Corrado visse la vicenda tormentata dell’uomo cresciuto all’ombra di un padre forte, autoritario, senza avere la possibilità di avere una vita propria, secondo le proprie attitudini. Secondogenito di Federico II, nacque ad Andria il 25 aprile del 1228 dalla giovanissima Jolanda di Brienne, che l’Imperatore sposò senza amarla, solo perché gli recava in dote il titolo di re di Gerusalemme; e che morì solo dieci giorni dopo il parto. Il padre si legò molto al figlio, vedendo in lui il proprio successore: per questo, cercò di impartirgli un’educazione rigida, finalizzata, degna di un imperatore. Ma non tutti gli uomini accettano di essere predestinati ad un fulgido futuro.
Così, Corrado rifiutò la disciplina imposta dal ruolo, e si rivelò indisciplinato, privo di volontà. Il contatto ed il confronto con i fratellastri (figli bastardi dell’imperatore) che mostravano coraggio, intelligenza e amore per la poesia e le arti cavalleresche, voglia di affermarsi, gli inasprì il carattere rendendolo chiuso, diffidente e violento. Federico non riuscì ad essere severo con lui; ma il ragazzo si rese conto della severità del padre quando questi operò la feroce repressione contro l’altro figlio Enrico, re di Germania, che gli si era ribellato. Quando il fratellastro Manfredi gli comunicò la morte del padre avvenuta il 13 dicembre 1250, Corrado fu colto da una tempesta di sentimenti: dolore per la perdita di un punto di riferimento certo, senso di liberazione da un padre padrone che lo aveva vessato fin dall’infanzia, rabbia per non sentirsi all’altezza di una grave eredità…
Nei mesi successivi Corrado entrò in contesa con Guglielmo d’Olanda per la successione al trono imperiale, ma nessuno dei due fu eletto. Così, nel gennaio del 1252 scese in Puglia, sua terra natale, dove allontanò Manfredi e si fece incoronare re di Sicilia. Qui cercò di rafforzare la sua posizione in Puglia e si riappropriò delle città di Capua e Napoli; quindi si oppose senza successo all’ostilità di papa Innocenzo IV, che lo scomunicò più volte. Trascorrendo i mesi, gli anni, Corrado non riusciva ad ambientarsi nella terra che tanto aveva amato Federico. Il clima mediterraneo, nel quale peraltro era nato, non gli giovava, gli usi del posto gli erano estranei. La sua vicenda umana si concluderà a Lavello il 21 maggio del 1254 colpito dalla stessa febbre intestinale che aveva ucciso il padre ed il nonno Enrico VI. Un altro perfido avvelenamento? Lasciò erede il figlio Corradino che non divenne mai re. Fu sepolto a Messina.
Bibliografia: • Bianca Tragni, Il Re Solo, Corrado IV di Svevia, Mario Adda Editore, Bari, 1998. • Eberhart Horst, Federico II di Svevia L’imperatore filosofo e poeta, Rizzoli Supersaggi, Milano, 1994.
Il Regio Istituto Tecnico “P. Giannone” fu istituito nell’anno 1885 per opera del cav. Antonio Cicella, membro del Consiglio Provinciale di Capitanata.
Egli presentò una proposta al Consiglio stesso affinché a Foggia fosse istituito un Istituto Tecnico che rendesse importante la città, tanto da poter essere paragonata a quelle più grandi d’Italia.
Prese parte alle trattative tra Comune, Provincia e Governo e, riunito il Consiglio Provinciale nella seduta del 2 dicembre 1884, riferì su quanto già operato fino allora favorendo lo stanziamento di somme occorrenti per il primo impianto della scuola da parte della Provincia; in quella tornata, il Consiglio Provinciale, dopo una lunga e travagliata discussione approvò l’ordine del giorno in cui si riaffermava il voto unanime emesso con delibera precedente il 31 maggio 1882 raccogliendo voti presso il Ministero della Pubblica Istruzione per l’istituzione del Regio Istituto.
Non fu semplice tuttavia impiantare l’Istituto stesso, poiché subito dopo la prima approvazione da parte del Consiglio Provinciale, sorsero i primi contrasti tra questo Ente ed il Comune di Foggia.
Già nella lettera del 31 luglio 1884, il Sindaco scrisse al Prefetto inviandogli la Delibera Consiliare del 24 maggio 1884, approvata dal Consiglio Provinciale Scolastico e dalla Deputazione Provinciale, con la preghiera di sottoporre la pratica al Consiglio Provinciale per il concorso delle spese previste dalla legge. Nella lettera anche il Sindaco evidenziava l’importanza dell’apertura di un altro istituto tecnico maggiormente specializzato e, pregava il Prefetto di sollecitare il Consiglio Provinciale Scolastico di porre al vaglio la questione per accelerare i tempi.
Inizialmente e con Delibera Comunale del 24 maggio 1884 era stato stabilito che l’Istituto fosse amministrativamente Governativo e che comprendesse tre sezioni: la prima ad indirizzo fisico-matematico, la seconda di agrimensura, la terza di ragioneria e commercio.
Era inoltre stato stabilito che per il pagamento del personale insegnante e direttivo, sarebbe stata stanziata la somma annua di L. 40.000 versata per metà a carico dello Stato e per metà a carico della Provincia; seguendo lo stesso criterio per il pagamento degli stipendi al personale non insegnante, al Segretario della Presidenza, agli ausiliari compresi gli assistenti ed i macchinisti, sarebbe stata stanziata la somma annua di L. 6.000.
Inoltre sarebbe stata a carico della Provincia la fornitura del materiale scientifico per i laboratori di fisica e chimica, per le macchine e gli strumenti topografici, per la collezione di materie prime e di prodotti industriali, per la biblioteca scolastica e quanto altro necessario al funzionamento della scuola, per un ammontare complessivo di L. 4.000 per le spese di primo impianto.
Sarebbe stata a carico del Municipio la disponibilità dei locali e degli arredi occorrenti alla scuola, e la Provincia per l’affitto dei locali avrebbe pagato una pigione annua da stabilirsi in seguito.
A tale riguardo si pensò prima ai locali del Monastero di S. Chiara, poi a quelli del Monastero dell’Annunziata che si presentavano ampi ed idonei allo scopo. Nel verbale si legge:
«[…] Il Consiglio Comunale esprime un caldo voto all’Amministrazione Provinciale perché voglia prendere in considerazione l’immenso beneficio che l’Istituzione non mancherebbe arrecare alla Provincia e voglia contribuire per la sua parte nelle previsioni di legge a far che l ‘Istituto Tecnico per la Provincia di Foggia possa al più presto essere fatto concreto».
A tal fine, si incaricava il Sindaco, Francesco Valentini Alvarez, di espletare tutte le ulteriori pratiche con il Governo e con l’Amministrazione Provinciale.
In seguito il Prefetto vista la Legge sull’Istruzione Pubblica n. 3295 del 13 novembre 1859, inviò agli enti il Decreto del 24 gennaio 1885 che gli era giunto dal Ministero della Pubblica Istruzione, con cui si approvava definitivamente a Foggia l’apertura di un Istituto Tecnico con i tre indirizzi scelti in precedenza.
Le motivazioni erano le seguenti: la sezione fisico-matematica avrebbe avuto carattere di scuola di cultura generale e, con l’indirizzo scientifico la scuola avrebbe eguagliato gli istituti umanistici per l’importanza delle materie insegnate. La sezione di agrimensura, avrebbe avuto tra gli insegnamenti gli elementi di geografia descrittiva, le costruzioni e la geometria pratica, infine la sezione di ragioneria e commercio avrebbe reso i giovani:
«[… ] provetti nel meccanismo degli scambi, nella conoscenza delle lingue straniere ed in tutti gli argomenti di economia politica applicata, di statistica, di geografia e di diritto, specie ora che il commercio ha tanta parte nella vita dei popoli e sono scomparse le dighe innalzate dai Governi assoluti per tener divise le nazioni[…]».
Fino allora la scuola tecnica già esistente, con sede presso l’Orfanotrofio M. Cristina, aveva dato solo un modesto completamento della scuola primaria sia per le materie di cultura generale sia per quelle tecniche; pertanto il nuovo Istituto per raggiungere i risultati sperati avrebbe dovuto assumere personale specializzato, ciò avrebbe reso migliore la qualità della scuola stessa ed avrebbe dato ai giovani l’occasione di istruirsi meglio raggiungendo così, gli obiettivi perseguiti.
