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Corradino di Svevia

Corradino di Svevia nacque a Landshut, in Germania, nel 1252. Il padre era Corrado IV, figlio di Federico II, la madre Elisabetta di Wittelsbach (di Baviera). Noto anche come Corrado V di Hohenstaufen, fu l’ultimo sovrano della illustre dinastia: con lui si estinguerà, in pratica, la discendenza diretta. E’ stato duca di Svevia (1254-1268, come Corrado IV).
Fu re di Sicilia dal 1254 al 1258 con il nome di Corrado II, e re di Gerusalemme dal 1254 al 1268 con il nome di Corrado III.

Chiesa del Carmine Napoli – statua di Corradino 

Nel 1266, dopo la morte di Manfredi, quando aveva solo quattordici anni, fu chiamato in Italia dai ghibellini.
Allora nell’Italia meridionale erano accesi fuochi di resistenza nei confronti di Carlo d’Angiò, che fu costretto a precipitarsi verso il sud per cercare di reprimere almeno le principali opposizioni prima che il giovane Hohenstaufen varcasse i confini del regno di Sicilia.

Miniatura del Codex Manesse che illustra il quattordicenne Corradino di Svevia durante una battuta di falconeria.

La calorosa accoglienza ricevuta nella ghibellina Pisa lo incoraggiò   a continuare la marcia verso il Sud e verso l’eredità che legittimamente gli spettava.
Accolto con favore dalle città imperiali dell’Italia settentrionale, entrò a Roma trionfalmente, ponendo le premesse per una facile vittoria.
Fu allora che Carlo d’Angiò, abbandonato l’assedio della colonia musulmana di Lucera che aveva intrapreso per onorare una promessa formulata al Pontefice, si mise in marcia per intercettare al più presto l’esercito di tedesco.
L’incontro avvenne sul confine del Regno di Sicilia presso Tagliacozzo.
Era il 23 agosto 1268. Dopo le prime mosse di assaggio, i comandanti dei due eserciti accettarono lo scontro campale. L’esito della battaglia si mantenne a lungo incerto, la carneficina fu enorme finché gli Angioini più numerosi, freschi, e forse meglio organizzati, ebbero la meglio.
Ma vediamo come si svolse la battaglia.
Corradino fu sconfitto dopo un’apparente iniziale vittoria a causa di uno stratagemma ideato da Alardo di Valéry, che prese spunto a sua volta da un analogo espediente usato dai saraceni nelle crociate: il nobile Henry de Cousances, che era aiutante di campo del re, indossò le vesti del sovrano francese e si lanciò in battaglia con tutta l’avanguardia angioina preceduta dalle insegne reali. Gli uomini al seguito di Corradino si scagliarono in massa contro questa schiera, sbaragliandola. Caduto il Cousances, i ghibellini ebbero l’illusione di aver ucciso l’usurpatore francese e di avere in pugno la vittoria.

Dalla Nuova Cronaca di Giovanni Villani – Battaglia di Tagliacozzo
Codice Chigi, Biblioteca Apostolica – Vaticano

Ruppero così le loro formazioni, rilassandosi e poi inseguendo disordinatamente i franco-guelfi. Tutto ciò diede a Carlo I d’Angiò l’occasione di sferrare un nuovo attacco, questa volta a sorpresa, utilizzando 800 cavalieri che aveva tenuti in riserva e nascosti in un avvallamento. I ghibellini furono presi di sorpresa e alle spalle, non ressero alla carica della cavalleria angioina, furono travolti e si dispersi. Per lo schieramento svevo fu una disfatta che assunse in breve le proporzioni di un vero e proprio massacro. 

Battaglia di Tagliacozzo, minaitura medievale.

In un primo momento Corradino riuscì a sottrarsi alla cattura, iniziando una rocambolesca quanto umiliante fuga nella campagna, ospite di gente che forse neppure lo conosceva. Alla fine, tradito da alcuni compagni, fu catturato dalle milizie angioine ed imprigionato.
Portato in catene a Napoli, fu sottoposto ad un processo farsa, assieme ad alcuni suoi fedelissimi: quali delitti potevano essergli contestati, tranne quello di voler onorare il nome della dinastia e di affermare i propri diritti?
Condannato a morte, fu decapitato a soli sedici anni il 29 ottobre 1268 sul patibolo eretto in Campo Miricino, l’odierna Piazza del Mercato della città partenopea.
Con questa orrenda, ingiusta morte che all’epoca destò grande scalpore, finivano gli Hohenstaufen. Si dice però che alla esecuzione fosse presente Giovanni da Procida, fedele amico di Federico II, che raccolse il guanto di sfida con l’intenzione consumare presto ad una giusta vendetta.

