le viscere furono custodite nella cattedrale di Foggia, le spoglie a Napoli e il cuore a Parigi in un monumento funebre nella Basilica di Saint Denis. (Alessandro De Troia)
Morte di Carlo d’Angiò. Miniatura dalla Cronica del Villani, XIV secolo (Codice Chigi L.VIII.296 dal sito della biblioteca vaticana).
Il 7 gennaio 1285 moriva a Foggia Carlo I d’Angiò. Le viscere furono custodite nella cattedrale di Foggia, il cuore a Parigi e le spoglie a Napoli (Alessandro De Troia). Lapide commemorativa della morte di Carlo I conservata in una cappella laterale della Cattedrale di Foggia – foto di Alberto Gentile.
Gli successe il figlio Carlo lo Zoppo, che al momento della morte di Carlo I era tenuto prigioniero in Aragona.
Reale – Moneta d’oro coniata da Carlo I d’Angiò
Tomba di Carlo I d’Angiò – Basilica di Saint Denis.
• Jacques Le Goff, San Luigi, Torino, Einaudi, 1996. • Steven Runciman, I Vespri siciliani: storia del mondo mediterraneo alla fine del tredicesimo secolo, Milano, Rizzoli, 1976. • Paolo Golinelli, Breve storia dell’Europa medievale: uomini, istituzioni, civiltà, 2ª ed., Pàtron. 2004. • Massimo Montanari, Storia medievale, Laterza, 2006. • Guido Iorio, Carlo I d’Angiò. Biografia politicamente scorretta di un “parigino” a Napoli, Roma, GEDI, 2018.
Veduta aerea del Castello Svevo Angioino di Lucera. All'interno quello che resta del palazzo imperiale di Lucera a base quadrangolare. Esternamente le mura di cinta con torri erette da Carlo I D'Angiò. - (per gentile concessione di Raffaele Battista)
La fortezza di Lucera occupa la spianata alla sommità del Monte Albano, dove si suppone fosse in origine un’arx romana. La cinta muraria ha un impianto poligonale irregolare e si sviluppa per la lunghezza di quasi un chilometro, con una cortina muraria rafforzata da quindici torri quadrangolari lungo i lati settentrionale, occidentale e meridionale, mentre il lato orientale è delimitato da due torri circolari (della Leonessa merlata, alta 25 metri e larga 14 e del Leone alta 15 metri e larga 8) ed è intervallato da sette torri pentagonali. Sempre il lato orientale ha due cortine sfalsate che accolgono l’ingresso principale alla fortezza, al cui interno venne racchiuso il già esistente palazzo di Federico II probabilmente eretto nel 1233.
Lucera. Veduta del Castello (stampa) di Desprez Louis Jean (secc. XVIII/ XIX)
Nel 1269 Carlo I d’Angiò diede ordine ai magistri giurati di Capitanata di procedere all’acquisto di calce e pietre, nonché alla fornitura di buoi per la costruzione di una fortezza. La costruzione di questa fortificazione militare si deve al contributo di alcuni tra i migliori architetti dell’epoca, quali Pierre d’Angicourt, Riccardo da Foggia, Pierre de Chaulnes, Jean de Toul e Nicola di Bartolomeo da Foggia. Tra il 1270 ed 1273 l’architetto Pierre d’Agincourt costruisce il fronte orientale con le torri pentagonali. Tra il 1276 ed il 1282 venne ultimata la torre della Leonessa, che Pierre d’Agincourt aveva lasciato al rustico, e si dà avvio alla costruzione dell’ala residenziale. Agli architetti Carlo d’Angiò diede anche l’incarico di ristrutturare il palatium federiciano, quindi ciò che ci è pervenuto con il passare dei secoli è la sintesi tra l’edificio originario e la ristrutturazione avvenuta per mano degli angioini, l’immagine del palatium svevo che ci è stata tramandata dai disegni del francese Jean-Louis Desprez ne è la testimonianza grafica.
In epoca angioma la fortezza racchiudeva una vera e propria cittadella che contenente gli alloggi, una cappella, una cisterna per la raccolta delle acque piovane ed un ponte sul fossato. La cisterna di forma circolare era posta nell’area che va dalla Torre del Leone a Porta Lucera; profonda 14 metri, garantiva la riserva idrica del fortilizio. Oggi della fortezza si conserva solo la cinta muraria esterna mentre del palazzo federiciano resta solo uno spoglio basamento, come anche delle strutture sorte all’interno del grandioso recinto in epoca angioina.