I bisogni della Provincia erano tali da rendere indispensabile l’apertura del nuovo Istituto, che avrebbe formato gli allievi alla conoscenza delle tecniche più avanzate, garantendo nuovi posti di lavoro. A tale riguardo, il cav. Vincenzo Lacci, Segretario Capo dell’Amministrazione Provinciale nella sua relazione sull’impianto dell’Istituto scriveva:
«[…] La immensa utilità della Sezione di Commercio è vivamente dimostrata dai bisogni speciali della nostra Provincia, che forma un centro di progredite e molteplici transazioni commerciali;[..,] le sezioni di Agrimensura e Ragioneria torneranno praticamente assai utili ai nostri giovani; specialmente perché, promulgata la Legge sulla perequazione fondiaria, la misurazione scientifica del territorio italiano, […] daranno loro larghissimo lavoro pel non breve periodo di anni 20.[…] La Sezione di Agronomia, fornisce la teoria dell’arte agraria, cioè le nozioni tecniche generali dell’Agricoltura.[,..] La Capitanata racchiude una estensione di 350 mila ettari dì terre coltivate, e capaci dì coltura.[…] Ma una delle principali cagioni della decadenza dell ‘Agricoltura di Puglia -scriveva il nostro grande tecnologo foggiano Giuseppe Rosati – consiste nella ignoranza del mestiere, diffusa non solo nei contadini,[…] ma benanco nei proprietarii e generalmente in tutti gli altri che non si brigano di queste industrie… col mezzo più valevole, onde vincere questo difetto e far risorgere l’agricoltura nel suo pieno vigore è il sapere.[…] Per creare un ambiente favorevole alla propagazione dello stesso, non può procacciarsi, se non col magistero dell’Istituto Tecnico. […] L’Agricoltura italiana ha infiniti problemi, dei quali attende la soluzione. E noi […]per la vasta estensione del territorio di questa Provincia, abbiamo ben troppo bisogno di migliorarne, anzi di trasformarne la coltura. A conseguire tanto scopo, è d’uopo che i nostri giovani imparino anzi tempo a sciogliere tutt ‘i problemi che si riferiscono alla produzione del suolo, a conoscere il valore relativo dei concimi e le diverse proprietà dei terreni coltivabili, la composizione delle piante, […] ebbene lo studio tecnico fa molto di più per l’operaio ignorante, e per la varia e numerosa famiglia degli esercenti industrie. Esso non solo da indirizzo al braccio dell ‘uomo, ma ne ravviva la forza visiva, e più che una guida da all’operaio luce d’intelletto, ponendolo in grado dì meditare e cogliere in atto la vis naturae, per farne pratica ed utile applicazione ai bisogni della vita; nel che sta proprio il substratum delle discipline tecniche».
II cav. Lacci concludeva le sue considerazioni sostenendo che se uomini illustri come Giuseppe Rosati ed altri avevano reso grande la città con il loro intelletto, con l’apertura del nuovo Istituto Tecnico altri giovani si sarebbero distinti grazie all’insegnamento tratto dalle nuove materie.
Intanto, il Ministero detta Pubblica Istruzione in una nota inviata al Prefetto comunicava che avrebbe concorso economicamente ed amministrativamente all’apertura dell’Istituto in questione previa ispezione dei locali messi a disposizione Fatte tutte le considerazione del caso il Consiglio Provinciale nella tornata di ottobre 1885 stabilì che L’Istituto Tecnico avrebbe avuto vita a partire dall’anno scolastico 1885/86, che sarebbe stato sotto l’aspetto amministrativo di tipo Governativo a patto che il Comune e la Provincia con propri stanziamenti avessero contribuito alle spese di primo impianto per il periodo suddetto.
Intanto, il Ministero della Pubblica Istruzione in una nota inviata al Prefetto comunicava che avrebbe concorso economicamente ed amministrativamente all’apertura dell’Istituto in questione previa ispezione dei locali messi a disposizione dal Municipio per accertare che gli stessi fossero idonei alle esigenze della scuola.
Ispezionati i locali dell’Annunziata, essi si prestavano solo momentaneamente alle esigenze della scuola stessa che li avrebbe occupati per una durata massima di due anni, fino a quando il Municipio a proprie spese non avesse provveduto a costruire un altro stabile. Così, iI Ministro detta Pubblica Istruzione, on. Coppino, chiese al Parlamento di stanziare la somma necessaria per l’apertura dell’Istituto Tecnico e con Dispaccio del 20 marzo 1885 interrogò gli enti preposti sulle loro intenzioni.
A tale riguardo il Cav. Antonio Cicella, rispose che la Deputazione Provinciale aveva già deliberato favorevolmente affinché entro l’anno scolastico 1885/86 l’Istituto avesse vita e per l’intitolazione della scuola aggiunse:
«[…] si delibera che nella nostra Provincia il più grande cittadino che siasi rivelato fin dal secolo XVII è lo storico Pietro Giannone nato in Ischitella, Comune del Gargano[…]».
Pertanto aveva proposto che l’Istituto fosse intitolato a P. Giannone; la proposta stessa fu approvata con voto unanime. In quella tornata fu stabilito che fosse fornito un elenco di aspiranti insegnanti da proporre su istanza degli stessi al Ministro della Pubblica Istruzione che con Dispaccio del 18 maggio 1885 deliberò favorevolmente circa l’apertura della scuola.
Intanto il 23 maggio 1885, l’ingegnere Capo dell’Ufficio Tecnico Provinciale A. Pinto e l’ingegnere Municipale Achille Petti redassero una relazione tecnica sullo stato dei locali dell’Annunziata e, dopo essersi recati ad ispezionare l’Istituto Tecnico di Bari ed aver dialogato con il Preside della scuola, dedussero che varie ragioni impedivano che la scuola foggiana fosse allogata presso l’Annunziata, adducendo la motivazione che occorreva che la scuola avesse un’estensione complessiva di 2600 mq., con ampi locali per i laboratori di chimica e di fisica nonché per la biblioteca scolastica, la sala dei docenti, l’Aula Magna ecc. L’edificio dell’Annunziata si estendeva su una superficie complessiva di mq. 1650 e, pertanto, era inidoneo allo scopo poiché mancava il primo dei requisiti: l’ampiezza.
La seconda motivazione fu riscontrata nella disposizione del fabbricato, anche se fossero stati eseguiti lavori di ripristino dei locali, fra demolizione dei tramezzi e consolidamento della struttura non si sarebbe raggiunto lo scopo, oltre alla spesa eccessiva che il Comune avrebbe dovuto sostenere; il parere dei tecnici dunque, non lasciava speranze al riguardo.
Il 18 settembre 1885, il Ministro Coppino inviò una lettera al Prefetto ed al Presidente della Deputazione Provinciale con cui riproponeva la disponibilità del Ministero a farsi carico dello stanziamento delle somme occorrenti per l’apertura della scuola, pur essendo venuto a conoscenza che i locali scelti e messi a disposizione dal Municipio in realtà non si prestavano allo scopo; tuttavia, se solo ci fosse stata la garanzia che per i primi due anni la scuola, in ogni caso, fosse stata aperta e, soprattutto, se il Comune avesse dato la piena disponibilità alla costruzione di un nuovo edificio il Ministro avrebbe appoggiato la richiesta.
Cosi il 5 ottobre 1885 il Prefetto convocò il Sindaco affinché sentito il Consiglio Comunale si deliberasse favorevolmente in merito alla richiesta ma, il 15 ottobre questi rispose dichiarando che i locali dell’Annunziata erano già pronti per accogliere la scuola facendo anche rilevare che il Comune già aveva dovuto far fronte ad ingenti spese per i lavori di ripristino; assicurò, comunque, che entro il biennio successivo si sarebbe impegnato per garantire la costruzione di un altro edificio.
Stabilita definitivamente l’apertura, l’incarico di Preside del Regio Istituto “P. Giannone”, fu affidato al prof. Vincenzo Nigri, con uno stipendio annuo di L. 300, a lui fu assegnata anche la cattedra di Agronomia e Fisica. Nel 1888/89 fu istituita la biblioteca scolastica e la direzione fu affidata al prof. Giovanni Martinelli, insegnante di Storia Naturale, con uno stipendio di L. 150 annue.
Dopo l’apertura dell’Istituto, ogni anno il Presidente della Giunta di Vigilanza della scuola inviava al Prefetto e al Presidente della Deputazione Provinciale una relazione redatta dal Preside dell’Istituto sull’andamento dell’anno scolastico; quella del 1887-88 redatta dal Preside Prof. Narciso Mencarelli riportava:
«[…] è un esame che mi riempie di soddisfazioni perché nulla può tornare tanto gradito a me vecchio insegnante quanto il dovere lodare l’opera di coloro che mi sono compagni nell’alta missione di ammaestrare la gioventù nei principi del vero, […] la massima parte degli insegnanti di questo Istituto attesero amorosamente dal principio alla fine dell’anno al compimento dei loro doveri scolastici. Ed è con animo riconoscente che io rivolgo loro una parola di lode e d’incoraggiamento per non avermi mai costretto al compimento di uffici che mi sarebbero tornati sempre duri e spiacevoli.[…]».
La relazione si concludeva con l’auspicio che nell’Istituto potesse essere installato un nuovo impianto di azienda rurale che sarebbe sorto accanto alla sezione di agraria.
Negli anni successivi la situazione rimase pressoché invariata anche se più volte i Presidi succeduti avevano inoltrato agli organi preposti le richieste per avere un nuovo edificio. A tale riguardo il Preside Prof. Michele Coppola nella relazione del 1890 sollecitava il Ministero della Pubblica Istruzione affinché l’Istituto potesse avere un’altra sede scrivendo:
«[…] L’Amministrazione Comunale avrebbe dovuto già mantenere i suoi impegni assunti col Governo, quando l’Istituto fu dichiarato Regio col provvedere in modo conveniente a quanto più volte si è richiesto. Ma credo fuor di proposito di ricordare che l’Istituto Tecnico per il lustro e decoro, onde riesce alla città dovrebbe essere tenuto in maggior considerazione.[…]».