Decapitazione di Carradino – Codice Chigi.

Dante ricorda il giovane Corradino nel XX canto del Purgatorio:
“Carlo venne in Italia e, per ammenda,
vittima fe’ di Curradino…”.

LA FIRMA AUTOGRAFA DI CORRADINO DI SVEVIA
Nota a cura di Alessandro De Troia.
Questa è l’unica firma autografa di Corradino di Svevia, nipote di Federico II, a quel tempo (Giugno 1268) appena sedicenne. Il giovanissimo svevo scrisse di propria mano la prima delle sottoscrizioni nel trattato di Pisa quando da Pavia vi giunse nella traversata verso il Sud Italia nel tentativo di strappare il regno a quel Carlo d’Angiò che appena due anni prima l’aveva conquistato uccidendo Manfredi, il “bello, biondo e di gentile aspetto” dantesco e figlio di Federico II.
A firmare con lui, il fedelissimo Federico di Baden, Duca d’Austria e Wolfrad di Veringen a cui toccò la sua stessa sorte. L’ultimo a firmare fu Guido Novello, il più importante rappresentante dei ghibellini toscani di quel periodo.
Nos Corradus Secundus Dei Gratia Jerusalem et Sicilie Rex, Dux Svevie, suprascripta manu propria confirmatus
Fonte: Archivio di Stato di Pisa


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Corrado IV di Svevia

Corrado visse la vicenda tormentata dell’uomo cresciuto all’ombra di un padre forte, autoritario, senza avere la possibilità di avere una vita propria, secondo le proprie attitudini.
Secondogenito di Federico II, nacque ad Andria il 25 aprile del 1228 dalla giovanissima Jolanda di Brienne, che l’Imperatore sposò senza amarla, solo perché gli recava in dote il titolo di re di Gerusalemme; e che morì solo dieci giorni dopo il parto.
Il padre si legò molto al figlio, vedendo in lui il proprio successore: per questo, cercò di impartirgli un’educazione rigida, finalizzata, degna di un imperatore.
Ma non tutti gli uomini accettano di essere predestinati ad un fulgido futuro.

Corrado IV interpretato da un Pittore anonimo – XVIII secolo.

Così, Corrado rifiutò la disciplina imposta dal ruolo, e si rivelò indisciplinato, privo di volontà. Il contatto ed il confronto con i fratellastri (figli bastardi dell’imperatore) che mostravano coraggio, intelligenza e amore per la poesia e le arti cavalleresche, voglia di affermarsi, gli inasprì il carattere rendendolo chiuso, diffidente e violento.
Federico non riuscì ad essere severo con lui; ma il ragazzo si rese conto della severità del padre quando questi operò la feroce repressione contro l’altro figlio Enrico, re di Germania, che gli si era ribellato.
Quando il fratellastro Manfredi gli comunicò la morte del padre avvenuta il 13 dicembre 1250, Corrado fu colto da una tempesta di sentimenti: dolore per la perdita di un punto di riferimento certo, senso di liberazione da un padre padrone che lo aveva vessato fin dall’infanzia, rabbia per non sentirsi all’altezza di una grave eredità…

Incoronazione di Corrado IV, da un manoscritto francese del XIV secolo.

Nei mesi successivi Corrado entrò in contesa con Guglielmo d’Olanda per la successione al trono imperiale, ma nessuno dei due fu eletto. Così, nel gennaio del 1252 scese in Puglia, sua terra natale, dove allontanò Manfredi e si fece incoronare re di Sicilia.
Qui cercò di rafforzare la sua posizione in Puglia e si riappropriò delle città di Capua e Napoli; quindi si oppose senza successo all’ostilità di papa Innocenzo IV, che lo scomunicò più volte.
Trascorrendo i mesi, gli anni, Corrado non riusciva ad ambientarsi nella terra che tanto aveva amato Federico. Il clima mediterraneo, nel quale peraltro era nato, non gli giovava, gli usi del posto gli erano estranei.
La sua vicenda umana si concluderà a Lavello il 21 maggio del 1254 colpito dalla stessa febbre intestinale che aveva ucciso il padre ed il nonno Enrico VI. Un altro perfido avvelenamento?
Lasciò erede il figlio Corradino che non divenne mai re. Fu sepolto a Messina.
 