Da Lucera et les colonies provençales de la Capitanate (Pouilles) di Luigi Zuccaro, Foggia 1894
Molte delle informazioni giunte fino ai nostri giorni, relative alla fortezza di Lucera, si devono alle ricerche compiute da Eduard Sthamer che ha analizzato molti documenti presso gli Archivi napoletani, egli ha trascritto i documenti della cancelleria angioina, andati poi distrutti nel 1943. Molto di quello che sappiamo sulle fortificazioni del 13° secolo si deve anche agli studi compiuti da Arthur Haseloff, per lui sono stati fondamentali le ricerche dello Sthamer. L’Haseloff ha ripreso il tema dell’architettura sveva in Puglia su incarico dell’Istituto Storico Prussiano di Roma con la sua pubblicazione: «Architettura Sveva nell’Italia Meridionale» (1920).
Castello svevo-angioino, torre della Leonessa – Anno 1907 – Foto di Arthur Haseloff
Tra le immagini ci sono alcune foto scattate dallo studioso tedesco Haseloff, lo stesso è anche ritratto in una foto.
Lucera – Lo studioso Tedesco Arthur Haseloff (1872-1955) fotografa il castello. Sullo sfondo si intravede la torre del Leone. Foto scattata da Wackernagel Martin – anno 1908
Castello svevo-angioino – Anni 20 secolo scorso.
Primi 900 – Scavi archeologici al castello sotto la guida di Federico Spedalieri (in primo piano).
Veduta aerea del Castello Svevo Angioino di Lucera. All’interno quello che resta del palazzo imperiale di Lucera a base quadrangolare. Esternamente le mura di cinta con torri erette da Carlo I D’Angiò. – (per gentile concessione di Raffaele Battista)
Eduard Sthamer, L’amministrazione dei castelli nel Regno di Sicilia sotto l’imperatore Federico II e Carlo I d’Angiò. Le costruzioni degli Hohenstaufen nell’Italia Meridionale, Vol. integrativo I, Lipsia 1914.
Haseloff 1920: Arthur Haseloff, Die Bauten der Hohenstaufen in Unteritalien, Leipzig 1920 (Textband; Tafelband). (trad. it. Architettura sveva nell’Italia meridionale, a cura di M.S. Calò Mariani, Bari 1992);
Willelmsen 1979: Carl Arnold Willelsem, I castelli di Federico II nell’Italia meridionale, Napoli 1979
R. Licinio, Castelli medievali. Dai Normanni a Federico II e Carlo I d’Angiò, presentazione di G. Musca, ivi 1994
Houben 1998: Hubert Houben, “Zur Geschichte der Festung Lucera unter Karl von Anjou”, in Forschungen zur Reichs-, Papst- und Landesgeschichte. Festschrift für Peter Herdezum 65. Geburtstag, a cura di K. Borchhardte e E. Buenz, Stuttgart 1998, I, 403-409.
Calò Mariani 2001: Maria Stella Calò Mariani, Archeologia, storia e storia dell’arte medievale in Capitanata (Bari 1992), Bari 2001.
Raffaele Licinio, Lucera, in Enciclopedia Federiciana, Istituto dell’Enciclopedia Italiana Treccani;
Veduta laterale della chiesa abbaziale di San Leonardo di Siponto vista dalla strada s.s. 89.
Localizzazione
L’Abbazia di San Leonardo in Lama Volara detta di Siponto dedicata a San Leonardo di Noblac, è uno splendido esempio di romanico pugliese, si trova a pochi chilometri da Manfredonia, lungo la strada s.s. 89 che da Foggia porta alla montagna sacra, il Gargano, poco distante dal luogo ove sorgeva l’antico vescovado di Siponto, insediamento romano prima e poi bizantino. È un antico complesso risalente al XII sec. costituito dalla Chiesa, dal Monastero e dall’Ospedale.
Veduta prospettica dell’Abbazia di San Leonardo, da un manoscritto del XVII sec. custodito presso la biblioteca provinciale di Foggia.
San Leonardo di Siponto dall’Atlante illustrato di Heinrich Wilhelm Schulz.
Cronologia
Il complesso monastico fu fondato tra gli ultimi anni del secolo XI e i primi del sec. XII dai Canonici Regolari di Sant’Agostino come ricovero, ospizio per i pellegrini che si recavano al Santuario dell’Arcangelo Michele e per i cavalieri crociati che, dopo aver pregato, presso il Santuario, s’imbarcavano per la terra Santa. Nel 1261 fu affidato da Papa Alessandro IV ai Cavalieri Teutonici, i quali ne fecero il centro delle loro attività in Puglia e rimasero sino agli anni Ottanta del 1400. Gli scudi crociati di questi frati guerrieri sono ancora visibili all’interno della chiesa.