Nel 1886 all’Istituto furono donati dieci ettari di terreno adiacente all’orto botanico affinché il prof. Antonio Lo Re potesse proseguire le sue sperimentazioni cerealicole per perseguire gli obiettivi volti al miglioramento delle colture della Capitanata; in quello stesso anno fu deciso di donare altro terreno per la sezione di Agronomia con la facoltà di decidere sull’istituzione della cattedra di Patologia Vegetale, il cui insegnante sarebbe stato retribuito dalla Provincia.
Oltre all’illustre prof. Vincenzo Nigri, parteciparono alla vita attiva dell’Istituto valentissimi docenti tra cui spiccano i nomi di: Antonio Lo Re, titolare della cattedra di Agraria ed Estimo, ricoprì l’incarico di Preside facente funzioni per quattro volte, fu autore di numerosi volumi sull’agricoltura della Capitanata e, più volte, fu insignito di onorificenze, tra queste: il 26 febbraio 1914 gli fu conferita la medaglia d’argento da S.E. il Ministro della Pubblica Istruzione per l’impegno profuso in occasione della Festa degli Alberi. A ricordo della sua infaticabile opera di educatore gli fu dedicata un’epigrafe che riporta la seguente iscrizione:
ANTONIO LO RE
DAL PRIMO SORGERE DELL ‘ISTITUTO TECNICO DI FOGGIA
IN XXXII ANNI D’ININTERROTTO MAGISTERO
LA CATTEDRA DI AGRARIA E D ‘ESTIMO
ONORO ‘ CON LA PAROLA E CON GLI SCRITTI
PRECIPUAMENTE ILLUSTRANDO TESORI E BISOGNI
DELLA CAPITANATA DILETTA
LE AMMINISTRAZIONI DELLA PROVINCI A E DEL COMUNE
MCMXX
Domenico Santoro, valente Preside, ricoprì tale incarico dal 1° ottobre 1912 al 30 settembre 1922, commissionò il busto di bronzo di P. Giannone e il 22 giugno 1913, in occasione della cerimonia inaugurale del monumento, pronunciò il suo discorso precedendo il Prof. Umberto Tria.
Carlo Palmeri, Preside, pittore e uomo di grandissima cultura. Nel 1965 ricoprì la carica di Presidente dell’Ente Nazionale Protezione Animali. Fu precursore dei suoi tempi richiamando l’attenzione degli studenti su argomenti fino allora mai affrontati, tra questi: introdusse l’ascolto della musica classica sia nell’ora di entrata nelle classi, sia durante la ricreazione;fece in modo che una parte dell’edificio della sezione staccata dell’Istituto fosse adibita ad asilo nido per i figli dei docenti; aderì a qualsiasi iniziativa che rivestisse carattere culturale facendo partecipi sia gli studenti sia gli insegnanti.
Nel 1956, nell’Istituto fuistituita una sezione sperimentale per l’allevamento dei bachi da seta; l’iniziativa era stata lanciata dall’Ente Nazionale Serico di Milano, d’intesa con l’Istituto Agrario di Capitanata, eccellenti furono i risultati, tanto che il 18 giugno 1956 la scuola fu premiata con il Diploma di Merito.
In quello stesso anno alcuni studenti si iscrissero al Corpo Nazionale Giovani Esploratori Italiani prendendo parte alle spedizioni organizzate dal gruppo scout foggiano.
Successivamente, gli studenti presero parte al corso di Cultura Aeronautica organizzato dal Ministero della Difesa, il corso si svolgeva durante le vacanze natalizie, pasquali ed estive ed aveva una durata massima di 6 giorni con due tipi di attività: la prima rivolta agli studenti delle ultime classi, il programma comprendeva anche le prove di volo ecc.; l’altra era rivolta ai ragazzi delle città prive di strutture aeroportuali; i partecipanti migliori furono premiati con pubblicazioni sull’aeronautica.
Nel 1961, con un gruppo di studenti universitari ex alunni, professori e studenti frequentanti l’Istituto, il Preside Palmeri fondò 1′ASSOCIAZIONE INTERNAZIONALE DI CULTURA con sede a Foggia che aveva come voce ufficiale ai sensi dell’ Art. 1 bis del proprio Statuto Sociale la Rassegna trimestrale «HESTIA», edita dalla tipografia S. Cuore di S. Agata di Puglia, di cui fu direttore responsabile.
La Rassegna aveva un formato di cm. 21×31 e, sulla copertina di ogni numero il titolo era preceduto dalla citazione evangelica: «Amiamoci gli uni gli altri»,mentre in basso al centro un’altra citazione recitava: «Noi siamo guidati dalle luci che illuminano e non dalle torce che incendiano; vogliamo costruire, non distruggere…».
Nel primo comitato di redazione furono annoverati i seguenti illustri docenti: Giorgio Banfo, Pompeo Bucci, Saverio Buffa, Ivo Beni, Salvatore Maria Briguccia, Rosa Caracciolo, Vincenzo Coresi, Giulia Di Leo Catalano, Angelo de’ Baroni di Gosta, Giuseppe Fabiano, Reno Fedi, Carlo Gentile, Pietro Giuseppe Lovato, Michelangelo Meola, Grazio Mandelli, Savino Melillo, Michele Notarangelo, Orazio Notarangelo, Enrico Pappacena, Guido Pepe, Donato Piantanida, Carmen Prencipe Di Donna, Vittorio Salvatori.
Nel terzo anno di vita della rivista i docenti Antonio Mandelli e Savino Melillo furono sostituiti da Fausta Nigri e Luigi Treggiari. L’impronta a carattere altamente scientifico e culturale proponeva vari argomenti che spaziavano dalla letteratura alla storia, dall’arte alle scienze, dall’esoterismo alla filosofia, dallo sport all’attualità; tutti gli articoli pubblicati erano d’interesse nazionale, l’editoriale a firma del direttore responsabile, solitamente trattava argomenti informativi inerenti alle ultime leggi scolastiche ed, a volte, erano pubblicati i testi delle circolari ministeriali con i programmi degli Istituti Tecnici. Spesso, quando gli argomenti assumevano importanza internazionale, erano pubblicati in quattro lingue: Francese, Inglese, Tedesco e Spagnolo.
Sul primo numero del 2° anno di vita della rivista, il Preside Carlo Palmeri pubblicò due tavole fuori testo rappresentanti due delle sue opere dal titolo: Luci ed Ombre tav. XXXVI, ed Aurora a S. Lucia tav. XXXVIII.
Sul secondo numero dello stesso anno, egli pubblicò altre due tavole fuori testo raffiguranti altre sue opere dal titolo: Autunno tav. IV e Primavera tav. V, inoltre in questa occasione eccezionalmente fu pubblicato un dipinto della figlia Annalaura dal titolo Bambina tav. VI.
Sempre su questo numero, apparve la prestigiosa firma del noto endocrinologo romano Nicola Pende che disquisiva sull’argomento dal titolo: La Psicologia differenziale dei popoli e le fasi psicologiche ritmiche dellastoria umana.
Sul quarto numero della rivista relativa allo stesso anno, egli pubblicava altre tavole rappresentanti le sue opere dal titolo: Muta serenità tav. XI e Solstizio d’inverno tav. X.
Probabilmente anche su altri numeri successivi egli continuò ad inserire ed a divulgare le sue opere.
Nell’editoriale del primo numero del 1964, quarto anno della rivista, il Preside Palmeri dopo aver dissertato sull’argomento dal titolo: Gli Istituti Statali di Istruzione Tecnica, salviamo la scuola dalla peste politica, parlando del poco impegno profuso dall’Amministrazione Provinciale di Foggia, accennava alle continue richieste che da tempo immemorabile aveva inoltrato all’Ente affinché provvedesse a far pavimentare il cortile della sezione staccata della scuola che aveva sede in P.zza Cavour, affinché potessero svolgersi gli allenamenti della squadra di “Pallacanestro”, ma fino allora l’Ente non aveva provveduto ad evadere la richiesta; tuttavia il fiore all’occhiello dell’Istituto era la squadra di Atletica Leggera; l’articolo proseguiva:
«[…]La proposta è stata fatta il 26 novembre 1961 l’assessore alla P.I. è andato un paio di volte a visitare il locale seguito dal segretario che prendeva appunti, da ingegneri e da geometri che prendevano le misure e facevano calcoli ma,.., ancora oggi non è stato fatto nulla. […] Anche la richiesta di istituire un gabinetto igienico per gli insegnanti e uno per le insegnanti e un altro per le alunne nella suddetta sezione staccata, le cui aule sono distribuite in tre piani è rimasta inascoltata. E ‘ venuto il solito assessore, il solito segretario che prendeva note nel suo taccuino, i soliti ingegneri e geometri, che hanno preso le misure e fatto disegni… ma, ancora oggi, se un professore… ha bisogno… deve correre al “diurno”… che sì trova in “villa” di fronte al Tribunale […]».
Rilevava inoltre, che per i laboratori di chimica e di merceologia occorreva una bidella, che per le cinque cattedre complete relative alle materie tecnico-pratiche esisteva un solo insegnante specializzato e che il tutto era rimasto fermo all’epoca dell’esistenza di un solo corso.