Bibliografia:
• Bianca Tragni, Il Re Solo, Corrado IV di Svevia, Mario Adda Editore, Bari, 1998.
• Eberhart Horst, Federico II di Svevia L’imperatore filosofo e poeta, Rizzoli Supersaggi, Milano, 1994.
 
 
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Enzo di Svevia

Enzo — o, derivando meglio dal nome latino, Enzio (Heinrich detto Heinz, in lat. Encius, in ital. Enzio o Enzo) — nacque nel 1220 dalla relazione di Federico II con una nobildonna di origine germanica, Adelaide, che alcune fonti affermano sia stata la figlia del duca di Spoleto Corrado di Urslingen Conte di Assisi, nominato da Enrico VI Duca di Spoleto, uomo di assoluta fiducia della Casa sveva: lo stesso che aveva fornito ospitalità a Costanza d’Altavilla al momento del parto.
Detto “il Falconetto” per la sua grazia e per il suo valore, Enzo è stato un uomo decisamente interessante sotto vari aspetti: come il padre amò la cultura e lo sport, fu appassionato della caccia con il falcone, un buon poeta, amante del gentil sesso, un condottiero coraggioso ancorché sfortunato. 
 
Diciottenne, nel 1238 sposò per interessi dinastici Adelasia di Sardegna, principessa dei Giudicati di Torres e Gallura, vedova di Ubaldo Visconti, dieci anni più anziana di lui. Con questo matrimonio divenne Re di Sardegna, sollevando il risentimento di Gregorio IX che non voleva vedere occupato dalla Casa di Svevia un simile interessante possedimento, in precedenza vassallo della Chiesa. In seguito il Papa riuscì a sciogliere il matrimonio per infedeltà del marito.
Nel 1249, passò a seconde nozze con una nipote del cognato Ezzelino da Romano, della quale non si conosce il nome. Giova ricordare che Ezzelino aveva sposato Selvaggia (1223-1244), una figlia naturale di Federico.
Dai matrimoni, Enzo ebbe un figlio Enrico, non ricordato dal testamento del padre; mentre da una certa Frascha ebbe una figlia illegittima, Elena, che — ricordata nel testamento — andò sposa a Ugolino della Gherardesca conte di Donoratico.
 
L’attività militare di Enzo fu intensa.
Nel 1241 partecipò alla battaglia navale dell’Isola del Giglio: un assalto piratesco contro i prelatii inglesi e francesi che, partiti da Genova, si recavano a Roma per partecipare al Concilio Ecumenico convocato da Gregorio IX. Fu un’ecatombe di monsignori fra morti, feriti e prigionieri rinchiusi nelle carceri del Regno di Sicilia; un gesto che costerà caro alla diplomazia ed all’immagine dell’Impero.
Successivamente, combatté a lungo contro i Comuni lombardi. Nel giugno del 1247, mentre era con i Cremonesi all’assedio del castello di Quinzano presso Verolanuova, nelle vicinanze di Brescia, ebbe notizia della defezione di Parma a vantaggio dei Guelfi, e fu il primo ad accorrere in aiuto degli Imperiali presso la città ribelle.
Il 18 febbraio 1248, giorno della sconfitta, uscì indenne dalla distruzione della cittadella imperiale di Victoria — fatta erigere da Federico alle porte di Parma — perché era in missione militare sulle rive del Po.
Nel 1249 il suo esercito fu sconfitto dai Bolognesi nella battaglia di Fossalta; catturato, fu condotto in catene a Bologna.

Re Enzo catturato dai bolognesi (miniatura del Codice Chigi).
Re Enzo catturato a Fossalta dai bolognesi, così è stato disegnato da Enzo Maria Carbonari nel libro “La montagna incantata” pubblicato con il patrocinio della Fondazione Federico II di Jesi.
Stemma bicefalo di Re Enzo. (a cura di Alessandro De Troia).