A partire da quella data, la Chiesa di San Leonardo, considerata Abbazia, venne data in commenda a vari cardinali, tra i quali Bonifacio Caetani, Carlo Barberini e Pasquale Acquaviva d’Aragona, che fu l’ultimo degli abati commendatari. Dal XVII secolo nella chiesa vi officiavano i frati minori. Nel 1810 l’Abbazia fu soppressa da Gioacchino Murat ed il convento con le rendite fu trasferito all’Ordine Costantiniano. La Chiesa di San Leonardo, dopo un lungo periodo di totale abbandono durato quasi due secoli, è stata riaperta al culto nel 1950 ed è sotto la tutela dell’Arcidiocesi di Manfredonia – Vieste – San Giovanni Rotondo.
Attualmente il complesso Chiesa, il Monastero e l’Ospedale sono stati affidati alla comunità dei Ricostruttori della preghiera.
Aspetto architettonico
La Chiesa è a tre navate (la laterale destra ha in parte cambiato il suo aspetto) con arcate ricadenti su semipilastri e pilastri cruciformi al centro, nella navata centrale, è coperta da due cupole disuguali. All’esterno la facciata occidentale presenta un portale che ha una semplice sagoma architravata, sormontata da una lunetta non decorata conclusa da un archivolto.
Nell’abside, sulla volta che copre l’attuale altare è visibile ciò che rimane di un affresco, si percepisce bene il volto di Cristo (pantocratore affrescato – 1200/1300). Parte di questo affresco è andato perso dopo il restauro dell’anno 2000.
Volto di Cristo posto sulla volta del presbiterio prima del restauro del 2000.
Foto recente del volto di Cristo posto sulla volta del presbiterio.
Il crocifisso ligneo di San Leonardo di Siponto All’interno della chiesa è conservata una copia del Crocifisso ligneo di San Leonardo (XII-XIII sec.), il cui originale è custodito nella Cattedrale di Manfredonia. Si tratta di un vero capolavoro d’arte medievale delle dimensioni di m. 2,44 d’altezza per 2,20 di larghezza scolpito e decorato. Molto probabilmente la parte scultorea è stata realizzata in Puglia da intagliatori locali, la parte decorativa presenta pittura e tecnica di tipo orientale. La decorazione presenta elementi tipici dello stile e della tecnica delle icone e sugerisce l’appartenenza di questo Crocifisso al mondo bizantino, invece la parte scultorea lo avvicina a quello d’Oltralpe. Il Crocifisso di S. Leonardo nel 1957 è stato restaurato presso l’Istituto Centrale del Restauro di Roma, prima di tale restauro era collocato nel primo altare a destra dell’ingresso principale. Secondo Alfredo Petrucci il Crocifisso è databile tra il 1220-1230. Nel 1958, dopo il restauro, è stato esposto all’Expo di Bruxelles. Poi per molti anni è stato esposto presso la Pinacoteca Provinciale di Bari. Finalmente il 24 aprile del 1985 è stato riportato a Manfredonia.
Una recente foto del crocifisso ligneo di San Leonardo di Siponto ora collocato all’interno della cattedrale di Manfredonia.
Sulla facciata laterale rivolta a nord c’è uno splendido portale (tra i più belli del romanico-pugliese) che molto probabilmente è stato costruito in un secondo momento, forse in epoca sveva.
Le decorazioni di questo portale richiamano quelle di Santa Maria di Pulsano, altro antico monastero garganico.
Nella parte più esterna due colonne poggiano sul dorso di due leoni stilofori che reggono, a loro volta, due animali alati che sostengono l’archivolto. Il leone di destra addenta una figura umana (il peccatore) che gli afferra una zampa in atteggiamento supplichevole; il leone di sinistra, mutilato, da quanto s’intuisce dai resti sembra addentare un serpente. Gli stipiti e le cornici del portale, dell’arco e della lunetta sono scolpiti con ornamenti vegetali, zoomorfi e antropomorfi. I due capitelli interni sono costituiti da due blocchi trapezoidali con sculture aneddotiche. Quello di sinistra rappresenta, dall’interno verso l’esterno, un Arcangelo Michele che con una lancia trafigge un drago, un pellegrino a cavalcioni su di un’asina la quale, alla vista dell’angelo con una spada, china il capo (Petrucci). Per altri autori sull’asina c’è Bàlaam al quale appare l’Angelo. Bàlaam era un mago babilonese, noto per un fatto descritto nella Bibbia (Deuteronomio 23,4-5) ed era stato inviato a sgominare con la sua magia gli Israeliti, ma venne fermato da un angelo.