Fin dal 1962 egli aveva inoltrato la richiesta con la quale proponeva come soluzione alternativa, l’inserimento di alcuni giovani di «[…] eccezionale valore, diplomarsi nello stesso Istituto con votazioni meritevoli di ogni elogio[…]» e, non avendo ancora ricevuto una risposta, aggiungeva: «[…] Nella odierna ingarbugliata vita politica della nostra Patria, non è il merito che si cerca, ma… le ragioni politiche! […]». L’articolo si concludeva con l’invito da parte dei Professori e dello stesso Preside che, riunitisi il 18 febbraio 1964, dopo aver constatato l’inadempienza della Giunta Provinciale, chiedevano alle autorità superiori di intervenire in tal senso affinché con i loro provvedimenti rendessero più funzionali gli Istituti Tecnici senza che “estranei” potessero interferire con le loro decisioni. L’articolo, datato marzo 1964, era firmato dal Preside dell’Istituto.
Queste notizie offrono al lettore una breve nota su quanto accaduto in passato, sottolineando l’attualità delle problematiche.
Tra i docenti inoltre, è ricordato il prof. Orazio Notrarangelo; egli, come si è visto, faceva parte del comitato di redazione della Rassegna «Hestia», già da giovanissimo si era conquistato gli onori divenendo borsista del “Borromeo” di Pavia presso cui si era laureato; ma, legato com’era alle proprie radici preferì rinunciare alla brillante carriera che aveva cominciato proprio in quella città, per rientrare nella sua adorata “Foggia”.
Nel 1955 entrò a far parte del personale docente dell’Istituto “Giannone” insegnando presso la sezione staccata di Manfredonia; nell’anno successivo rientrò a Foggia dove rimase fino al 1976, quando lasciò l’incarico di docente dell’Istituto stesso, per affrontare un compito ancora più difficile: quello di Preside. Aveva già acquisito una lunga esperienza nel settore perché era stato Vicario per alcuni anni presso l’Istituto, pertanto, non gli fu difficile affrontare il nuovo incarico con l’amore per il suo lavoro, che da sempre lo accompagnava.
Lavorò alacremente per la scuola, prima come docente e poi come Preside dell’Istituto che oggi porta il suo nome, fino a quando un male incurabile lo rapì alla vita.
L’Istituto, inoltre, commemora attraverso alcune lapidi murarie, le gesta di chi con ardore dopo il cav. Cicella ha contribuito con il proprio impegno, alla crescita della scuola: è il caso del Gr. Uff. Emilio Ferrane, Presidente del Consiglio Provinciale e della Giunta di Vigilanza nel 1913, al quale è dedicata la seguente epigrafe:
EMILIO PERRONE
DAL MDCCCXCVAL MCMXVI ANNUALMENTE ACCLAMATO
PRESIDENTE DELLA GIUNTA DI VIGILANZA
COL FERVIDO ZELO ESERCITATO NEI PUBBLICI OFFICE
OND ‘EBBE PREMIO DELLA DIGNITÀ SENATORIA
TUTTA L’ANIMA DI CITTADINO
DIE ‘ AL LUSTRO ALL ‘INCREMENTO DELL ‘ISTITUTO
***
LE AMMINISTRAZIONI DELLA PROVINCIA E DEL COMUNE
MCMXX
Al cav. Antonio Cicella, è dedicata l’epigrafe attualmente collocata nell’Aula Magna dell’Istituto a sinistra dell’ingresso, essa riporta la seguente iscrizione:
IL COMUNE
CELEBRANDOSI LA GLORIA DI PIETRO GIANNONE
VOLLE RICORDATO IL NOME
DI
ANTONIO CICELLA
PER L’INFATICATO PATRIOTTICO ARDORE DI LUI
COL CONCORSO DELL ‘AMM.NE PROVINCIALE
***
SORSE QUESTO ISTITUTO
***
XXII GIUGNO MCMXII
Un’altra. collocata sempre nell’Aula Magna a destra dell’ingresso, è dedicata alla memoria del geom. Giuseppe Albanese Ruffo ed è sormontata dal busto in bronzo dell’eroe.
Ogni anno la biblioteca scolastica era arricchita da volumi, ma furono anche tante le donazioni giunte da collezionisti e cultori; a tale riguardo il 1° agosto 1900, il prof. Michelangiolo Fasolo donò all’Istituto una raccolta di minerali provenienti dalla Sardegna, contribuendo così all’arricchimento del materiale scientifico.
L’Istituto rimase nel locali dell’Annunziata fino al 1935, in questi anni furono numerose le celebrazioni: nel 1913 fu inaugurato il busto di Pietro Giannone, opera del prof. Luigi De Luca, docente di scultura presso il Regio Istituto di Belle Arti di Napoli, in quell’occasione il prof. Umberto Tria durante la cerimonia pronunciò l’orazione dal titolo: IlPensiero del Giannone.
Nel luglio del 1935, il Regio Istituto fu trasferito nei locali del nuovo Palazzo degli Studi, ed allogato in parte del 1° piano e del 2° piano, su una superficie complessiva di 4.100 mq.; i locali erano forniti di luce elettrica, acqua, gas ecc. molto spaziosi erano anche i laboratori di chimica, fisica e scienze naturali; la Provincia avrebbe pagato al Comune una pigione di L. 68.000 annue, con l’intervento del Prefetto; i vecchi locali sarebbero stati destinati ai PP. Giuseppini per la nuova sistemazione dell’Orfanotrofio M. Cristina, poiché la vecchia sede doveva essere demolita per lasciar spazio alla nuova costruzione del Palazzo degli Uffici Statali.
L’Amministrazione Provinciale provvide alle spese di trasferimento della scuola sostenendo una spesa complessiva di L. 25.000, stipulando un contratto a trattativa privata per l’esecuzione dei lavori di riparazione dei mobili esistenti nei locali dell’Istituto e per il trasporto degli stessi, dai locali dell’Annunziata a quelli di C.so Roma.
L’Istituto ebbe sede nel Palazzo degli Studi fino al secondo conflitto mondiale: dal ’43 al ’45 il Palazzo degli Studi fu occupato dalle truppe anglo-americane e l’Istituto ebbe come sede provvisoria alcuni locali nel Palazzo Dogana. Ritornò presso il Palazzo degli Studi quando gli americani lasciarono la città.
A Foggia vi era un secondo Istituto Tecnico intitolato a “F. Crispi” ad indirizzo mercantile, sorto nel 1928, reso Regio il 16 ottobre 1937 che con R.D. n. 711 dell’ 11 gennaio 1943 ebbe il riconoscimento giuridico e l’autonomia con l’approvazione dello statuto; mentre il “Giannone” aveva l’indirizzo amministrativo.
Nel 1945, il “Giannone” fu soppresso e fuso con il “Crispi”, in quell’occasione il Provveditore agli studi prof. Ioanna, comunicò ai Presidi dei due Istituti che il Ministero della P. I. con nota n. 6709 del 10/10/1945 aveva stabilito la soppressione del “Giannone” in quanto l’esistenza di due scuole simili nella città era superflua. Pertanto, a decorrere dal 1° ottobre di quell’anno era stata istituita una sezione per geometri presso l’Istituto “Crispi” che assumeva la seguente denominazione: “Regio Istituto Tecnico Commerciale ad indirizzo Mercantile e per Geometri Crispi”. La cosa però non piacque né alla cittadinanza, né alle amministrazioni locali, né ai docenti del “Giannone”, i quali il 20 ottobre di quell’anno, si riunirono in seduta straordinaria per inviare una petizione al Ministero della P. I., affinché fosse rivista la decisione di sopprimere l’Istituto adducendo la seguente motivazione:
«[…] l’Istituto è fra i più antichi dell’Italia meridionale, culla di valenti professionisti di cui non pochi hanno onorato la Provincia conseguendo altissimi gradi specie nell’Amministrazione Statale e nelle Forze Armate […]».
In quell’occasione furono ricordati i nomi dei “Grandi” che avevano caldeggiato per l’apertura della scuola, e che se fossero stati ancora in vita avrebbero fatto in modo che la scuola non fosse stata chiusa.
Nel successivo verbale del 30 ottobre di quello stesso anno, il personale docente, pur non arrendendosi, chiedeva che fosse almeno mantenuto il nome del “Giannone”, anche se, per motivi burocratici il “Crispi” non poteva essere soppresso.
In quel periodo gli organi della stampa locale e nazionale si interessarono al caso, tanto da pubblicare numerosi articoli riguardanti la chiusura dell’Istituto.
Ma non fu solo la stampa ad occuparsi di ciò che stava accadendo a Foggia, le proteste infatti, giunsero fino al Ministero.
Il Provveditore agli studi intanto, cercò di spiegare le motivazioni che avevano indotto il Ministero stesso a sopprimere l’Istituto Tecnico più antico della città: la ragione principale riguardava un provvedimento di riduzione della spesa pubblica con la soppressione del numero di Istituti Tecnici Commerciali risultati superflui nel paese; ma le motivazioni espresse dal Provveditore non furono ritenute esaustive, infatti né la cittadinanza né i docenti accettarono che la scuola fosse soppressa, inoltre, essendo il “Crispi” più recente, ed avendo natura giuridica simile a quella del “Giannone”, ritenevano che si potesse eliminare quest’ultimo.
Nonostante le proteste, l’Istituto fu definitivamente chiuso, e l’8 novembre 1945 fu stabilita la fusione dei due Istituti.
Le manifestazioni di protesta mosse contro la chiusura della scuola continuarono ad oltranza, fino a quando il Ministero non revocò la proposta di soppressione del primo Istituto; anche in questo caso la stampa si occupò della questione.