Federico ne chiese con insistenza la restituzione — era stato e restava uno dei suoi figli più fedeli ed affidabili — ma i bolognesi risposero chiaramente che non lo avrebbero mai liberato. E così fu.
Durante la lunga, dorata ma tristissima prigionia nel palazzo del Podestà in Bologna, conobbe varie donne ed ebbe due figlie naturali: Maddalena e Costanza, entrambe ricordate nel testamento. Si dedicò alla poesia, scrivendo fra l’altro un estremo saluto all’amata Puglia che lo aveva visto bambino:
 
 Va, canzonetta mia,
 e saluta Messere,
 dilli lo mal ch’i’ aggio:
 quelli che m’à ‘n bailìa
 sì distretto mi tene,
 ch’eo viver non por[r]aggio
 salutami Toscana,
 quella ched è sovrana,
 in cui regna tutta cortesia;
 e vanne in Pugl[i]a piana,
 la magna Capitana,
 là dov’è lo mio core nott’e dia.
 
Enzo finirà i suoi giorni ancora prigioniero a Bologna, il 14 marzo del 1272.
Nel 1909 Giovanni Pascoli si ispirerà a lui nelle celebri composizioni poetiche “Canzoni di re Enzio”.
 
LE LIRICHE
Enzo è il più attivo e fervido tra i poeti della famiglia imperiale. L’amarezza per le tragiche vicissitudini che lo vedono protagonista trova libero sfogo nelle sue romanze, pervase di un’originale linfa poetica, priva di artifici e convenzioni.
Le composizioni risalgono al periodo nel quale è prigioniero dei Bolognesi dopo la sconfitta di Fossalta del 1249, mentre incanta prima i suoi carcerieri poi la nobiltà cittadina con la letizia e la freschezza della sua gioventù.
Ciò che resta delle sue romanze, gelosamente custodite in un quaderno menzionato nel suo testamento, sono solo pochi versi. In Amor si fa sovente, probabilmente una delle prime liriche, esprime ancora un bagliore di gioia e vitalità; in S’eo trovasse pietanza, da cui sono tratti i versi seguenti, troviamo solo la cupa disperazione di un uomo senza speranza:
 
Ecco pena dogliosa
che nel cor mi abbonda,
e sparge per li membri
sì che a ciascun ne vien soverchia parte;
Non ho giorno di posa
come nel mare l’onda.
Core, che non ti smembri?
Esci di pena e dal corpo ti parte.


 
TEMI E PROBLEMI
Re Enzo è stato sicuramente un personaggio di rilievo del XIII secolo, ma la sua figura, come quella degli altri figli di Federico II, è stata messa in ombra,  per il grande mito che si è sviluppato intorno alla figura del padre. Ma Enzo è riuscito a  lasciare il segno nella “democratica” Bologna che ancora oggi celebra e ricorda con manifestazioni, mostre e concerti il Re che fu loro ospite nell’epoca in cui la città seppe emettere il Liber Paradisus, atto con cui nel 1257 il Comune decise l’affrancamento di tutti i 5.855 schiavi e la parità fra donne e uomini.
È auspicabile che gli studiosi diano maggior risalto a questi personaggi minori che hanno segnato, pur restando fuori dal mito, momenti importanti del medioevo italiano.
 
NOTE BIBLIOGRAFICHE ESSENZIALI (CUI SI RIMANDA PER LE INDICAZIONI SULLE FONTI)
 
• Ernst Kantorowicz, Federico II imperatore, Milano 1988 (ed. orig. Berlin 1927-31).
• Gina Fasoli, Re Enzo tra storia e leggenda, in AA.VV., Studi in onore di C. Naselli, II, Catania 1968.
• Antonio Messeri, Enzo Re, Parma 1981.
• F. Bruni, La cultura alla corte di Federico II e la lirica siciliana, in Storia della civiltà letteraria italiana, diretta da G. Barberi  
• Squarotti, I, 2: Dalle origini al Trecento, Torino 1990.
• Eberhart Horst, Federico II di Svevia L’imperatore filosofo e poeta, Milano 1994.
• David Abulafia Federico II. Un imperatore medievale, Torino 1995 (ed. orig. London 1988).
• Pietro Corrao, Il regno di Sicilia e la dinastia sveva, in AA.VV., Storia medievale, Roma 1998, pp. 354-356.
 
Per approfondire si consigli la lettura del libro:
• “Bologna, re Enzo e il suo mito” di Anna Laura Trombetti Budriesi.
• Le Canzoni di re Enzio, tre componimenti poetici (del Carroccio, del Paradiso, dell’Olifante) composti da Giovanni Pascoli nel 1908.
• Storia di Re Enzo, Bononia University Press, Matteo Marchesini, Bologna 2007.
 
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