Nella lunetta è raffigurato Gesù benedicente in mandorla tenuto da due angeli. Nel frontone, tra il portale ed il baldacchino, a mò di protiro, si trovano due figure maschili con aureola, scolpite a mezzo rilievo. Quella di sinistra, secondo il Petrucci, rappresenta Sant’Agostino; per altri autori è San Giacomo, ma potrebbe trattarsi di un personaggio laico: un sovrano o un pellegrino, perché intorno alla testa non vi è aureola. Quella di destra, con cappuccio sulla testa, un libro in mano ed una catena, raffigura San Leonardo. Tra i due santi molto probabilmente stava una Vergine con Bambino.
Il solstizio d’estate Sin d’agli albori della civiltà c’è stata la consuetudine d’inserire nelle costruzioni a carattere religioso elementi architettonici ispirati da modelli astronomici e matematici per arricchire di elementi simbolici il fabbricato. Il simbolismo cosmico si ritrova nelle costruzioni assiro-babilonesi, in quelle dell’antico Egitto e nelle opere sacre degli Ebrei. Alcuni elementi architettonici, che avevano sfruttato l’osservazione di fenomeni quali il solstizio d’estate e d’inverno, erano stati inseriti nel tempio che Re Salomone aveva innalzato su suggerimento divino.. Essendo il tempio o il monastero al centro del microcosmo locale, l’inserimento in essi di elementi costanti nel tempo (perenni), come i fenomeni astronomici, li rendeva più vicini a Dio. Anche a San Leonardo di Siponto ritroviamo un preziosismo architettonico del genere. Ad ogni solstizio d’estate, il 21 giugno, al mezzogiorno astronomico, il sole è perfettamente sulla direttrice, penetra con un solo raggio all’interno della Chiesa attraverso un piccolo rosone posto in una cupola e va a cadere sul pavimento al centro di due pilastri che sorreggono la navata centrale in prossimità del portale laterale. Il fenomeno è stato concepito con molta precisione, abbinando calcoli astronomici a quelli architettonici al momento della costruzione dell’Abbazia. Simili artifizi si possono osservare in altre Chiese, come ad esempio nella Cattedrale di Chartres in Francia, dove la luce passa attraverso un foro praticato in una vetrata.
l disegno spiega l’artifizio architettonico che permette, nel giorno del solstizio d’estate, di vedere la luce solare proiettata su di un punto ben preciso del pavimento.
Bibliografia
San Leonardo di Siponto. Storia di un antico Monastero della Puglia – S. Mastrobuoni Foggia, 1960.
Cattedrali di Puglia – Alfredo Petrucci, Bestetti, Roma, 1976.
I Simboli Del Medio Evo – Gérard de Champeaux e Sébastien Sterckx, Editrice Jaca Book, Milano, 1981.
Puglia: Turismo, Storia, Arte, Folklore – Mario Adda Editore Bari, 1985.
La Puglia – Italia Romanica – Pina Belli D’Elia, Editrice Jaca Book, Milano, 1987. •Chiese di Puglia, il fenomeno delle chiese a cupola – Luigi Mongiello – Mario Adda Editore Bari, 1988.
Itinerari Federiciani in Puglia – Stefania Mola, Mario Adda Editore Bari, 1994.
San Leonardo di Siponto tra storia e arte, di Alberto Gentile
Cattedrali di Puglia, a cura di Cosimo Damiano Fonseca – Mario Adda Editore 2001 ISBN 88-8082-433-3
Hubert Houben, a cura di: San Leonardo di Siponto. Cella monastica, canonica, domus Theutonicorum. Atti del Convegno Internazionale (Manfredonia, 18-19 marzo 2005. Galatina: Mario Congedo editore 2006 ISBN 88-8086-674-5
Veduta aerea del Castello Svevo Angioino di Lucera. All'interno quello che resta del palazzo imperiale di Lucera a base quadrangolare.
Esternamente le mura di cinta con torri erette da Carlo I D'Angiò. - (per gentile concessione di Raffaele Battista)
A 18 chilometri da Foggia, andando verso il preappennino Dauno, troviamo la cittadina di Lucera che è un affascinante scrigno di memorie storiche ove potremo visitare monumenti di epoca medievale come la fortezza Svevo – Angioino, la Cattedrale gotica, la chiesa di San Francesco e poi vale la pena di visitare anche l’anfiteatro romano (I secolo a.C.).
Il Palatium Svevo
Il Palatium di Federico II costruito dall’imperatore Svevo fu successivamente, con l’avvento degli Angioini, inglobato nella cinta muraria della fortezza Svevo-Angioina di Lucera.