Più tardi l’Istituto, fu riaperto ed il “Crispi” fu definitivamente assorbito dal “Giannone” che assunse l’indirizzo mercantile con la sezione per geometri.
Finalmente dopo tanto fermento la città aveva riavuto ciò che le apparteneva di diritto e che a causa dell’ingiusta burocrazia del paese le era stato tolto… !
II 1° ottobre 1960 la sezione per Geometri si separò dando vita all’Istituto “E. Masi”, ed il 1° ottobre 1969 per l’elevato numero di studenti l’Istituto “Giannone” si scisse e fu fondato il “Rosati” ad indirizzo amministrativo.
Nel 1971 l’Istituto “P. Giannone” fu definitivamente trasferito in Via Sbano, attuale sede, costruita dall’Amministrazione Provinciale con la vendita dell’immobile della caserma dei Carabinieri che già in passato aveva ospitato alcune classi della sezione staccata dell’Istituto.
La scuola ha mantenuto l’indirizzo Mercantile fino all’anno 1999 infine, grazie all’impegno dell’attuale Dirigente Scolastico, prof. Alfonso Palomba e dei Suoi collaboratori, per proseguire nuovi traguardi ed adeguarsi alle prospettive europee, ha allargato i propri orizzonti assumendo nuovi indirizzi: quello IGEA dal 1996/97 diventato definitivo dal 2000, quello per Programmatori ed infine, quello Turistico-Iter dall’a. s. 2000/2001.
La città di Fiorentino (nel medioevo Florentinum) conosciuta anche come Castelfiorentino o Castel Fiorentino, nota ai più per essere stato il luogo ove il 13 dicembre 1250 si è spento l’Imperatore Federico II, in questi ultimi anni è stata al centro dell’attenzione di archeologi e storici.
Gli scavi archeologici (1982-1992), condotti dall’Università di Bari e dall’Ecole française di Roma, diretti dai francesi Françoise Piponnier e Patrice Beck e coordinati dalla professoressa Maria Stella Calò Mariani, hanno evidenziato elementi che fanno pensare a Fiorentino come una sede importante, una vera e propria cittadella con una cattedrale, una zona urbana e, nella parte ovest, il “Palatium” dell’Imperatore.
Ubicazione I resti dell’antico abitato di Fiorentino si trovano in agro di Torremaggiore (FG), a 9 km a sud di questa Città, sull’estremo versante ovest di una collina detta dello Sterparone: uno sperone interfluviale delimitato a nord dal Canale della Bùfola (o Bufala o Bùffala) e a sud da un piccolo corso d’acqua detto il Canaletto. (Raggiungibile da San Severo percorrendo la strada che porta a Castelnuovo della Daunia).
“Città di Frontiera” Fiorentino vanta un’origine in comune con altre “città di frontiera” volute dai Bizantini: infatti, agli albori dell’XI secolo gli imperatori bizantini tentarono di consolidare i loro possedimenti in Italia meridionale continuamente minacciati dai Longobardi a nord e dagli arabi a sud. Per attuare tale piano, i Catapani inviati da Bisanzio si lanciano alla conquista della Daunia, al fine di spostare i malsicuri confini del Thema di Longobardia (suddivisione amministrativa dell’epoca), segnati dal fiume Ofanto, verso quelli meglio difendibili delimitati dal corso del Fortore. Nascono così, tra il 1018 ed il 1040, grazie alla febbrile attività edificatoria dei Catapani Basilio Bojohannes e dell’omonimo suo figlio, numerose città-piazzeforti con il compito di munire la nuova frontiera di efficaci baluardi contro incursioni e razzie, ripopolando il Tavoliere, allora semideserto. Questi centri neoformati, quali Fiorentino, Troia, Dragonara, Civitate, Montecorvino, Tertiveri e Devia, furono da sùbito elevati a sedi vescovili, ad eccezione di Devia. Le città fondate dai due Catapani con lo scopo di difendere la nuova frontiera dalle sortite longobarde, in realtà avrebbero poi dovuto servire a fronteggiare razziatori d’altra provenienza: i Normanni, assoldati dai Longobardi. Nel tardo Medioevo questi siti sono stati abbandonati (tranne Troia), andando a costituire così un interessante patrimonio archeologico.
Cronologia Fiorentino fu baluardo dei Bizantini nell’XI secolo, contea Normanna nell’XII, nel XIII secolo, con gli Svevi, entrò a far parte del demanio, mentre gli Angioini la diedero in feudo.
L’abitato I ruderi di Fiorentino erano leggibili e misurabili ancora nel secolo scorso, quando il Fraccacreta li studiò. Le case dovevano affollarsi le une accanto alle altre, fino a schiacciarsi contro le mura di cinta, ma avevano dimensioni maggiori di quelle finora supposte, come hanno acclarato gli scavi archeologici recentemente eseguiti. Costruzioni artisticamente di rilievo e di dimensioni imponenti erano la cattedrale ed il palazzo di Federico II. La strada principale era detta “magna platea” ad essa doveva corrispondere almeno un’altra strada di minore larghezza, forse parallela, come la “platea vicinalis”. Le rimanenti vie erano strettissime e dovevano formare un dedalo e si riversavano nella strada principale. In epoca normanna la città conobbe un’apprezzabile espansione urbanistica con la nascita di un sobborgo, il “Carunculum”, situato ad est dell’abitato, che in definitiva era l’unico versante in cui si poteva edificare. In questo periodo tutti gli spazi liberi (i casalina) vengono invasi dalle abitazioni che non risparmiano nemmeno il vallo che circondava il castello. Solo la luce che proveniva dalle strade illuminava i vari ambienti delle case, non essendovi cortili né giardini interni.
I Normanni eressero, sull’estremità più alta della collina, un piccolo castello, che successivamente Federico II fece trasformare nel suo “Palatium”. Esso divenne uno dei “loca Sollaciorum” (luoghi di svago), dove trascorrere il tempo dedicato alla caccia e al riposo. La domus (collocata nel lato ovest della collina) con l’ingresso principale che volge a sud, presenta una forma di rettangolo imperfetto della lunghezza di 29 metri e della larghezza di 17 metri, diviso in due grandi ambienti, con muri rivestiti da belle pietre squadrate ed un pavimento in “opus spicatum” (spina di pesce) di terracotta, con due camini. Inoltre, sono stati trovati all’interno frammenti vitrei policromi, frammenti di capitelli e colonnine forse appartenute a finestre, monete di epoca federiciana. Probabilmente il palazzo aveva uno o due piani superiori, ciò è ipotizzabile dal grosso spessore delle pareti. Il palazzo era delimitato da un largo fossato.
Nelle abitazioni di Fiorentino sono state trovate, oltre a ceramiche, vetri e colonne, molte fosse granarie o cisterne.
A sud della strada principale nella zona urbana si trova la Cattedrale, una chiesa ad una sola navata e monoabsidale, intitolata al santo patrono del popolo longobardo, l’Arcangelo Michele; infatti, la popolazione di Fiorentino e delle altre città piazzeforti era composta prevalentemente da famiglie di origine longobarda, le uniche reclutabili in zona dai Bizantini per popolarle. In Fiorentino vi erano ben dodici chiese. Nella parte orientale del sito, nella zona al confine tra la città ed il sobborgo “Carunculum”, è collocata la Torre ancora parzialmente conservata in altezza, che poggia su uno zoccolo tronco piramidale.
Le mura della torre sono ora composte da mattoncini disposti in filari regolari (in origine, il basamento murario era costituito da una cortina lapidea a conci squadrati), l’interno mostra una copertura a crociera costolonata. Il degrado di Fiorentino iniziò già nel XIII secolo: nel 1255 le truppe del Papa Alessandro IV attaccarono Fiorentino, rimasta fedele agli Svevi, distruggendola; poi gli Angioini, dopo averla parzialmente ricostruita, la usarono solo per scopi militari. Nel 1300, iniziò la spoliazione del sito fino alla totale rovina. Tra gli elementi asportati vi è la gran lastra di marmo, usata come piano dell’altare maggiore nella Cattedrale di Lucera, che si dice fosse la mensa di Federico.
Bibliografia:
Fraccacreta M., Teatro topografico-storico-poetico della Capitanata, Forni Editore, Napoli 1828. Autori Vari, Fiorentino, Campagne di scavo 1984 – 1985. Galatina (Lecce) 1987.
Roberto Matteo Pasquandrea, Fiorentino: una città bizantina di frontiera (XI-XIV sec.) in Profili della Daunia antica, a cura del Centro FG/31 (CRSEC Foggia), Foggia, 1986.
G. de Troia, Foggia e la Capitanata nel Quaternus Excadenciarium di Federico II di Svevia, Foggia, 1994.
Martin J. M., Cuozzo Errico, Federico II Le tre capitali del regno Palermo – Foggia – Napoli, Napoli, 1995.
Martin J. M., L’apporto della documentazione scritta medievale, in: Fiorentino, Cogendo Editore, Galatina 1984.
Autori Vari, Fiorentino, Campagne di scavo 1984 – 1985. Galatina (Lecce) 1987.
P. Beck, M. S. Calò Mariani, C. Laganara Fabiano, J. M. Martin, F. Piponnier, Cinq ans de recherches archélogiques à Fiorentino, in Mélanges de l’Ecole Française. Moyen Age, 1989.
CASTELFIORENTINO Francesco Paolo Maolucci Vivolo – Bastoni 2008
Conservazione: attualmente il castello è adibito ad uso agricolo.
Come arrivarci: pur essendo a pochi chilometri da Torremaggiore, si trova in agro di Castelnuovo della Daunia, vi ci si arriva uscendo dall’autostrada A14 Bologna-Taranto, al casello di San Severo, proseguire per Torremaggiore. Giunti a Torremaggiore imboccare la Strada Provinciale 11 Torremaggiore per Casalnuovo Monterotaro, proseguire in direzione Casalnuovo per 12,5 Km, per poi svoltare a destra su una strada di campagna sterrata per 1,5 km circa.
Cenni storici.
“Città di Frontiera” Dragonara ha un’origine in comune con altre “città di frontiera” volute, agli albori dell’XI secolo, dagli imperatori bizantini: questi cercarono di consolidare i loro possedimenti in Italia meridionale minacciati dai Longobardi a nord e dai saraceni a sud. Per attuare tale piano, i Catapani inviati da Bisanzio s’impegnano in un nuovo “incastellamento” della Daunia, al fine di spostare i malsicuri confini del Thema di Longobardia (suddivisione amministrativa dell’epoca), segnati dal fiume Ofanto, verso quelli meglio difendibili delimitati dal corso del Fortore. Nascono così, tra il 1018 ed il 1040, grazie alla attività edificatoria dei Catapani Basilio Bojohannes e dell’omonimo suo figlio, numerose città-piazzeforti con il compito di munire la nuova frontiera di efficaci baluardi contro incursioni e razzie, ripopolando il Tavoliere. Tra questi centri neoformati, oltre a Dragonara ricordiamo Fiorentino, Civitate, Troia, Montecorvino, Tertiveri e Devia. Tutte le città fondate dai due Catapani, nel tardo Medioevo sono state abbandonate, ad eccezione di Troia. Per la sua importanza strategica alla iniziale fabbrica bizantina, che comprendeva anche due cinte concentriche di terra battuta, si aggiunsero le opere costruite successivamente dai Normanni e dagli Svevi e dagli Aragonesi. Alcuni documenti attestano che Dragonara fu anche sede episcopale; i suoi vescovi svolsero compiti importanti e la sua diocesi venne ereditata dalla Diocesi di San Severo nel 1580. Dai suoi vescovi dipendevano molti centri; tra questi ricordiamo anche l’abbazia di Santa Maria di Tremiti. Dragonara nel 1255 subì la stessa sorte di Fiorentino rimanendo rasa al suolo ad opera delle truppe di papa Alessandro IV.
Cronologia Dragonara fu baluardo dei Bizantini nell’XI secolo, successivamente nell’XII è passata ai Normanni, nel XIII secolo, agli Svevi, successivamente agli Angioini e agli Aragonesi, in seguito alla famiglia di Sangro.
Il Castello Dell’antica città di Dragonara rimane solo il castello, in pietre squadrate ed abbozzate, che si erge sulle prime pendici del sub-appennino dauno. Attualmente il castello, dopo gli innumerevoli rimaneggiamenti, si presenta di forma rettangolare, con un cortile interno, 3 torri cilindriche ed una quadrata; un’altra torre cilindrica, isolata, è posta ad una certa distanza dal medesimo. Questa torre, vuota all’interno, sembra che non avesse nessuna porta di entrata, salvo quella praticata in epoca recente per adibirla a stalla. Forse per accedere al suo interno si usavano scale mobili oppure, secondo alcuni, un passaggio sotterraneo di collegamento tra il castello e la torre.
Bibliografia: R. M. Pasquandrea: Fiorentino: una città bizantina di frontiera (XI-XIV sec.), in Profili della Daunia antica, a cura del Centro FG/31 (CRSEC Foggia), Foggia 1986. L. Sansone Vagni, Raimondo di Sangro Principe di San Severo, Editrice Bastogi, 1992. M. S. Calò Mariani – A. Ventura – A. Muscio – A. Altobella – J. M. Martin – P. Corsi – L. Pellegrini – U. Kindermann – E. Ciancio – A. Pepe – G. Onofrio – E. Catello – C. Laganara Fabiano, Capitanata Medievale, Claudio Grenzi Editore, Foggia 1998.
Erano anticamente molto più suggestive di quelle di oggi. Ce ne accorgiamo leggendo Usi, costumi e feste del popolo pugliese(1930) di Saverio La Sorsa e Folklore garganico (1938) di Giovanni Tancredi, opere fondamentali per gli appassionati di antiche tradizioni popolari pugliesi.
Saverio La Sorsa ci racconta che le prime note del Natale, in alcune città della Puglia, si avvertivano fin dal 6 dicembre. Era la festa di S. Nicola e nelle varie chiese l’organo suonava per la prima volta “la pastorella” o la “ ninna nanna”.
A Ruvo, ed in altri paesi in provincia di Bari, nella cattedrale venivano accese dodici lampade: dal giorno di S. Lucia se ne spegneva una al giorno; l’ultima nel momento in cui nasceva Gesù Bambino.
Anche Giovanni Tancredi ci descrive mirabilmente le dolci atmosfere che precedevano la festa più attesa dalle nostre antiche popolazioni. Verso i primi giorni di dicembre, nella città dell’Arcangelo Michele, come nei più piccoli e sperduti centri del Gargano, l’avvenimento più importante, quasi straordinario, era costituito dall’arrivo dei pifferai con la zampogna e la ciaramella.
Giungevano dall’Abruzzo e dalla Basilicata, in piccoli gruppi di due o tre persone. Erano avvolti nei loro tipici e inseparabili mantelli a ruota (ferraioli).
Accurata è la descrizione che il Tancredi ci fa del costume tradizionale di questi robusti zampognari dal viso abbronzato: cappelli a cono con le fettucce attorcigliate, corpetto di vello di capra, robone bruno (un’ampia veste di drappo pesante aperta dinanzi), camicia aperta sul collo “taurino”, calzoni di velluto marrone o verde abbottonati sotto il ginocchio, calze di lana grossa, lavorate a mano, e cioce che salgono attorno ai polpacci. Il tutto avvolto da un ampio mantellone pesante di lana blu, con due o tre pellegrine (corte mantelline) una sopra l’altra.
I due “mistici” pastori, uno anziano, l’altro molto più giovane, attorniati e seguiti da gruppi di ragazzini festanti, suonavano le loro “allegre novene” innanzi a ogni porta della città; si fermavano dappertutto: davanti alle botteghe, agli angoli delle vie, sulla soglia delle case, dove le famiglie erano raccolte attorno al focolare.
«Il più vecchio, dai capelli bianchi e dalla barba incolta, suonava la classica zampogna di legno di olivo a tre pive, stringendo l’ampio otre gonfiato fra il braccio destro ed il corpo; il ragazzo imbottava il piffero esile e snello fatto di olivo per metà e di ceraso per l’altra metà con la pivetta di canna marina. Ed entrambi accordavano le caratteristiche nenie in onore della Madonna e di Gesù.
Dopo la suonata di ringraziamento, gli zampognari facevano una “scappellata” salutando il capofamiglia con un “addio, sor padrò”, con l’intesa di rivedersi l’anno successivo. Il suono melanconico, dolce della zampogna ed il trillo stridulo ed allegro del piffero – conclude poeticamente il Tancredi – si spandevano per l’aria rigida sotto l’arco limpido del cielo».
La notte di Natale gli zampognari si recavano nella Grotta dell’Arcangelo. Si toglievano per innato senso di devozione il cappello, se lo mettevano sotto il braccio, e suonavano la pastorella, sulle note della bellissima pastorale di Bach.
Questa semplice melodia commuoveva profondamente vecchi e giovani. Toccava soprattutto la sensibilità, e «ogni fibra» delle popolane «brune e fiorenti». «Una cara tradizione, quella degli zampognari, ormai trapassata, che si rimpiange maggiormente col passar degli anni. Ora i bambini non hanno più la gioia di correre presso i ciaramellari e di circondarli di simpatia e di festa».
«Una simpatica usanza che va scomparendo, facendo venir meno la nota romantica del Natale – sospira nostalgicamente anche La Sorsa – ma, per fortuna, è ancora viva un’antica tradizione: dieci giorni prima di Natale, piccole brigate di suonatori, con chitarre e mandolini, insieme a due o tre cantori, rappresentano, di casa in casa, la lunga filastrocca della “Santa allegrezza”. Narrava la vita e la passione di Gesù».
Il fascino di Folklore garganico è proprio nelle belle immagini con cui il Tancredi ci fa rivivere un tipica notte del periodo natalizio, che è uno spaccato di ciò che avveniva in tutti i paesi del Gargano, dove la temperatura era molto più rigida di adesso, e la neve era di casa:
«Il vento fischia fra le alte cime degli alberi; sibila, ùlula fra le colonne della inferriata della Reale Basilica e i fiocchi di neve cadono sui rami nudi, sulla brulla campagna, sulle case bianche». Le filatrici e le tessitrici, «provvide massaie», chiaccherano allegramente tra di loro, non trascurando il lavoro: fanno contemporaneamente frullare gli arcolai (li uinnele) e muovere lestamente le forcelle (li matassere).