Questo splendido palazzo fu eretto dall’imperatore Svevo, secondo alcuni studiosi nel 1233 (questa datazione non è certa), a Lucera su di un colle ove i Romani avevano costruito la loro acropoli in una posizione tale da assicurare una buona difesa. Il palazzo sorse sulle fondamenta di una diroccata di una struttura preesistente forse di epoca normanna e dal punto di vista architettonico si presentava come un maestoso torrione con una base quadrangolare (ancora visibile), a tre piani, con la parte esterna al cortile e la parte interna del terzo piano dalla forma ottagonale (vedi disegno dell’elevazione del castello eseguito da C. A. Willemsen): queste caratteristiche fanno intravedere analogie con quelle di Castel del Monte. I tre piani contenevano 32 vani che ospitavano la corte e gli appartamenti imperiali. Nei sotterranei erano site le camerate per le guarnigioni.
Una loggia ad archetti ciechi circondava il cortile a metà altezza, aperture romboidali e circolari si alternavano alle finestre a sesto acuto, una cisterna profonda 14 metri garantiva la riserva idrica, uno zoccolo quadrato, lungo 43 metri e doppio tre e mezzo, sopraelevava la galleria, nove feritoie per lato davano al palazzo l’aspetto di un bunker.
Palazzo di Federico II (Lucera). Ricostruzione eseguita da C. A. Willemsen, parte esterna. L’apertura superiore di forma ottagonale richiama quella di Castel del Monte 1972).
Palazzo di Federico II (Lucera). Ricostruzione eseguita da C. A. Willemsen, parte interna. Ben visibile la parte interna del terzo piano di forma ottagonale. I tre piani contenevano 32 vani che ospitavano la corte e gli appartamenti imperiali. Nei sotterranei erano site le camerate per le guarnigioni (1972).
Poiché il palazzo originariamente non presentava accessi dall’esterno, vale a dire un portone d’ingresso a livello della strada, si pone il problema di come si potesse accedere all’interno. Si può ipotizzare che per accedere nel Palatium, si adoperasse un sistema di scale che erano calate dall’alto. Un’ipotesi più suggestiva potrebbe essere quella dell’utilizzazione di passaggi sotterranei, avvalorata dal ritrovamento, ad opera d’archeologi inglesi nel corso di questo secolo, di condotti sotterranei lateralmente alla costruzione. Questa soluzione del tutto originale ci fa pensare che essa sia stata adottata per renderla meno agredibile dall’esterno: è quindi una conferma indiretta dell’importanza strategica di questo castello.
Era una sede molto fastosa, che ospitava parte del tesoro imperiale. Di esso rimane ben poco all’interno della fortezza che Carlo I d’Angiò fece erigere tra il 1269 ed il 1283.
1952 – foto del giornalsta Renzo Biasion relativa ai resti del palazzo eretto da Federico II.
Fortezza Svevo-Angioina anno 1909
Ricostruzione immaginaria del Palatium federiciano all’interno della cinta muraria angioina (Dipinto di Costantino Postiglione).
In quel periodo un nutrito numero di Saraceni che si erano ribellati in Sicilia fu trasferito a Lucera. Divennero guerrieri affidabili e abili artigiani, ebbero la possibilità di conservare le loro usanze e la loro religione. Lucera in arabo divenne “Lugerash”, in essa fu edificata una vera e propria moschea e ciò irritò notevolmente il clero. I Saraceni, negli anni successivi alla morte di Federico II, furono sterminati e la moschea fu distrutta dagli Angioini, che nello stesso posto eressero una nuova Cattedrale dedicata a Santa Maria.
Un esempio di ceramica invetriata realizzata da maestranze saracene presenti a Lucera in epoca sveva. Questo piatto è custoditi, insieme ad altri, presso il museo civico Fiorelli di Lucera (foto di Alberto Gentile).
Veduta della città di Lucera con dedica al vescovo Mons. Domenico Morelli (da “Il Regno di Napoli in prospettiva…”, parte III, Napoli 1703) Ben visibile nell’area del castello la domus federiciana con il torrione ottagonale ancora ben conservato.
Foto di Harthur Haseloff scattata nel 1911 nel corso della campagna di scavi effettuata presso la fortezza Svevo-Angioina di Lucera.
La fortezza Svevo-Angioina di Lucera negli anni 30 del secolo scorso, nella parte centrale sono visibili i resti del palazzo voluto da Federico II.
Una foto recente della fortezza Svevo-Angioina che vede inglobato il Palatium di epoca Sveva tra le mura di cinta.