Nell’aria gelida, stemperata dal calore degli ampi e neri camini, si sente che qualche cosa sta nascendo: rinascono la fede, la speranza. «Il popolo garganico – sottolinea Tancredi – ha un vero culto per il focolare domestico. Esso rappresenta un’idea di riposo, di pace dopo il lavoro, ed è simbolo della comunione di vita e di affetti tra le persone che si amano.
Anticamente, e la tradizione si conserva ancora oggi in molte case, ogni notte si soleva serbare acceso un tizzone sotto la cenere, per accendere il fuoco la mattina seguente. Nella notte di Natale, però, nelle ampie e patriarcali cucine garganiche, la fiamma del ceppo non deve ardere soltanto sotto la cenere, ma deve brillare sempre gaia e scoppiettante».
Ecco perché, per questa occasione, vengono riservati i tronchi d’albero più grossi e pesanti, in grado di illuminare la casa per tutta la notte. La Sorsa ci spiega il significato di questo rito: il ceppo simboleggia l’albero «causa del peccato originale di Adamo ed Eva. Solo consumandosi la notte di Natale avrebbe annullato la colpa, in quanto proprio in quella notte Gesù scende in mezzo agli uomini, per la nostra salvezza».
Specialmente nelle case di campagna, il fuoco veniva acceso con un rituale quasi religioso. Doveva ardere lentamente per tutta la notte e restare acceso fino al giorno del battesimo di Gesù, cioè sino all’Epifania. Avrebbe così allontanato ogni disgrazia dalla famiglia. La cenere prodotta dal ceppo veniva sparsa nei campi, per propiziare un raccolto abbondante.
I PRESEPI
Una tradizione natalizia antica è la preparazione del presepe. Lo allestivano ricchi e poveri, ognuno secondo le proprie possibilità: poteva occupare una stanza intera, oppure una panchetta in un angolo della casa. Il presepe era contornato dalla frutta più squisita, in attesa di essere gustata dal Bambinello.
Racconta Tancredi che in molte case, per ricordare la santa grotta e la nascita di Gesù, si fa il presepe «con monti, valli, burroni, strade di carta cenerina o giallognola ben piegata e schizzata di colori e ornata di erbette e di muschi; con alte frasche verdi, fra le quali occhieggiano i corbezzoli rossi e risaltano gli aranci d’oro; con grosse zolle di terra, e con angeli sospesi sull’arco della grotta e osannanti Gloria a Dio nei cieli e pace sulla terra agli uomini di buona volontà.
Non mancano castelli, casupole di pastori, capanne solitarie a cui menano viuzze e sentieri. Il presepe con le candele accese è benedetto dal padre di famiglia».
Singolare è un’usanza di Modugno (Bari), riferita da Saverio La Sorsa. Nelle case dove c’era il presepe, la sera familiari e vicini, dopo la novena, recitavano tre Ave Maria per le camicie del bambino, tre per le cuffie, e tre per le fasce: per ricordare che Gesù nacque in una povera stalla, senza corredino usuale.
Nella nostra Peschici, per tutto il tempo di Natale, le case erano allietate da canzoni sul tema, intonate a varie riprese da tutti i componenti della famiglia, e in particolare dai bambini.
Una nenia, in particolare, riguarda proprio la preparazione del corredino di Gesù, non prima, ma dopo la sua nascita: «Ninna nanna /o Bammnell’/ che Maria vò fatjà/ gli vò fa la camicina/ ninna nanna Gesù bambin’».
Questa strofa era seguita da altre simili, a parte il capo del corredino che variava fino al completamento del cambio del neonato. Alla camicina seguivano le scarpette di lana (i’ scarpitell’), la cuffietta (a’ cuffiett’), il vestitino (u’ vestitin’). La Madonna li confezionava a mano, approfittando dei momenti in cui il suo bambino dormiva.
L’ALBERO DI NATALE
Nelle case dei signori troneggiavano anche i primi alberi di Natale. Erano ornati di arance e mandarini, abbelliti da stelle d’argento, fili d’oro, nastri di seta o piccoli pezzi di ovatta, per dare l’idea della neve. Sui rami, giocattoli, doni, chicche, cioccolatini.
Dopo la benedizione del capofamiglia, venivano distribuiti ai bambini. Poi si cantava, si suonava, si ballava, ed i padroni offrivano vari dolci e rosoli ai convenuti.
PREPARATIVI … IL PANE DELLA FESTA
In ogni famiglia, nel periodo natalizio, si dedicava molto tempo e attenzione alla cucina. Si preparavano dolci e pasti degni dell’evento. Il Tancredi riferisce che, due o tre giorni prima di Natale, quasi tutte le famiglie facevano il pane bianco le ppene suttile (mentre usualmente si mangiava il pane bruno): erano grossissimi pani circolari, convessi, detti uceddete.
Pesavano fino a otto, nove chili. «Uno degli uceddete si conservava, per devozione, fino al giorno di Sant’Antonio Abate, che ricorre il 17 gennaio, per farne pancotto».
Ricordo una canzoncina cantata da mia nonna, originaria di Vico del Gargano. Recitava: «Mò vene Natale/ mò vene Natale/ e vene a’ fest’ di quatràre/ e nà pett’l e nà ‘ranoncke/ mamma li stenne e tate l’acconcke» (Ora viene Natale, ora viene Natale, e viene la festa dei bambini/ e una pettola e una ranocchia/ mamma le stende e papà dà loro forma). La “ranoncke” era un piccolo pane spruzzato di mandorle tritate, confezionato apposta per i bambini in occasione della festa di Natale.
Ci racconta La Sorsa che a Conversano, vari giorni prima di Natale, dopo la mezzanotte i garzoni dei fornai andavano in giro per la città, battendo tegami di rame o di stagno, e gridando: «Alzàteve, femmenèlle,/ Mettite la calddarèlle, / Facite lu pane bel1e,/ Le dolce e le ciambèlle»…
In altri paesi facevano baccano a più non posso con marmitte, campane di bovi, tamburelli e fischietti, gridando per le strade: «Alzàteve megghjere de cafune/ E tembrate pèttele e calzune/ Alzàteve, megghjere d’artiste,/ E tembrate u pane a Criste:/ Alzàteve donne belle / E mettite la calddarèlle».
Invitavano le massaie a servirsi del loro forno per infornare pane, dolci e ciambelle: avrebbero avuto un buon trattamento, e a un prezzo conveniente. Anche allora esisteva la concorrenza.
… DOLCI E FRITTELLE
Molto accurati erano i preparativi per il cenone; anche nelle famiglie povere si preparavano i manicaretti di rito. Ogni paese aveva la sua specialità, e nessuno derogava dalla tradizione.
I dolci hanno un significato simbolico, e ce lo spiega La Sorsa: nella fantasia popolare le “cartellate” rappresentano le lenzuola di Gesù Bambino; i “calzoncicchi” i guanciali su cui Egli posò il capo; i “calzoni di S. Leonardo” simulano la culla; “il latte di mandorle” è evidentemente il latte della Vergine, e i “mostacciuoli” sono i dolci del battesimo.
Sempre il La Sorsa ci documenta che a Peschici le donne fanno le “pettole” lunghe mezzo braccio. In effetti, ancora oggi, la specialità peschiciana sono proprio le “pettole”.
Le massaie sono abilissime nello stendere la massa lievitata di questo dolce. Le frittelle raggiungono lunghezze considerevoli. Un proverbio invitava a non saltare questo rito natalizio per eccellenza: «I pett’le che nun cj fanne à Natale/ nun ce fanne manch’ à Cap’danne» (Le “pettole” che non si fanno a Natale, non si faranno per tutto il resto dell’anno).
Ci racconta La Sorsa che, in alcuni paesi delle Murgie, accorgimenti al limite della superstizione caratterizzano il rito della frittura delle “pettole”.
Le donne debbono impastarle solo dalla mezzanotte all’alba della Vigilia: chi per trascuratezza lo fa in altro momento, deve aspettarsi delle disgrazie.
Le contadine, secondo la tradizione, consigliano di non bere mentre si friggono le frittelle, le cartellate, le pettole, altrimenti assorbiranno troppo olio, che rischia di non bastare.
Dall’ultima pasta da friggersi, tolgono un pezzo, e dopo aver recitato una preghiera, lo buttano nel fuoco del camino in segno di augurio.
La donna intenta a friggere non dovrà assolutamente lodare la frittura senza dire: “Dio la benedica”, pena la cattiva riuscita dei dolci. Nel passare la frittura da un piatto all’altro, dovrà lasciare almeno un dolce, altrimenti gli altri andranno a male.
IL MERCATO DELLA VIGILIA
A Monte Sant’Angelo, nei giorni precedenti la festa, le strade sono più animate del solito, le botteghe offrono insolite leccornie: ciambelle, fichi secchi, pere, mele, nocciole.
«Nella vigilia di Natale, poi, in diversi punti della città, si mettono fuori le bancarelle sule quali fanno bella mostra molte sporte, di varie dimensioni, in cui le anguille sottili, agili e vive serpeggiano, si aggrovigliano, scivolano sul lastricato ed i superbi capitoni, che si pescano nei laghi di Lesina e di Varano, si muovono pesantemente; in altre ceste più eleganti si osservano i cefali, lu pesce bianche dalle squame d’argento e dagli occhi vitrei, le triglie semidorate, i merluzzi cenerini e le alici argentee messi in vendita da una ventina di pescivendoli, ciascuno dei quali a squarciagola vanta la propria merce».
Anche il La Sorsa rileva che sulle bancarelle del mercato della Vigilia si vende ogni ben di Dio: I fruttivendoli ornano «assai bellamente» le ceste delle frutta con nastri, fiori e carte veline di vario colore; altri piantano, innanzi alle loro abitazioni, l’albero del Natale carico di arance e limoni, e attorno al tronco ammucchiano la verdura.
IL CENONE DELLA VIGILIA
Il 24 di dicembre si digiuna a mezzogiorno; un proverbio riferito da La Sorsa recita: «Chi non fasce u desciune de Natale, o è turche, o è cane», comunque alcune famiglie spezzano il digiuno con qualche “pettola” ripiena di alici o di ricotta forte. La sera si fa il cenone, con la famiglia al completo. Dice il proverbio: «Natale e Pasque che le tue, Carnevale a do te trùve».
A Monte Sant’Angelo, la sera di Natale, riuniti i parenti e gli amici più intimi si cena in lieta compagnia, soprattutto per la felicità dei bambini. La cena tradizionale, in tutte le case, viene preparata nell’ampio camino.
Tradizione vuole che le famiglie dei contadini mangino «li laine pli cicere clu sughe dlu baccalà», cioè fettuccine fatte in casa, con i ceci conditi col sugo di baccalà: Il menù dei ricchi “galantuomini” prevede invece spaghetti con le alici, oppure col sugo di pesce e broccoli stufati.
Altri piatti di rito sono il capitone arrostito oppure fritto, marinato e le anguille (1’ancidd). Le più squisite sono le così dette mareteche, che crescono tra la foce del mare ed il lago.
LA NOTTE DI NATALE
A Monte Sant’Angelo la gente si riversava nelle strade, in un continuo via vai; «numerose riunioni si formano nei caffè; i fanciulli suonano la puta puta, i giovanetti l’organetto, gli uomini la chitarra battente e la francese; i pecorai la c’iaramedd e la freschett; molti cantano, altri ballano, tutti gridano, ridono, gesticolano; si sparano piccole batterie, castagnole, razzi, bombe; si accendono bengali, mentre la gente come un fiume va, va, spinta dal desiderio di divertirsi».
Con un certo anticipo sulla funzione sacra a Gesù Bambino, donne e ragazzi, con sedie e sedioline impagliate, che portano sulla testa o sotto il braccio, si avviano verso la Basilica di S. Michele, dove una folla immensa si pigia, urtandosi lungo la scalinata di ottantotto gradini e dietro la Porta del Toro ancora chiusa.
Questa veniva spalancata solo quando «dal vetusto campanile angioino le grosse campane spandevano il loro armonioso suono. La millenaria Grotta in pochi minuti è gremita di gente».
La descrizione del Tancredi ci visualizza benissimo l’idea di quello stare tutti insieme, accalcati nella Sacra Grotta: saltano inevitabilmente gli austeri e puritani tabù di quel tempo, che impediscono ai giovani innamorati di stare a stretto contatto fisico. «In questa Santa Notte, nella Reale Basilica fermentano gli amori in un dolce contatto di fianchi, di braccia, di piedi».
Naturalmente, nell’attesa della funzione, la Grotta dell’Angelo, come tutte le altre chiese, si trasformava in animata sala di conversazione; e si assisteva anche a curiosi scherzi: «I giovani, in questa confusione, cuciono le vesti alle giovanette, alle donne anziane, le quali, all’uscita della chiesa, trovandosi legate, gridano e inveiscono contro i giovani maleducati».
Nel Salento, ad ora inoltrata, anche nelle case si compiva la cerimonia della nascita del Redentore. S’illuminava il presepe con piccole candele, e da una stanza vicina muovevano in corteo i bambini e le bambine presenti; il più piccolo portava il Bambinello di cera o di creta in una culla di coralli, gli altri con candele in mano l’accompagnavano in processione.
Il padrone di casa recitava dei versetti, a cui rispondevano i presenti, delle preghiere, quindi deponeva il Bambinello nella grotta, fra Giuseppe, Maria, il bue e l’asinello. Terminata la cerimonia, si cantava la pastorella, si sparavano razzi e bombe carta, e si tornava a giocare.
ARRIVA IL GIORNO TANTO ATTESO…
Si accorre in chiesa a sentire le tre messe, in ore diverse, con un certo intervallo: la prima a mezzanotte, la seconda all’aurora, la terza a giorno inoltrato. Tutti si vestono a festa: «La notte de Natale/ Se mutene pure le ferrare»(La notte di Natale si cambiano anche i fabbri).
Per le vie ognuno rivolge gli auguri alle persone che incontra. Molte famiglie si scambiano i doni: per le vie è un via vai di servette e di ragazzi che portano, avvolti in bianche salviette, piatti speciali a questa o a quella casa.
CREDENZE E SUPERSTIZIONI
Si pensava che la notte della Vigilia Gesù, accompagnato da schiere di Angeli, scendesse nelle case: portava pace e felicità fra gli uomini. Riferisce La Sorsa: «Le donne ritengono che a mezzanotte la Madonna scenda dal camino, e asciughi al calore del ceppo i pannolini che devono fasciare il Bambino».
Dopo la cena si lascia la tavola imbandita: si ritiene che debbano venire dall’altro mondo le anime dei parenti morti, i quali per gentile concessione divina potranno partecipare, solo per quella notte, alla felicità domestica.
A mezzanotte gli animali, per grazia speciale del Redentore, potranno parlare; ma è vietato osservarli, pena la morte istantanea.
Se si spegne il ceppo, è cattivo augurio: potrebbe morire il padrone di casa. Molte persone conservano i resti del ceppo per esporli in caso di burrasche o temporali. La cenere, posta sul collo dell’ammalato, guarirà il mal di gola; le donne la conservano in una tazza, esprimendo il desiderio di voler vivere un altro anno.
Allo scocco della mezzanotte, i vecchi insegnano ai giovani gli scongiuri per evitare le tempeste, o il “pater noster verde”: allontanerà i tifoni e distruggerà il malocchio.
Se una ragazza la notte del Natale si guarderà allo specchio con i capelli disciolti potrà vedere, invece della sua immagine, quella del suo futuro sposo.
Le donne che impastano la farina la notte della Vigilia, possono fare a meno del lievito: Gesù farà crescere lo stesso il pane.
Nei paesi del Foggiano si crede che chi nasca nel giorno destinato al Bambino, divenuto giovane, sia preso da una forma di pazzia, e diventi “lupo mannaro”. Per guarire tale malattia occorrerà, con coraggio, pungere, con la punta di un coltello, l’ammalato, allo scocco della mezzanotte, per “fargli uscire il cattivo”.
AUSPICI PER UN BUON RACCOLTO
Un grande attenzione è riservata alla campagna. I contadini, terminate le pratiche religiose, vanno in campagna a trarre gli auspici per il nuovo raccolto. Il primo augurio è che il sole regni incontrastato nella volta azzurra.
Se a Natale il cielo è limpido e sereno, ed a Pasqua è oscurato da nubi, il raccolto delle biade sarà sicuro: «Natale sicche,/ massare ricche». In tale giorno si osserva la pianta della fava; se è nata e si mostra ben avviata, è buon presagio per il raccolto delle olive e delle mandorle.
I caprai prevedono il tempo dal modo come in quel giorno le pecore brucano l’erba. Il giorno di Natale è quindi giorno di buon auspicio. Regolerà l’andamento dell’annata, allo stesso modo che il giorno natale d’un bambino determinerà tutta la sua vita.
UNA NUOVA SOLIDARIETÀ… NEL SEGNO DI QUELLA ANTICA
Nel rievocare il clima del tempo che fu, le antiche tradizioni di fine Ottocento, inizi Novecento, perché la memoria dei nostri padri non sia dimenticata, un dato ci colpisce: nonostante le condizioni di vita più precarie di oggi, un senso innato di solidarietà caratterizzava il popolo pugliese.
Come ci racconta Saverio La Sorsa, i contadini amavano invitare nella propria casa i derelitti e gli orfani per offrire loro un buon boccone, per evitare che vadano raminghi e provino stenti in quella notte.
I “poverelli”, ospitati a tavola in quel giorno, facevano le veci delle “anime dei morti”. E se c’era qualche amico, che non aveva potuto raggiungere la propria famiglia lontana, veniva invitato. Gesù Bambino, ospitato a suo tempo in una grotta, sarebbe stato felice di sapere che nessuno, il giorno della sua nascita, era senza tetto e conforto.
Anche adesso, in questi giorni di Natale, c’è un uomo… ci sono uomini, donne, giovani e bambini, che non hanno una casa dove tornare, né un pranzo caldo, né amici o parenti, con cui condividerlo.
Un uomo… tanti uomini… poveri, sfortunati, colpiti da eventi tristi e luttuosi, da tragedie. E noi non possiamo voltare la testa dall’altra parte, non possiamo dire “non mi riguarda”.
Questi uomini senza voce, senza potere, senza speranza, non vogliono essere dimenticati. Per Natale, sforziamoci di non essere distanti! Dimostriamo una nuova solidarietà, una solidarietà concreta, non fatta soltanto di vane parole. Anche un gesto piccolo è importante!